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USA bombarda Baghdad. Di nuovo
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IRAQ - Le forze aeree americane hanno bombardato giovedì un sobborgo meridionale di Baghdad, Arab Jabour.

Due B-1 e quattro F-16 hanno lanciato venti tonnellate di bombe sull’abitato, che secondo il Pentagono è sotto il controllo di «Al Qaeda».

In realtà, si tratta di una rappresaglia per l’uccisione di nove soldati americani uccisi dalla guerriglia nei due giorni precedenti (1).

Una rappresaglia di stampo nazista contro la popolazione civile - una Marzabotto irachena -  commessa su una città occupata da quasi cinque anni, e dopo settimane in cui la propaganda americana vantava una «pacificazione» del Paese e una diminuzione (del 62%) degli atti di guerriglia, grazie (ci è stato detto) al fatto che i sunniti si sarebbero alleati con l’occupante per liquidare «gli stranieri di Al Qaeda».

La finzione è caduta.

Il generale Mark Hertling, comandante della forze occupanti nel Nord Iraq, ha ammesso che attacchi «spettacolari» sono stati messi a segno in pochi giorni contro le sue truppe, a forza di autobombe e attacchi suicidi (2).

E ciò nonostante i «successi» delle forze d'occupazione, che hanno ammazzato o catturato «venti importanti militanti».

Ovviamente, secondo la propaganda USA, si tratta di «militanti di Al Qaeda», e non già di civili e resistenti iracheni.

La vasta rappresaglia con bombardamenti dal cielo, denominata Phantom Phoenix, ha investito anche le località di Dyiala e Bakuba, strapiene anch’esse di «militanti di Al Qaeda».

Il generale Hertling ha detto che gli attacchi della resistenza («Al Qaeda», nel suo linguaggio) sono diminuiti in numero («pacificazione»), ma sono «più spettacolari e dalto profilo», per «intimidire la popolazione».

Ovviamente le 20 tonnellate di bombe sul popoloso quartiere di Baghdad non intimidiscono la popolazione.

Il numero dei morti non è stato riportato, come al solito.

L’Air Force deve ancora bombardare la capitale che occupa.

Dopo gli ulteriori 20 mila soldati spediti da Bush in Iraq nel gennaio 2007 per stroncare la violenza endemica.

Dopo una vasta offensiva nel febbraio 2007, in seguito alla quale fu annunciato che 30 mila soldati USA avrebbero potuto essere ritirati a metà 2008.

Dopo l’arruolamento di 70 mila miliziani sunniti per combattere «gli stranieri di Al Qaeda», una truppa di cui il governo-fantoccio sciita diffida profondamente, armata com’è dagli americani, e che presto si lancerà contro il cosiddetto nuovo esercito iracheno, composto da miliziani sciiti.

In realtà, i diplomatici e i militari ammettono in privato che la «pacificazione» è ben lontana, se non si risolverà la questione della suddivisione degli introiti petroliferi fra le tre etnie che stanno diventando stati separati, curdi, sunniti e sciiti.

 

La situazione ricorda molto da vicino il martirio di Falluja.

Gli americani dichiararono vittoria contro la città sunnita rasa al suolo nell’aprile 2004, e poi dovettero ripetere la «vittoria» con un nuovo attacco, ferocissimo, su Falluja nel novembre dello stesso anno.

Una strage mai completamente rivelata nelle sue dimensioni, e condotta con l’uso di armi al fosforo.

Allora, un analista militare di Globasecurity, John Pike, diceva al Christian Science Monitor (29 ottobre 2004) con dispetto: «Perché lIraq non è come la Germania e il Giappone, che sapevano di essere sconfitti? Una delle sfide che abbiamo davanti oggi è che questa gente non sa di essere stata sconfitta. Falluja sarà loccasione per loro di essere schiacciati in modo definitivo e di gustare la disfatta» (3).

La resistenza irachena non fa la guerra secondo le regole: bombardata e massacrata, non sa di essere sconfitta.

Essa conduce la vecchia guerra di sempre, la guerra senza l’occhio ai bilanci e ai sondaggi; la guerra fatta di sacrificio e di ostinazione, dove tutto sta nel non darsi per vinti, che magari - in altri tempi e luoghi - si chiamava eroismo.

Chissà che questa fiammata di ferocia coincida con il viaggio di George Bush nell’area è forse simbolicamente significativo: uno spirito di male ha acquistato forza.

Appena atterrato all’aeroporto Ben Gurion, il presidente americano è stato accolto dal rabbino capo degli askenazi, Yona Metzger, che gli ha detto: «Voglio ringraziarla per il sostegno che dà ad Israele, e in particolare per aver fatto guerra all’Iraq».

Bush ha risposto che le parole di rabbi Metzger gli «riscaldavano il cuore».

Nelle stesse ore, i suoi colossali bombardieri lanciavano 20 mila chili di esplosivo su Baghdad. Secondo Newsweek, rabbi Metzger è una delle «12 figure religiose più influenti del mondo», accanto al Dalai Lama e all’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams (4).

Poco dopo, Bush ha promesso a Ben Netanyahu che gli USA saranno a fianco di Israele anche in caso di un attacco nucleare israeliano contro l’Iran (5).

Lo ha confermato lo stesso Netanyahu uscendo dai 45 minuti di conversazione col presidente al King David hotel.

 

«Gli ho esposto la mia posizione», ha detto, cioè che un attacco atomico preventivo contro l’Iran è il solo modo di impedire che Teheran diventi una potenza atomica, «e Bush ha concordato».

Netanyahu ha anche detto a Bush: «Gerusalemme appartiene al popolo ebraico e rimarrà sotto sovranità israeliana per leternità».

Nella conferenza stampa seguente, a fianco di Olmert, Bush ha minacciato ancora una volta l’Iran.


Note

1) «US launches massive Iraq air raid», BBC, 10 gennaio 2008.2) «US general saysspectacularQaeda attacks rise in Iraq», AFP, 9 gennaio 2008.3) «Falloujah en Technicolor», Dedefensa, 31 dicembre 2007.4) Matthew Wagner, «Chief rabbi thanks Bush forwar againsti Iraq», Jerusalem Post, 10 gennaio 2008.5) «Well nuke Iran - Bush promises Israel», Presscue, 10 gennaio 2008.