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Tecnica, magia ed ethos cristiano
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Uno dei fattori distintivi e profondamente caratterizzanti dell’epoca contemporanea, così complessa e talvolta indecifrabile, è sicuramente rappresentato dall’aspetto tecnologico. Viviamo una realtà nella quale la tecnologia è presente praticamente in ogni aspetto della vita quotidiana. L’esistenza stessa dell’uomo è sempre più scandita secondo criteri e tempi fortemente tecnologicizzati.

Quali riflessi ha, nell’ambito morale ed etico dell’uomo,  quella «forma mentis» che deriva da questa situazione e che qualcuno ha definito «mentalità tecnicista»? Come si colloca nei confronti della religione e della tradizione? Quali sono le sue premesse filosofiche e quali le conseguenze sul piano pratico nella vita di tutti i giorni?

Da tempo nel mondo occidentale la tecnologia sta oltrepassando la sua peculiare funzione strumentale per diventare essa stessa il fine. Negli ultimi decenni lo sviluppo tecnologico ha permesso ad una larghissima fascia di popolazione l’accesso a strumenti sofisticati. Questo allargamento dell’opzione tecnologica se da un lato ha portato indubbi benefici e nuove possibilità, dall’altro ha presentato importanti conseguenze sul piano morale. Appare infatti evidente che l’accrescimento dell’accessibilità agli strumenti che la tecnologia offre ad un sempre maggiore numero di persone non sempre ha come risultato un’autentica crescita umana in termini conoscitivi e morali. Il fatto stesso che la maggior parte delle persone che utilizza un cellulare, un personal computer o una consolle per videogiochi abbia solo una vaga idea dei processi che permettono il funzionamento di quegli strumenti, rispetto ad esempio alla conoscenza che un contadino aveva della propria vanga o del proprio aratro suggerisce che quest’ultimo avesse una conoscenza più autentica della realtà in cui viveva rispetto all’uomo medio contemporaneo (1).

D’altro canto l’illusione di accrescere la propria qualità di vita tramite l’acquisto degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione è parte integrante di quel sistema che alimenta la cosiddetta società dei consumi. Il concetto marxista di «progresso» ha finito così per identificare la propria promessa messianica di un avvenire luminoso con l’avvento della tecnoscienza. Un avvenire non più inteso come realizzazione di giustizia sociale ma piuttosto come soddisfacimento dei desideri edonistici individuali, epilogo inevitabile di un’ideologia che poneva come proprio fondamento l’ateismo materialista.

Oggi, ciò che serve per essere «moderni» è sostanzialmente un assenso completo e incondizionato alle infinite possibilità offerte dalla tecnica. Parimenti, il fare riferimento a valori assoluti ed immutabili sarà considerato come sintomo di arretratezza e velleità oscurantiste (a questo proposito basta osservare come il dibattito su questioni di bioetica sia nel nostro Paese «calcificato» strumentalmente su posizioni laiche e cattoliche ideologicamente contrapposte, senza quasi mai entrare nel vero merito dell’argomento).

Potremmo quindi definire la mentalità tecnicista come quel pensiero che assolutizza nella «capacità del fare» l’orizzonte etico e morale dell’uomo. Questo pensiero è particolarmente presente oggi in quell’ideologia scientista che si manifesta nella incapacità di rispondere alla domanda: «Se è tecnicamente possibile, perché non farlo?».

Nei confronti di questo interrogativo non è difficile oggi incontrare delle istanze che rigettano irrazionalmente l’idea stessa di tecnologia come negativa in sé (pensiamo per esempio ad una certa ideologia eco/ambientalista); questa non è e non può essere la posizione cristiana.

Per l’antropologia biblica l’uomo è kyriòs, ovvero «principe» del Creato. Dio chiama l’uomo, creatura spirituale, a farsi partecipe in comunione con Lui del grande progetto della Creazione. «Nella concezione teistica la tecnica si unisce all’idea di una distinzione tra una realtà inferiore all’uomo e una realtà che infinitamente la oltrepassa» (2). Questa concezione «partecipativa» della tekné, ha da sempre convissuto con la tentazione di svincolare la capacità creativa dell’uomo dal suo fine naturale (la Giustizia/Volontà di Dio) utilizzandola come strumento di autoaffermazione.

Nell’Antico Testamento, ogni tentativo da parte del popolo d’Israele di piegare Dio ai propri fini (venendo meno al carattere autentico della «Berìt», l’alleanza stipulata tra Jahve e l’uomo fondata sull’amore) viene puntualmente frustrato ed aspramente condannato dai profeti. E’ la relazione con il «Dio con noi» che realizza l’uomo, una relazione che, proprio perché fondata sulla fedeltà e sulla fiducia indispensabili al vero amore, non può ammettere alcuna strumentalizzazione (confronta Esodo 20, 7; 22, 18 Deuteronomio 18, 10).

In questo senso sono ricorrenti gli esempi nell’Antico Testamento dove è evidente come la tentazione di padroneggiare e dirigere le grandi forze della vita a garanzia e sicurezza della propria esistenza, sia una costante nella storia di Israele (una storia che si presenta anche oggi drammaticamente attuale).

L’evento della Incarnazione illumina e connota in maniera imprescindibile questa relazione interpersonale come unica via per la salvezza dell’uomo. Il dono che Dio fa all’umanità va ancora una volta oltre il calcolo e la logica umani: attraverso il proprio figlio Egli dona se stesso e lo fa senza riserve, fino all’annichilimento della croce. Tutta la vita pubblica di Gesù si configura come uno svelamento della vera natura misericordiosa di Dio, nella quale non c’è spazio per calcoli utilitaristici e meramente retributivi.

L’episodio narrato negli Atti degli Apostoli relativo a Simon Mago (confronta Atti 8, 9) risulta in questo senso emblematico: il tentativo da parte di questo personaggio di «comprare la magia» che permetteva a Pietro di compiere miracoli (e che viene da quest’ultimo aspramente condannato) è sintomatico di quella mentalità gnostica/esoterica che mostra notevoli analogie con quella tecno/scientista attuale. Se in apparenza quest’ultima (fin dalle sue origini illuministe) pretende di cancellare ogni traccia di «superstizione religiosa» in nome di un rigido empirismo, in realtà proprio nella presunzione di com-prendere al suo interno tutta la realtà, manipolandola a proprio piacimento, mostra un atteggiamento sorprendentemente simile a quello del mago.

Per capire la problematicità della questione, dobbiamo chiarire in che rapporto stanno i due atteggiamenti umani, quello magico/tecnicista e quello religioso.

Scrive Augusto Del Noce: «La religione, in quanto si distingue dalla magia e si oppone ad essa, è esattamente il contrario di una tecnica: fonda un ordine in cui il soggetto si trova messo in presenza di qualcosa su cui ogni presa gli è rifiutata. Il soggetto religioso nell’atto di congiungere le mani attesta con questo gesto che non c’è nulla da fare, nulla da cambiare, ma semplicemente che egli viene ad offrirsi, e questo è veramente il sentimento del sacro in cui entrano insieme rispetto, timore e amore» (3).

L’uomo religioso, per quanto non possa comprendere interamente il disegno di Dio, si affida a Lui comunque. Lungi da ricadere in un atteggiamento ciecamente fatalista, il credente sa cos’è il Bene perchè ha conosciuto Dio in Cristo e sa di essere chiamato ad operare in quel senso utilizzando i mezzi che sono stati posti nelle sue mani. Questo pensiero è stato ciò che ha permesso, dopo il crollo dell’Impero Romano, la ricostruzione operata dalle comunità monastiche benedettine secondo il celebre motto «ora et labora» (che ben delinea il rapporto tra preghiera/affidamento  coniugato con l’operosità).

Al contrario, l’atteggiamento magico/tecnologico privilegia il «saper fare» all’«essere». Per il mago la relazione con forze superiori è una relazione di tipo puramente strumentale, nella quale il dominio ed il vile commercio sostituiscono l’amore. E’ qui possibile individuare quella sottotrama gnostica che si manifesta in un fondamentale disprezzo per il mondo, visto come una macchina il cui funzionamento lascia singolarmente a desiderare, per difetti ed errori che non sono imputabili a nessuno, perché dall’altro lato non c’è nessuno (4). Una concezione negativa del mondo e del limite umano vissuti nello gnosticismo come una vera e propria prigione dalla quale liberarsi. Un desiderio di elevazione spirituale presente anche nel cristiano che però si identifica totalmente nella piena adesione alla volontà di Dio.

Non a caso, Colui che fu «elevato» per il credente è il Crocifisso, che infatti non fa la propria volontà ma quella del Padre. Partendo da questi presupposti risulta forse più comprensibile quella avversione, presente oggi particolarmente in alcuni paesi europei, verso il simbolo del Crocifisso. Quel simbolo, infatti, al di là della sua specifica connotazione religiosa, ha anche una fortissima valenza psicologica in quanto segno e ammonimento del limite umano rappresentato dalla morte. Nonostante la soddisfazione di ogni desiderio, la ricerca del successo, del piacere, ognuno di noi deve fare i conti con il proprio limite costitutivo in quanto esseri umani.

Scrive, a questo proposito, Armando Erinni: «Per la cultura ‘moderna’ e secolarizzata che rifiuta ogni riferimento al trascendente in quanto limitazione psichica della libertà che l’uomo troverebbe solo in se stesso, diventa intollerabile qualsiasi richiamo alla propria non onnipotenza. Sia dunque rimosso prontamente come fattore perturbante, così come in parallelo dolore e sofferenza siano cancellati alla vista onnipotente mediante l’eutanasia o la selezione eugenetica della specie» (5).

A partire dal Rinascimento si fa strada una nuova concezione antropologica nella quale la «signoria» dell’uomo sul creato assumerà progressivamente un senso autoreferenziale (una vicenda significativa a proposito della nuova contrapposizione tra la mentalità magico/tecnica e quella religiosa/cristiana è quella del processo a Giordano Bruno) (6).

Abbiamo qui i primi germogli di quell’umanesimo filosoficamente anticristiano che successivamente si svilupperà attraverso le brusche accelerazioni della rivoluzione protestante e, successivamente, di quella francese del 1789. L’uomo, ormai scardinato dal baricentro che lo tiene in asse col divino cristiano, si sente finalmente libero di cercare le proprie vie di realizzazione, di affermazione di sè, di progresso, al di fuori della relazione con Dio, che anzi ora viene denunciata proprio come la causa principale impedente tale emancipazione (una sorta di riaffermazione del sì alla tentazione del peccato originale). Tutti semi che, com’è tristemente noto, al di là delle euforiche e ottimistiche promesse conosceranno la loro fioritura venefica negli orrori del secolo breve.

E’ da notare come proprio i secoli che videro l’affermarsi delle ideologie positiviste furono anche quelli del grande sviluppo delle pratiche occultistiche e spiritiche. Ancora una volta infatti abbiamo, in apparente contraddizione con il razionalismo della «dea Ragione» proclamata dalle menti illuminate, il binomio magia/ragione contrapposto a quello classico di fede/ragione. L’interesse per l’occulto è poi straordinariamente presente anche delle grandi ideologie del ‘900, si pensi al nazismo e alle ossessioni esoteriche di esso (ma anche il comunismo in questo senso, non fu da meno).

E oggi? Descrivere la situazione attuale non è facile. E’ stato osservato come l’avanzamento tecnologico di una civiltà porti inesorabilmente all’eclissi del sacro (ma non a quello del soprannaturale, vivacissimo infatti anche ai giorni nostri). E’ l’«irreligione naturale» di cui parla il filosofo Del Noce: l’ateismo moderno, molto diverso da quello ideologico del passato, è caratterizzato da una fondamentale indifferenza al problema di Dio. Per l’uomo secolarizzato Dio è diventato un problema semplicemente irrilevante. Tutti gli aspetti della vita della persona, dall’educazione dell’infanzia, all’adolescenza, alla sessualità, al lavoro e al rapporto col denaro, ecc. sono vissuti in maniera autoreferenziale, Dio non entra in relazione con nessuno di questi aspetti. Ciò che può penetrare è al massimo un’idea vaga di spiritualità sincretista, una religione «fai da te» che in ogni caso non avrà nessuna rilevanza eticamente significativa nel concreto dell’esistenza. Non viene negato il trascendente; semplicemente si nega che il trascendente possa dirci qualcosa (la negazione del Lògos divino passa anche attraverso la demitizzazione della figura di Gesù, ridimensionato ad un ambito tutto terreno).

L’irreligione naturale sembra dunque essere il vero tratto distintivo della nostra epoca. Ma, come si è detto, l’uomo senza assoluto non può vivere. Rimosso Dio, quindi, occorrerà trovare l’idolo appropriato per il tempo ed il luogo.

Oggi la promessa di immortalità (o perlomeno di una vita facile, lunga e piacevole) è affidata alla scienza ed alla tecnica. Questa concezione ha come implicazione morale la cancellazione della coscienza del peccato: «Ciò è naturale, del resto, dato che la tecnica è la negazione più completa della coscienza del peccato in quanto questo non è curabile da nessuna tecnica, ma da un’azione soprannaturale che è la grazia» (7).

E’ stato sottolineato come uno dei tratti distintivi di un mondo che ha abbandonato Dio sia quello della sterilità, vero e proprio rovescio della medaglia della irreligione naturale. La maternità, quintessenza della gratuità del dono della vita, oggi sempre più prevenuta (come una malattia) rimandata, programmata a tavolino, è l’ambito umano dove il ricorso alla tecnica ha forse le sue implicazioni simboliche più forti. Si aprirebbe un discorso che ci porterebbe fuori tema, ma è doveroso accennare in questo senso alla devastazione portata dall’ideologia femminista nell’ambito della famiglia e, di riflesso, nella società in generale.

Oggi il dibattito sul tema, specie negli Stati Uniti dove è forse meno condizionato ideologicamente, vede qualche presa di coscienza coraggiosa e consapevole della deriva che sta consegnando nelle gelide mani dei tecnocrati quella caratteristica distintiva e infinitamente preziosa che è propria della donna: la capacità di generare la vita. Nel nostro Paese, pur levandosi voci controcorrente, la mentalità dominante privilegia il politicamente corretto che oggi si esplica nei ben noti termini soporiferi per la coscienza come: salute riproduttiva, diritti della donna, fecondazione assistita, IVG, etc.

Ecco allora che i nuovi alchimisti, nel sacro nome della laicità, propongono ogni sorta di rimedio per soddisfare il «desiderio di maternità». La donna oggi non chiede di essere madre, reclama il suo «diritto», spesso a prescindere dalla presenza o meno di una figura maschile che partecipi alla genitorialità (e qui torna il rifiuto di rivolgersi con fiducia al Dio della vita per scegliere la strada della manipolazione tecnico/magica). La soddisfazione del desiderio (un desiderio incapace di guardare al di là di se stessi) è del resto l’obiettivo per il quale la tecnica sembra avere il suo maggior sviluppo. Ma questa edonistica esaltazione della soggettività è solo apparentemente appagata dalla tecnica. L’eterogenesi dei fini si configura inevitabilmente nel potere opposto proprio del tecnicismo, quello «spersonalizzante» e «oggettivizzante».

Come ha notato Massimo Fini: «In realtà è la stessa tecnologia che proprio mentre incessantemente apre nuove possibilità, nello stesso tempo, in un processo estenuante come una fatica di Sisifo, le annulla, perché il suo trend più autentico e profondo è un altro, contrario alle chances di vita: ed è quello dell’appiattimento e, per usare un termine caro a Pasolini, dell’omologazione».

Inevitabilmente quindi, in un mondo sempre più tecnologizzato, assistiamo ad una spersonalizzazione degli individui, sempre più atomizzati ed incapaci di autentiche relazioni, anche queste mediate e omologate da troppa tecnologia (si pensi all’utilizzo di internet, degli sms, etc.). Naturalmente la stessa vita spirituale del credente non è immune da questo impoverimento: la cronica mancanza di tempo, conseguenza del «vivere correndo», con la quale spesso si giustifica la scarsa preghiera, è indice di una esperienza di vita priva di autentico spessore personale.

Come scrive Sergio Bastianel infatti: «L’autenticità umana, la moralità e la vita di fede richiedono una interiorità che vada ben oltre la superficie, hanno bisogno di profondità, di radici salde, di solida consapevolezza. Non è questione soltanto di efficacia, è questione di verità personale» (8).

Spesso invece l’esperienza religiosa di molte persone che si riconoscono nell’appellativo di credenti, è in realtà un vago senso di appartenenza ad una tradizione, a determinati valori morali genericamente identificati come «cristiani», ma mai passati al vaglio di una verifica intima e personale. Il ritmo frenetico della modernità spinge l’uomo (e anche il credente) a guardare sempre avanti: «Mentre si è impegnati in un’ attività, lo sguardo interiore è già rivolto all’impegno successivo» (9). Quasi uno stato di ipertensione permanente che, a poco a poco, avvelena la vita dell’uomo. La mancanza di tempo per la relazione con Dio, sia quantitativa che qualitativa, finisce così per escludere la dimensione verticale del credente, il quale si troverà a vivere la propria vita di fede esclusivamente in quella orizzontale (10).

Oggi in un solo giorno un giovane è sottoposto ad un flusso d’informazioni superiore per quantità a quello che un suo coetaneo del secolo scorso riceveva in tutta la sua vita. Una sproporzione quantitativa alla quale non ne corrisponde però una qualitativa e che è tra le cause principali di quel ben noto senso di disorientamento e di apatia tipico delle nuove generazioni. Ciò è aggravato dal fatto che da tempo non esiste più quella che gli esperti chiamano «circolarità culturale», ma al contrario il colossale bombardamento d’informazioni è estremamente contraddittorio ed estraniante.

La sfida, nell’ottica dell’emergenza educativa di cui tanto si parla, è quella di superare il carattere frammentario attuale e recuperare una concezione unitaria dell’uomo che possa restituirgli la vera dignità di creatura spirituale. Compito non facile, anche per la opposizione di una cultura laicista che permea profondamente la nostra società, ma è necessario affermare con forza che solo così sarà possibile tornare a quella vera e fruttuosa concezione della tecnica come strumento di umanizzazione e partecipazione al grande disegno divino della Creazione.

Fabrizio Ugolini



1)
«La tecnologia ha prodotto un’evidente disarmonia, un distacco enorme tra l’uomo e i mezzi di cui dispone. Questi sono molto più avanti di lui. Il fatto che noi usiamo strumenti che sono il prodotto di un’altissima cultura scientifica e tecnologica non significa affatto che siamo al livello di quella cultura. Tutt’altro. Anche il puro bruto può schiacciare il telecomando d’un televisore (…).
Ed ecco una prima sorprendente constatazione: noi conosciamo il mondo che ci sta intorno molto meno dell’analfabeta dell’antico regime il quale aveva una totale padronanza degli strumenti di cui si serviva, era all’altezza della cultura che li aveva prodotti», M. Fini, «La ragione aveva torto», Camunia, 1985, pagina 85.
2) A. Del Noce, «Verità e ragione nella storia», Bur, 2007, pagina 281.
3) A. Del Noce, opera citata, pagagina 279.
4) E’ altamente significativa in questo senso una dichiarazione di Umberto Veronesi: «La natura si presenta come un aggregato di mostruosità ed orrori, che l’uomo può e deve modificare, attraverso le biotecnologie».
5) A.Erminni, Il Covile numero 48, 2008.
6) «Indubbiamente la creatività intesa nel senso moderno della parola è una creatività che, dove la Chiesa ha avuto un suo influsso determinante, si è in qualche modo ridotta; questo è fuori discussione. La controriforma ha rappresentato, dal punto di vista della espressione, della espansione della creatività individuale, un reale ed obiettivo condizionamento. Ma questa creatività di tipo assoluto, in cui l’uomo si concepisce come il creatore della cultura in quanto in qualche modo si concepisce come il creatore della realtà, non può essere pensata puntualmente riferita a Giordano Bruno, il quale non può non essere collegato, al di là della sua vicenda, alla secolarizzazione dell’Occidente e alla nascita di una cultura alternativa a quella cattolica, a quella che dall’Illuminismo in poi si è trasformata sostanzialmente nelle ideologie e nei grandi sistemi totalitari da esse derivati», L.Negri, «False accuse alla Chiesa», Piemme, Casale Monferrato, 1997.
7) A. Del Noce, opera citata, pagina 279.
8) S. Bastianel, «La preghiera nella vita morale cristiana», Piemme, Casale Monferrato, 1986.
9) S. Bastianel, opera citata.
10) «Poiché il fatto di essere cristiano qualifica la moralità del credente a partire dal rapporto con Cristo - e quindi dai rapporti vissuti in Cristo -, il non aver cura di mantener vivo ed efficace tale rapporto fondante avrà come conseguenza il venir meno di ciò che regge la sua stessa moralità, il venir della sua propria capacità di trascendenza, riducendo il fondamento della sua vita morale a attualità ed esteriorità. La sua responsabile libertà rimane illusa nel suo esercizio, come svuotata della sua anima.», S. Batianel, opera citata.


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