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Nella trappola della stupidità terminale
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Con il crollo della Bear Stearns, una delle più colossali banche della globalizzazione, non sono più ammesse illusioni: è il nuovo ‘29. Moltiplicato però, in rapporto con il titanico moltiplicatore del debito (leverage) che la deregulation totale ha consentito ai predatori d’azzardo (1).

Adesso probabilmente sarà Lehman Brother a seguire Bear Stearns nel precipizio del nulla. Seguiranno «Fanny Mae» e Freddie Mac, le due agenzie semi-governative inventate durante il New Deal, che «garantiscono» il 60% del mercato dei mutui, pari a 11 trilioni di dollari (il PIL americano è sui 15 trilioni).

Quanto alle assicurazioni «monoline», che garantiscono i titoli di debito emessi dai municipi, Stati e contee americani, le loro azioni hanno perso il 90% dall’autunno: presto anche il mercati dei debiti pubblici locali, 2,6 trilioni di dollari, svanirà in una nube d’insolvenza: le autorità locali non avranno i mezzi per far funzionare scuole, servizi, ospedali, per assistere i poveri che cresceranno a milioni. I fondi pensione dovranno liquidare i loro portafogli azionari a mercato precipitante, azzerando le speranze di serena vecchiaia per altri milioni di persone.

Nel ‘29, la catastrofe fu molto meno rapida: fallirono 4 mila banche, per lo più piccole, e la cosa durò anni. Oggi la Union des Banques Suisses, è già nella morsa del crollo americano, prima ancora che Bear Stearns, la peste si espanda nel mondo fulminea. Alcune riflessioni si impongono.

La prima: gli Stati Uniti, e il loro «liberismo» propagandato come promotore di prosperità diffusa, hanno provocato i più gravi e ricorrenti danni economici della storia del mondo. La crisi del ‘29, che si trascinò fino al ‘39 quando la seconda guerra mondiale assunse il ruolo di «grande consumatrice» (di uomini, materiali e capitali), nacque in USA per le stesse identiche ragioni che hanno provocato la crisi incombente: deregulation, assenza di ogni controllo, vendite allo scoperto, corsa all’indebitamento di enti e famiglie, «creatività» finanziaria di Wall Street.

Lo hanno rifatto, ripetutamente, più volte: tutti sordi, economisti da cattedra e strateghi di Borsa, all’esperienza passata del distruttore americano. E tutte le volte, l’intervento pubblico, ideologicamente rigettato quando si trattava di privatizzare i profitti, fu invocato ed ottenuto dagli speculatori nel momento di rendere pubbliche le perdite loro.

Nel 1984 la Continental Illinois, che aveva puntato sul boom petrolifero del Texas proprio mentre stava esaurendosi, fu salvata con una iniezione di 4,5 miliardi di dollari. Nel 1998 il fondo speculativo Long Term Management Company, creato da due economisti-Nobel che sperimentarono le teorie per cui avevano ricevuto il premio, fu parimenti salvato dalla Federal Reserve e da un consorzio di banche: le teorie «razionali» premiate si rivelarono fallaci quando la Russia di Eltsin, saccheggiata dal capitalismo terminale, si rese insolvente.

Già allora la rovina coinvolse i BOT italiani e quelli spagnoli e danesi. Di mezzo ci sono state bancarotte argentine, thailandesi, messicane, indonesiane, indotte dai capitali roventi in cerca di profitti irreali in quei Paesi «emergenti». Come nulla fosse. L’ideologia liberista fu resa ancor più globale - interdipendenza totale delle economie nazionali, nessun dazio, nessuna paratia stagna contro l’alluvione americana.

Se ci sarà un futuro, gli storici del futuro racconteranno la triste storia di quando nel mondo «comandava» la più idiota delle superpotenze bottegaie mai apparse, la cui sete di profitti indebiti (tali sono quelli finanziari, se non  lubrificano l’economia reale) ha oscurato ogni intelligenza ed ogni memoria. Si dovrà descrivere il liberismo planetario senza regole come l’epoca in cui chi guidava le cose pubbliche perse ogni senso di responsabilità, divenne un potere puramente criminale, volto a scremare profitti dal sangue di centinaia di milioni di lavoratori, di deboli che indebitava.

E non solo in America: la deregulation ha significato anzitutto l’abbandono di ogni dovere di responsabilità da parte delle classi dirigenti; in ogni luogo del pianeta la «privatizzazione» ha significato questo: ciascuno per sé, i meno forti vadano in rovina, a noi ricchi non importa. Questa è l’epoca in cui i popoli sono stati traditi dalla «democrazia».

Lo sapeva già il presidente Andrew Jackson, che disse nel 1828: «Il governo deve essere gestito nell’interesse del piantatore, del contadino, del meccanico, dell’operaio che formano il gran corpo della società degli Stati Uniti. Queste classi sanno che i loro successi dipendono dalla loro propria industriosità e risparmio, e non s’aspettano di diventare ricchi di colpo coi frutti delle loro fatiche. Ma questi sono in costante pericolo di perdere la loro onesta influenza sul potere a vantaggio degli interessi finanziari, che traggono il loro potere da una moneta cartacea che solo loro sono in grado di controllare». Parole inutili.

Dopo la guerra civile, gli interessi capitalistici formarono il Paese secondo i loro desideri, senza incontrare resistenza nei governi. In USA, tra il 1860 e il 1900 la produttività dei lavoratori crebbe di 15 volte (chi produceva per 1.540 dollari nel 1860 produsse nel ‘900 per 25 mila dollari), ma le loro paghe aumentarono nel quarantennio solo di 4 volte. Il salario annuale era di 297 dollari nel 1860, di 384 nel 1870, di 427 nel 1890. Nel decennio precedente il salario addirittura scese, a 345 dollari annui.

Come oggi, anche allora il boom dei capitalisti non fu che questo, retribuzione massima del capitale a spese della retribuzione del lavoro. Da questo deriva il denaro per le speculazioni fantasiose dei capitalisti, che portano a ricorrenti rovine. Questo è il sistema che noi europei abbiamo voluto adottare alla fine del ventesimo secolo - nessuna resistenza contro la globalizzazione ultra-liberista s’è mai alzata dalla «sinistra» e dai sindacati - con gli stessi risultati.

Negli anni ‘30, la resistenza ci fu: fu il «populismo» (2), furono, almeno inizialmente, i fascismi, la cui forza nativa fu nella spinta socializzatrice. Ma oggi, il capitale ha trovato il modo di neutralizzare la volontà popolare degli sfruttati, e l’ha chiamato «democrazia». Una versione speciale di democrazia. Lo ha spiegato Henry Liu, un economista americano di origine cinese.

Ecco la sua citazione (3): «Le elite potenti e privilegiate hanno trovato uno scudo efficace contro il populismo attraverso la strumentalizzazione tortuosa del principio costituzione dei diritti delle minoranze, che originariamente era stato concepito come difesa dei deboli e dei senza-potere. il termine ‘minoranza’  fu originariamente inteso a denotare quelli con meno potere, non quelli in piccolo numero».

Ah già: questi nostri anni di irresponsabilità terminale saranno ricordati come quelli in cui ci si batteva per i diritti dei gay alle nozze, per i diritti degli ecologisti, o dei drogati, o degli immigrati clandestini, per l’eutanasia, per l’aborto, a difesa di speciali «minoranze» le cui rivendicazioni servirono solo ad oscurare i bisogni essenziali della maggioranza popolare, a dividere tale maggioranza con falsi problemi.

Gli anni del capitalismo sregolato sono quelli in cui gli speculatori promossero i «diritti delle minoranze», quelli in cui transessuali travestiti entrarono nei Parlamenti. A tradire la democrazia, applicandola ad absurdum. Mentre gli operai erano pagati sempre meno ed erano sempre più precari. Bravo Henry Liu. Ci sarebbe bisogno di lui in Cina.

Perché nella grande tempesta di idiozia che segna il capitalismo estremo, non bisogna dimenticare la Cina, col suo governo di nomenklatura autodefinitasi «comunista». Il «comunismo» mercantile ha abbracciato la globalizzazione con dissennato entusiasmo, facendosi il fornitore del consumismo americano più cretino. Ha guadagnato montagne di miliardi di dollari, le sue «riserve». A che cosa si sono ridotte le riserve cinesi, in dollari che hanno perso il 50% del loro valore nel giro di settimane, e che stanno per diventare carta verde buona da riciclare o bruciare?

Peter Schiff, l’economista che è consulente di Ron Paul, prevede un collasso totale del dollaro a breve termine come moneta di riserva mondiale (4). La Cina si è legata da sola al destino americano, del suo maggior cliente globale. Gli ha fornito i soldi per comprare le sue merci a credito, e ne ha ricevuto montagne di Buoni del Tesoro, carta da cesso  che ha tesaurizzato. Ora, per salvare i suoi risparmi, tenta ridicolmente di sostenere il dollaro, la moneta del suo nemico teorico nella prossima grande guerra mondiale.

L’economia cinese è tanto incastrata con quella economia americana, che la sta per seguire nel precipizio, come un prigioniero incatenato ad una carcassa di bue obeso e morto. Chi comprerà le sue merci?

L’illusione di aver raggiunto lo status di superpotenza è stata breve: Cina e India insieme, i cui immensi popoli a bassi salari consumano meno di 600 milioni di dollari l’anno (una frazione ridicola del consumo degli americani) non possono certo sostenere la «domanda globale». Questi allievi ingenui del cattivo maestro globale hanno voluto le loro Borse: oggi sono bolle finanziarie gonfiate di valori irreali, che stanno cadendo a precipizio in sincronia con Wall Street.

Per la Cina, il risultato prevedibile sarà una recessione importata, con inflazione congiunta, e disordini sociali delle sue masse mal pagate che hanno appena odorato il falso paradiso dei «consumi» superflui e delle false griffes. La subalternità europea all’ideologia totalitaria ultima non ci stupisce, non più: siamo goym scodinzolanti. Ma due Paesi immensi, che avevano la forza demografica e culturale di imporre un nuovo modello di sviluppo sociale e un nuovo «comando» nel mondo, sono invece subalterni del cattivo maestro planetario.

Infatti, come reagisce Pechino alla crisi? «Dopo una pausa di oltre un anno, il governo ha riaperto la porta della sua Borsa ai capitali esteri, contando così di rialzare i corsi delle azioni in yuan». Ciò, si noti, su pressione di Washington, di «aprire di più i suoi mercati» (5).

Il primo capitale estero cui Pechino ha aperto le porte è il Fondo Pensioni Norvegese, fondo sovrano, in cui sono ammassati gli introiti petroliferi del Mare del Nord. Comprerà azioni a Shanghai negli attuali prezzi bassi, farà buoni profitti e se ne andrà. E’ il fondo più colossale della storia, il norvegese: abbastanza grosso da manipolare i prezzi nella Borsa di Shanghai, proporzionalmente minuscola, a danno dei piccoli risparmiatori cinesi. D’altra parte che fare?

Sono le leggi del «mercato», cui la Cina aderisce. Quel «mercato» che sta crollando sotto i nostri occhi ciechi. Sì, ricorderemo questa come l’epoca in cui comandò la stupidità, e l’irresponsabilità guidò le nostre vite verso la penuria globale di cibo e di carburante, nell’eclisse del buonsenso.




1)  Ambrose Evans-Pritchard, «Bear Stearns exposed as a bank saddled with toxic sub-prime debt», Telegraph, 14 marzo 2008.
2) Un People’s Party esistette in USA fin dal 1891, sin dall’inizio contrastò duramente il capitalismo di ventura in nome di un socialismo nazionale, di cui i detrattori  avrebbero sottolineato in eterno le affinità col fascismo. I «populisti» ebbero molti leader, nessuno riuscì ad imporre una riforma del capitalismo americano, alcuni furono uccisi in attentati. Valga qui, per le concezioni del populismo, la frase che pronunciò William Jennings Bryan, un candidato democratico: «There are two ideas of government. There are those who believe that if you just legislate to make the well-to-do prosperous, their prosperity will leak through on those below. The Democratic idea has been that if you legislate to make the masses prosperous, their prosperity will find its way up and through every class that rests on it ... Having behind us the producing masses of this nation, and the world, supported by the commercial interests, the labor interests, and the toilers everywhere, we will answer their demand for a gold standard by saying to them: You shall not press down upon the brow of labor this crown of thorns, you shall not crucify mankind upon a cross of gold». (Ci sono due idee di Stato. Ci sono quelli convinti che se tu fai leggi per rendere più prosperi i benestanti, la loro prosperità finirà per gocciolare su quelli che stanno sotto. L’idea democratica è che se tu fai leggi per migliorare la vita delle masse, la loro prosperità salirà alle classi superiori che dal lavoro delle masse dipendono. Avendo dietro di noi le masse della nazione, e i lavoratori del mondo, noi rispondiamo alla domanda di un gold standard (che significava: cambi fissi, rigore tipo BCE, unità monetaria di fatto, ndr.) con queste parole: voi non calcherete sulla testa dei lavoratori questa corona di spine, non inchioderete l’umanità a una croce d’oro).
3) Henry C. Liu, «The shape of US populism», Asia Times, 14 marzo 2008.
4) Steve Watson, «Leading economist: dollar faces outright collapse», PrisonPlanet, 14 marzo. Schiff dice: «The decline could accelerate rapidly. The world is still holding a lot of dollars it doesn’t need». Schiff paventa la fuga dal dollaro simultanea dei Paesi con forti riserve (arabi petroliferi e Cina), anche attraverso l’abbandono del legame delle loro monete col dollaro, che sta facendo imbarcare inflazione all’interno.
5) Sally Wang, «China opens door wider to foreign funds», Asia Times, 14 marzo 2008. «The move seems to have renewed xenophobic feelings among many Chinese small investors and some market analysts, who say the move benefits foreigners who can buy Chinese shares cheap, given the current low prices, and sell them later to make profits». Segno che la sfiducia  e il disprezzo della Casta - di ogni Casta locale - dilagano, vero fenomeno globale genuino.


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