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Pio XII ed il «Trio Lescano»
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Lo sbloccamento dell’iter di canonizzazione di Papa Pio XII, che ora finalmente possiamo chiamare anche ufficialmente «servo di Dio», è un altro atto di Benedetto XVI mirato a restituire identità, nella continuità, ad una Chiesa disorientata da decenni di chiacchiere «teologicamente corrette». Un atto che, si spera, contribuisca a far riflettere i detrattori, un po’ troppo frettolosi, di Papa Ratzinger circa l’effettiva sua volontà di percorrere, con prudenza certo ma anche con fermezza, la strada verso la restituzione alla Chiesa del suo vero volto. La notizia sulla dichiarazione delle virtù eroiche di Pio XII ha però ridato, come era prevedibile, la stura alle solite polemiche. Tra le prefiche di turno non poteva mancare il «Trio Lescano» dell’ebraismo italiano: rabbi Riccardo Di Segni, il cripto sindaco di Roma Riccardo Pacifici ed il presidente dell’Unione delle Comunità  Israelitiche Italiane Renzo Gattegna (1). All’unisono i tre sono intervenuti sulla stampa (ci riferiamo in particolare alle loro dichiarazioni riportate da Il Messaggero del 20 dicembre scorso) insieme allo «storico» Marcello Pezzetti, direttore dell’italico «Sacro Tempio» dell’unica religione rimasta ossia del museo della Shoah di Roma.

Riprendendo tutta la consueta vulgata diffamatoria su Pio XII, il trio, per l’occasione improvvisatosi quartetto, ha riproposto nella sua interezza la sequela di lagnose lamentele sull’ambiguità del dialogo portato avanti dalla Chiesa di Benedetto XVI (sul prossimo numero della rivista Pagine ebraiche apparirà una vignetta che raffigura Papa Ratzinger come un equilibrista sulla corda tesa tra due colonne chiamate «dialogo» e «conversione»). I nostri lagnosi cantori dello «storicamente fazioso», pur affermando ad ogni piè sospinto che non sarebbe volontà degli ebrei italiani intromettersi in una decisione canonica interna alla Chiesa, in realtà si intromettono abbondantemente, con la scusa della verifica storica, su questioni interne al Cattolicesimo. Naturalmente la stessa pantomima - «non vogliamo intrometterci in cose della Chiesa ma …» - viene recitata dai governanti dello Stato di Israele, che lungi dall’indagare sui responsabili delle recenti scritte anticristiane apparse in Israele sui muri della basilica francescana del Cenacolo, si preoccupano di questioni non di loro competenza.

Al governo di Israele consigliamo, piuttosto che perdere tempo con richieste di verifiche storiche già abbondantemente effettuate nei riguardi di Pio XII, di istituire una commissione di storici, scelti, come ha fatto la Chiesa per il caso di Papa Pacelli, con criteri imparziali, e dunque non solo israeliani, allo scopo di indagare sui crimini e sulle responsabilità storiche e morali della pulizia etnica perpetrata dall’esercito israeliano e dalle milizie sioniste ai danni della popolazione palestinese nel 1948, ben prima - si badi - della guerra con i Paesi arabi vicini seguita alla dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele (2). Si è lamentato da parte ebraica che Benedetto XVI avrebbe sbloccato l’iter di canonizzazione di Papa Pacelli senza attendere le verifiche storiche sui documenti di archivio che sono ancora non accessibili agli storici. Ma dimenticano, i «fratelli maggiori», che proprio Benedetto XVI, un paio di anni fa, aveva procrastinato il via alla canonizzazione di Pio XII in attesa della verifica in atto su quei documenti d’archivio, che saranno comunque disponibili a chiunque tra pochi anni. Sicché diventa impensabile che il Papa, se in quella documentazione vi fosse qualcosa di ostativo alla canonizzazione, si sarebbe deciso per rimuovere gli ostacoli procedurali alla beatificazione di Pio XII. Oltre tutto esiste già ampiamente disponibile una gran mole di documentazione, e non solo vaticana, sulla base della quale si sono già scritti innumerevoli libri di storia, relativi al pontificato di Pio XII, che hanno contribuito a fugare ogni ombra inopinatamente fatta gravare su quel venerato e santo Papa.

I capi d
accusa formulati dal «Trio Lescano»

Da parte nostra su questo giornale on line ci siamo già occupati della questione (3), sicché riprendiamo ora l’argomento soprattutto per confutare le ultime dichiarazioni del citato terzetto/quartetto di cui sopra. Dichiarazioni che in sostanza assommano i seguenti capi d’accusa contro Papa Pacelli:

- non avrebbe fatto nulla per fermare il treno numero 1.201 che il 16 ottobre 1943 partiva da Roma Tiburtina verso Auschwitz carico di ebrei romani rastrellati nei giorni precedenti, ossia di ebrei residenti nella stessa diocesi del Papa;

- non avrebbe pubblicamente condannato un regime totalitario come quello nazista;

- non aver firmato un ordine scritto affinché sacerdoti, religiosi e cristiani laici si adoperassero per prestare aiuto e soccorso agli ebrei perseguitati, sicché laddove tale aiuto e soccorso vi è stato lo si deve soltanto alla buona volontà di singoli fedeli o gruppi di essi nel generale disinteresse della più alta gerarchia ecclesiale;

- non avrebbe fatto nulla per fermare la persecuzione degli ebrei in Slovacchia, dove capo del governo era un sacerdote cattolico, monsignor Joseph Tiso.

Innanzitutto una osservazione, non storica ma solo polemica: che strana l’accusa quella a Papa Pacelli, di essersi disinteressato degli ebrei della sua diocesi, portata avanti da chi non manca ad ogni occasione di ricordare come imperdonabile infamia ecclesiale lo statuto di «protezione/controllo» esercitato, per secoli, dalla Chiesa nei confronti degli ebrei. Si accusa di essere venuto meno ai suoi presunti doveri di «protezione» chi di aver esercitato quella protezione, nelle persone dei suoi predecessori, è poi rimproverato quando si tratta dei secoli anteriori alla Rivoluzione Francese! Naturalmente i capi d’accusa sopra elencati sono solo una esplicitazione del più generale capo d’accusa che vuole Papa Pacelli inerte di fronte alla vasta persecuzione degli ebrei in atto in tutt’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Non dunque Churchill o Roosevelt o Stalin (Inghilterra ed USA respingevano gli ebrei in fuga dalla Germania e dall’Europa; l’URSS, d’altro canto, in materia di antisemitismo aveva il suo triste curriculum) che pur erano in guerra con il nazismo ed avevano tutto il potere politico, in casa propria, e militare sui campi di battaglia e che pertanto ben di più potevano fare per fronteggiare davvero la persecuzione (bombardando ad esempio le linee ferroviarie che portavano gli ebrei nei campi), ma Papa Pacelli, che avrebbe dovuto dal balcone in piazza San Pietro ammonire Hitler ed ingiungergli di fermarsi ottenendone, secondo l’accusa, sicura obbedienza o comunque intimorendolo per le conseguenze dell’eventuale disobbedienza sull’opinione pubblica internazionale, sarebbe, per la vulgata rinfocolata dal nostro «Trio Lescano» trasformatosi per l’occasione in «Quartetto Cetra», il vero responsabile morale, quasi una sorta di mandante perlomeno morale, della persecuzione antiebraica nell’Europa degli anni della Seconda Guerra Mondiale. E’ evidente quale è il postulato, infondato, soggiacente a tale impostazione delle cose. Di Segni, Pacifici, Gattegna, Pezzetti, e chi altri ragiona come loro, partono dal presupposto che la Chiesa si identifichi sempre e comunque con i regimi politici che si sviluppano in terra cristiana o a maggioranza cristiana e che pertanto tali regimi siano in un modo o nell’altro tutti dipendenti dalla volontà del Vaticano e quindi sempre, volenti o riottosi, soggetti ad un presunto dovere di obbedienza verso il Papa. Ragionamento del tutto assurdo e fantasioso tanto è vero che neanche nel medioevo le cose erano messe nel modo delineato da tale cliché, come dimostra la secolare lotta tra Papato ed impero.

La Chiesa cattolica, nel corso dei secoli, consapevole di essere solo la parte ancora «militante super terram» della Città di Dio, ossia di quel Regno di Dio che non è di questo mondo pur vivendo nel mondo, non si è mai identificata con nessun regime politico pur avendo avuto a che fare, diplomaticamente o conflittualmente, con i regimi più svariati. Anzi, persino l’identificazione tra la Chiesa e la Cristianità dei secoli passati non è mai stata un «luogo teologico» benché storicamente fosse in quei secoli una, transitoria, realtà: transitoria perché caduta la Cristianità non è però caduta anche la Chiesa per la quale, e solo per la quale, vale la promessa «inferii non praevalebunt». Ne consegue che non tutto quel che è della o delle Cristianità è anche della Chiesa cattolica e questo, a maggior ragione, vale soprattutto nell’età moderna. Età nella quale il processo di secolarizzazione (che è stato, poi, sovente solo un processo di mimetismo religioso con il sostituirsi, innanzitutto nel cuore degli uomini, delle ideologie politiche, intese come religioni mondane, alla Fede cristiana, progressivamente abbandonata) ha reso prima sempre più precaria e poi insostenibile l’identificazione, o la giustapposizione, tra Chiesa e società politica e civile. Sicché nutrire, benché senza dichiararlo, la riserva mentale per la quale Papa Pacelli, a parte l’azione diplomatica della Santa Sede, che dunque era del tutto limitata alla stregua di ogni azione diplomatica, potesse avere una qualche diretta influenza sul regime hitleriano, come - ed abbiamo visto che non era così neanche in quei secoli - Papa Leone su Carlomagno, dimostra soltanto il grave equivoco al quale la dubbia buona fede del citato «trio/quartetto» lo conduce e che ha la sua radice nell’inveterata convinzione ebraica, convinzione cristiano-fobica, che dal Papa e dalla Chiesa, irrealisticamente concepita come un assoluto monolite, dipende tutto quanto si muove tra i gentili, ad iniziare dall’antigiudaismo teologico o popolare, artatamente poi confuso, nella percezione ebraica, con l’antisemitismo moderno a basi razziali.

E’, questa, nient’altro che una convinzione che nasce dall’avversione e dalla diffidenza verso i non ebrei nutrita per secoli dall’esclusivismo ebraico. Trattandosi di vezzeggiati esponenti della nota lobby, la risonanza mediatica delle esternazioni del quartetto Di Segni, Pacifici, Gattegna, Pezzetti ha raggiunto, more solito, livelli assordanti ed a nulla sembrano valere i pur onesti sforzi di serietà storiografica di, ad esempio, suor Marchione, biografa di Papa Pacelli, che da decenni non si risparmia per tutelarne la santa memoria. Intervistata da Antonio Gaspari per l’Agenzia Zenit suor Margherita Marchione, conosciuta come «Fighting Nun» (la suora che combatte), autrice di oltre 15 libri sulla figura di Pio XII, ha ricordato: «Questo Papa nel silenzio e nella sofferenza, senza armi e senza eserciti, riuscì a salvare tante vite umane e ad alleviare tante pene. E’ la verità storica. Durante la guerra Pio XII ha fatto di più di qualsiasi altro capo di Stato come il presidente americano Franklin Roosevelt oppure Winston Churchill i quali potevano servirsi di mezzi militari.

L’unico capo mondiale che ha salvato migliaia di ebrei è stato Pio XII, il quale non aveva mezzi militari. Per questo motivo Pio XII merita di essere riconosciuto come beato». Sempre la Marchionne ha poi smontato la tesi, fatta ad esempio propria dal Miccoli, che l’anticomunismo di Pacelli avrebbe portato Pio XII a chiudere un occhio sulla natura non cristiana del nazismo. Come ha scritto, invece, monsignor Fulton J. Sheen: «Il Vaticano è stato tacciato di comunismo dai nazisti, di nazismo dai comunisti, di antifascismo dai fascisti, ma in realtà si oppone a ogni ideologia antireligiosa».

Una necessaria premessa metodologica

Vediamo dunque nel merito i capi d’accusa che abbiamo sopra elencato, formulati nelle recenti dichiarazioni dei rappresentanti degli ebrei italiani, non senza dimenticare lo sfondo della più generale e globale accusa rivolta a Pio XII e non senza dimenticare che, comunque, non tutto il mondo ebraico, né italiano né mondiale, è allineato sul tali pretestuose posizioni ed anzi che esistono importanti settori sia culturali che religiosi dell’ebraismo che, al contrario, tributano, come facevano tutti gli ebrei nell’immediato secondo dopoguerra, a Papa Pacelli pubblici riconoscimenti e che addirittura ne vorrebbero una lapide di positiva commemorazione nello Yad Vaschem (4).

I nostri lettori sanno bene che l’autore di queste considerazioni, e non da ora avendolo sempre dichiarato, pur fermamente respingendo la trasformazione oggi in atto della persecuzione antiebraica nella Germania nazista in un culto religioso, in una «teologia civile», tra l’altro incompatibile con l’asserita «laicità» del moderno Stato liberale, non è però su posizioni «negazioniste» benché, solidale con quei tantissimi ed autorevoli storici che da anni hanno firmato più di un appello in proposito, si batta per la più assoluta libertà di ricerca storica, nella convinzione che quanto è storicamente infondato deve essere verificato solo nelle competenti sedi universitarie e della ricerca storica, e non certo nei tribunali. La denuncia dell’innegabile fatto che l’«olocausto» sia diventato una teologia civile, una «religio holocaustica», non significa affatto accettare l’affermazione metodologica propria dei negazionisti per la quale il documento scritto prevale sempre e comunque sulla testimonianza orale. Certo il documento scritto, in sede storiografica, ha un suo indiscutibile valore ma non in senso assoluto perché deve essere sempre sottoposto a verifica di provenienza e di attendibilità del suo autore nonché ad esegesi sulle intenzioni dell’autore e sul contesto nel quale fu elaborato.

Quanti documenti scritti sono, in realtà, solo il frutto della propaganda ideologica dei loro autori! Oggi, infatti, nessuno storico serio accetta più come non attendibile a priori la testimonianza orale e - si badi bene - anche quando essa non è supportata da riscontri scritti o fattuali. In altri termini è stato finalmente superato, anche in sede storiografica, il vecchio dogmatismo positivista per il quale «verba volant, scripta manent». Si è invece acquisita la consapevolezza che possono «rimanere» ed essere attendibili anche le testimonianze non scritte. Non si deve, poi, mai assolutizzare troppo la stessa metodologia storica, perché - grazie a Dio - nessun scienza oggi, neanche quella storica, può rivendicare, come succedeva nel XIX e nella prima parte del XX secolo, uno statuto di infallibilità. Meno che mai poi tale pretesa può essere avanzata dalla storiografia che, per sua stessa natura, è sempre soggetta a continua revisione mano a mano che nuovi documenti o la rilettura dei vecchi documenti secondo una diversa esegesi o, per l’appunto, nuove testimonianze, cambiano la ricostruzione e la valutazione degli avvenimenti del passato.

Le radici della sfiducia a priori nelle testimonianze orali sono da ricercare nella polemica tardomedioevale di Occam contro gli «universalia» ed il realismo gnoseologico della scolastica, cui egli opponeva il nominalismo ossia l’affermazione che la realtà sarebbe nient’altro che la sensazione intellettiva o empirica che il soggetto avrebbe di essa. Da qui poi si sviluppò l’idealismo che riduce la realtà all’io pensante. Ma, poste queste premesse filosofiche, l’esito è il soggettivismo dal quale deriva inevitabilmente la sfiducia in quel che ciascun soggetto possa dire o affermare perché tutto quel che dice, afferma o, appunto, testimonia è fatto risalire al suo soggettivistico, e per definizione mai realistico, approccio al mondo. Mondo che, così, viene ad essere nient’altro che il prodotto delle proprie, magari inconsce, aspirazioni o desideri o proiezioni mentali. Fatte queste brevi premesse metodologiche, veniamo alla conseguenza maggiore in ordine alla polemica in atto contro la santa memoria di Pio XII. L’argomento, veteropositivista ed ormai, come si è visto, non più accettabile in assoluto, per il quale, in sede di ricostruzione storiografica, devono valere solo le prove scritte, e non anche le testimonianze orali, è sempre a doppio taglio. I «negazionisti» del genocidio ebraico fanno della mancanza di un ordine scritto di sterminio da parte di Hitler uno dei loro cavalli di battaglia. I loro detrattori «affermazionisti», pur ammettendo che non esiste alcun suo documento scritto nel quale egli ordina lo sterminio, rispondono che, in un regime come quello nazista, Hitler non poteva non sapere della «soluzione finale» e che l’ordine fu dato verbalmente.

Ora si dà il caso che gli stessi detrattori «affermazionisti» dei «negazionisti» utilizzano l’argomento della mancanza di un ordine scritto di Pio XII, finalizzato all’apertura dei conventi e delle chiese agli ebrei perseguitati nei Paesi occupati, per negare (sì, anche gli «affermazionisti» sono a modo loro «negazionisti»!) il pronto aiuto che quel santo Papa e la Chiesa hanno effettivamente dato agli israeliti, riducendo ogni episodio di soccorso alla buona volontà di singoli cristiani o di singoli gruppi di cristiani che si sarebbero mossi senza sollecitazione da parte della Gerarchia (qui sia detto per inciso: anche se i cristiani si fossero mossi senza particolari sollecitazioni dall’alto, cosa che, come vedremo, non è vera, ciò starebbe solo a dimostrare quanto spontaneo bene la fede cattolica produce nei rapporti tra gli uomini). E’ evidente la faziosità di questo modo di fare storia che pretende sempre e comunque una prova scritta: la mancanza dell’ordine scritto non può essere usata per «assolvere» Hitler ed al tempo stesso «condannare» Pio XII o, viceversa, «condannare» Hitler ed «assolvere» Pio XII. Se Hitler non poteva non sapere, è evidente che anche Pio XII non poteva non sapere quanto si stava facendo nell’intera Chiesa, in Europa, e persino nella sua diocesi di Roma, per salvare gli ebrei.



Lordine di Pio XII cè stato: ecco le prove

Ma siamo poi così sicuri che un ordine diretto di Pio XII non sia mai stato emanato, benché non se ne sia finora rinvenuto un testo scritto? Siamo davvero sicuri che non è possibile provarne l’esistenza in maniera indiretta ma del tutto metodologicamente corretta? In effetti la ricostruzione da prove indirette dell’esistenza di un diretto ordine di Pio XII è ormai al vaglio degli storici che sempre più si stanno convincendo della fondatezza storica di tale ricostruzione. Tante piccole tessere, come in un mosaico, hanno iniziato a delineare la prova che un ordine fu effettivamente emanato da Pio XII. Nel settembre 2008 si è tenuto un importante convegno a Roma, conclusosi con una udienza speciale concessa da Benedetto XVI ai suoi partecipanti, organizzato dalla Pave the Way Foudation, una organizzazione di storici presieduta dall’ebreo americano Gary Krupp.

Durante i lavori di tale assise sono stati resi noti diversi documenti attestanti l’impegno di Pio XII in favore degli ebrei perseguitati dai nazisti, nonché i rapporti cordiali tra Pacelli e le comunità ebree tedesche quando il futuro Pio XII era ancora nunzio in Germania. Lo studioso, cattolico, Michael Hesermann ha documentato in uno studio di circa 300 pagine che Papa Pacelli fu il più acerrimo, forse l’unico vero, nemico di Hitler in un’Europa che si dimostrava tentennante verso il nazismo. Il documento più importante esibito durante i lavori del convegno in questione è un passaggio del «Memoriale delle Religiose Agostiniane del Venerabile Monastero dei Santissimi Quattro Coronati di Roma». In tale diario quotidiano della vita claustrale è contenuta la lapidaria attestazione che fu Pio XII a chiedere ai conventi, alle istituzioni religiose, finanche agli istituti di clausura, di ospitare gli ebrei minacciati dalla persecuzione nazista. L’annotazione fu trascritta da una anonima cronista del monastero che registrava, sul diario della comunità, gli eventi quotidiani. L’annotazione risale al novembre 1943 ed afferma che un monsignore si era recato nel monastero latore dell’ordine del Papa affinché conventi e chiese accogliessero e proteggessero gli ebrei in fuga. Padre Peter Gumpel, storico gesuita nonché postulatore della causa di canonizzazione di Eugenio Pacelli, ha definito «importante» questo documento perché come ha dichiarato: «Io ho vissuto sotto il nazismo in Germania e in Olanda. So bene come, in periodi come quelli, un regime totalitario abbia spie dappertutto e tutti siano restii a mettere nero su bianco qualsiasi cosa. Molte cose non si facevano nemmeno per telefono, ma solo a tu per tu. Questo avvenne anche dopo il 16 ottobre 1943 (inizio dei rastrellamenti di ebrei a Roma, nda). Non furono mandate carte scritte dal Vaticano, ma dei sacerdoti andavano nelle case religiose a dire: il Papa vuole che si dia rifugio ai perseguitati politici e agli ebrei» (5).

Tra le carte rese note da Pave the Way vi sono poi documenti diplomatici che confermano l’avversione di Pio XII a Hitler. E’, ad esempio, del 1939 un memorandum del console americano a Colonia che riferiva al governo di Washington sul «nuovo Papa», Pio XII, descrivendolo come persona fermamente contraria al regime hitleriano. La storica Grazia Loparco ha condotto una ricerca dalla quale è risultato che gli ebrei salvati in Italia furono oltre 4.500. Soltanto a Roma, su circa 750 case religiose, ben 220 istituti femminili, e almeno 70 maschili nascosero ebrei. Che tutto questo avvenisse all’insaputa del Papa è cosa che non regge. Che nell’autunno 1943, con i tedeschi che presidiavano Roma, molti ordini venivano diffusi verbalmente, grazie ai rapporti e ai contatti che univano i religiosi della città con sacerdoti e prelati della Santa Sede, è provato anche da un altro documento del 1° novembre 1943, rinvenuto negli archivi di Civiltà Cattolica. Si tratta dell’annotazione scritta sul diario delle «consulte», nel quale annotava quanto discusso con il Pontefice durante le udienze, dal gesuita padre Giacomo Martegani, allora direttore della rivista, che attesta immediatamente dopo essere uscito dall’udienza con Papa Pacelli: «Il Santo Padre s’è interessato al bene degli ebrei». Questo ulteriore documento, che attesta che l’opera di salvataggio degli ebrei perseguitati a Roma, dopo la razzia del Ghetto, fu voluta da Pio XII, è stato rinvenuto dallo storico gesuita padre Giovanni Sale. Padre Martegani vedeva il Papa due volte al mese per decidere con lui la linea editoriale di Civiltà Cattolica ed, inevitabilmente, per esaminare la situazione del momento nella Chiesa e nel mondo. L’annotazione trascritta il 1° novembre 1943 dal Martegani è altamente significativa per una serie di motivi. Solo due settimane prima vi era stata la razzia del ghetto ed il rastrellamento degli ebrei romani. Ma la razzia, come è noto, tranne che al predetto «Trio Lescano/Quartetto Cetra», ebbe un improvviso stop il giorno seguente  perché Papa Pacelli aveva fatto convocare l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von Weizsacher, ed era intervenuto in via ufficiosa per bloccare i rastrellamenti. L’intervento del Papa è ampiamente provato, come ricorda anche padre Gumpel, perché testimoniato proprio da Weizsacher, che ha, successivamente, riferito della protesta di Pio XII riguardo alla razzia.

Durante il processo Eichmann nel 1961 il procuratore generale di Stato a Gerusalemme, Gideon Hausner, ha confermato la testimonianza di Weizsacher: «A Roma - ebbe a dire in quelloccasione Hausner - il 16 ottobre 1943 fu organizzata una vasta retata nel vecchio quartiere ebraico. Il clero italiano partecipò allopera di salvataggio, i monasteri aprirono agli ebrei le loro porte. Il Pontefice intervenne personalmente a favore degli ebrei arrestati a Roma» (6).

Infatti, subito dopo la protesta del Papa, che bloccò temporaneamente il rastrellamento, i conventi e gli istituti religiosi romani aprirono le loro porte ai perseguitati. L’Osservatore Romano del 25 - 26 ottobre 1943, ossia il quotidiano ufficiale della Santa Sede, scriveva, praticamente solo dieci giorni dopo la razzia del ghetto, che «la carità del Santo Padre non si arresta davanti ad alcun confine né di nazionalità, né di religione, né di stirpe». Può essere casuale tutto ciò? Alla luce di tutto questo è possibile seriamente ed onestamente sostenere che il Papa non sapesse nulla di cosa facevano i cattolici a Roma per salvare gli ebrei o che si disinteressava di quanto stava accadendo agli ebrei residenti nella sua diocesi? Non solo: al museo della Liberazione di via Tasso c’è una pergamena nella quale si ricorda che 155 case religiose ospitarono 4.447 ebrei e che Papa Pacelli, a tale scopo, concesse appositamente la dispensa alle regole strette della clausura. Questo pergamena, l’annotazione di padre Martegani e quella sul diario delle suore del convento romano dei Quattro Coronati dimostrano, sebbene indirettamente, che l’ordine da parte del Papa per salvare gli ebrei ci fu, anche se non in forma scritta (7).

Roma: 16 ottobre 1943

Ma come si svolsero esattamente gli eventi del fatidico 16 ottobre 1943. Lasciamo la parola allo storico gesuita Pierre Blet coautore, insieme a Robert Graham, Angelo Martini e Burkart Schneider, dell’opera in 12 volumi «Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde Guerre mondiale» (Città del Vaticano 1965-1982), la più completa raccolta finora disponibile di documenti dell’Archivio vaticano relativa al periodo della Guerra. Padre Blet è anche autore di un’opera di sintesi divulgativa dei predetti 12 volumi, dalla quale traiamo questa ampia e fondamentale pagina storiografica. Scrive dunque il Blet: «Loccupazione tedesca aveva naturalmente messo in subbuglio la comunità israelitica di Roma, ma gli ebrei esitavano a fuggire. Al contrario, era il momento in cui i profughi di Francia si riversavano nellUrbe, dove pensavano avrebbero trovato un più sicuro asilo (sui motivi di questo esodo degli ebrei provenienti dai Paesi occupati dai nazisti verso l’Italia fascista, nella quale vigevano le leggi razziali, diremo oltre, nell’ultima parte di questo nostro intervento, nda). Una nota del 17 settembre, intitolata Temuti provvedimenti contro gli ebrei in Italia’, conteneva le direttive del Papa: ‘Studiare se non convenga fare una raccomandazione in termini generali allAmbasciata di Germania presso la Santa Sede in favore della popolazione civile di qualunque razza, specialmente per i più deboli (donne, vecchi, fanciulli, gente del popolo …)». Il 20 settembre i capi della comunità israelitica di Roma furono convocati al quartier generale della SS dal tenente colonnello Herbert Kappler, che intimò loro di consegnare nelle ventiquattore cinquanta chili doro, pena la deportazione immediata per tutti gli uomini della popolazione ebraica dellUrbe; era un genere di esazione cui gli ebrei erano abituati; ma nonostante gli sforzi disperati, riuscirono a raccogliere soltanto 35 chili. Il rabbino capo di Roma Zolli si rivolse direttamente a Pio XII, che dette ordine di fare il necessario per raccogliere i 15 chili mancanti. I documenti su questo episodio sono rari. Un promemoria di Bernardino Nogara, delegato dellAmministrazione speciale della Santa Sede, riporta, in data 29 settembre, che il rabbino Zolli era venuto a dirgli che i 15 chili erano stati forniti da comunità cattoliche’: non aveva dunque più bisogno di un contributo del Vaticano. Intanto, durante i primi giorni di ottobre, gli ebrei di Roma cominciarono a considerare la possibilità di trovare rifugio nei conventi. Il 1° ottobre monsignor Montini riferì al Santo Padre che due anziani coniugi ebrei, desideravano ritirarsi presso le Suore Oblate di via Garibaldi al Gianicolo; le religiose erano disposte a ricevere la donna, che era malata, ma non il marito. Il Papa impartì allora le opportune disposizioni per venire in loro aiuto; e due settimane dopo, quando gli ebrei di Roma, rendendosi conto finalmente dellimminente pericolo, abbandonarono le loro abitazioni per cercare rifugio presso amici e simpatizzanti e soprattutto presso le comunità religiose, le barriere della clausura canonica furono tolte per autorizzare gli uomini ad entrare nei conventi di suore e viceversa. L a notte tra il 15 e il 16 ottobre 1943 una formazione delle SS, fatta giungere appositamente a Roma qualche giorno prima, cominciò il rastrellamento degli ebrei casa per casa, in base a liste preparate in precedenza. Rimasero vittime della retata circa un migliaio di israeliti, i quali, dopo essere stati ammassati nelledificio del Collegio militare sul Lungotevere, tre giorni dopo, privati di tutto, furono brutalmente stivati in vagoni merci sigillati e spediti in Germania, dove se ne persero le tracce. La prima notizia della retata sembra sia stata recata al Papa da una giovane principessa italiana, Enza Pignatelli Aragona, la quale di primo mattino corse in Vaticano, dove il maestro di camera la introdusse in udienza dal Santo Padre. Non appena in Vaticano si apprese la notizia, il cardinale Maglione(ossia il Segretario di Stato di Pio XII, nda) convocò lambasciatore della Germania (Weizsacker, nda) e gli parlò, meglio che poté, a nome dellumanità e della carità cristiana. La prima reazione di questo alto funzionario del Reich, interiormente ostile alla politica del suo governo, fu una confessione personale: ‘Io mi attendo sempre che mi si domandi: Perché mai Voi rimanete in cotesto vostro ufficio?’. ‘No - rispose Maglione: Le dico semplicemente: Eccellenza, che ha un cuore tenero e buono, veda di salvare tanti innocenti. E doloroso per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata…’. Allora lambasciatore pose la seguente domanda pratica: ‘Che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?’.

Maglione rispose
: ‘La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione’. Weizsacker osservò che fino ad allora la Santa Sede aveva saputo guidare la barca evitando gli scogli; si chiedeva se ora dovesse metter tutto in pericolo proprio nel momento in cui stava per giungere in porto; poiché le direttive venivano da molto in alto. E concluse: ‘Vostra Eccellenza mi lascia libero di non faire étatdi questa conversazione ufficiale?’. Il cardinale Maglione accettò. Sottolineò che la Santa Sede aveva sempre fatto attenzione a non dare al popolo tedesco limpressione di aver fatto o voler fare alcunché contro la Germania, durante una guerra terribile. Ma la Santa Sede non doveva esser messa nella necessità di protestare: qualora fosse stata obbligata a farlo, si sarebbe affidata per le conseguenze alla Divina Provvidenza. E il cardinale concluse: ‘Vostra Eccellenza mi ha detto che cercherà di fare qualche cosa per i poveri ebrei. La ringrazio. Mi rimetto, quanto al resto, al suo giudizio. Se crede più opportuno di non far menzione di questa nostra conversazione, così sia’. Malgrado la fiducia che si aveva in Vaticano nellintervento dellambasciatore, Pio XII volle accrescerne lefficacia con dei ricorsi ufficiosi. Il giorno stesso della retata un prelato di origine austriaca, noto per il suo attaccamento al Grande Reich, monsignor Aloys Hudal, rettore della Chiesa nazionale tedesca di Roma, ricevette la visita del nipote di Pio XII, Carlo Pacelli. A seguito di questo incontro, Hudal scrisse al generale Stahel, governatore militare della città, insistendo affinché sospendesse lazione contro gli ebrei. Se gli arresti fossero continuati, avvertiva Hudal, il Papa avrebbe potuto ricorrere ad una pubblica protesta in un momento in cui la Germania aveva tutto linteresse ad evitarla. Il generale Stahel pare abbia trasmesso subito il messaggio di Hudal alle autorità competenti ed allo stesso Himmler, che avrebbe dato lordine di sospendere gli arresti, ‘in considerazione del carattere particolare di Roma’. Tuttavia il ministro dInghilterra Osborne, attribuì piuttosto la sospensione del rastrellamento allintervento del suo collega Weizsacker: ‘Non appena fu informato degli arresti degli ebrei di Roma, il cardinale segretario di Stato convocò lambasciatore della Germania e formulò una sorta di protesta. Lambasciatore intervenne immediatamente, con il risultato che un buon numero fu rilasciato’. Osborne precisò al Foreign Office che la sua informazione era strettamente confidenziale, poiché qualsiasi indiscrezione avrebbe potuto probabilmente causare nuove persecuzioni. In ogni caso la retata terminò così bruscamente come era cominciata. Il piano primitivo prevedeva la cattura di tutti gli ebrei romani stimati in ottomila, ma lazione lampo del 16 ottobre non fu mai ricominciata. La deportazione dei prigionieri da Roma non arrestò gli sforzi messi in opera in loro favore dai parenti e dal Vaticano. Si ricorse di nuovo a padre Tacchi Venturi. Il 25 ottobre 1943 il gesuita riferì che gli ebrei dellUrbe desideravano almeno sapere dove fossero stati trasportati i loro congiunti. Lindomani il rabbino David Panzieri, che faceva le veci del rabbino capo Zolli, presentò la richiesta di poter inviare ai deportati degli indumenti pesanti, in vista dellinverno che si avvicinava. Ma il 1° novembre, il senatore Riccardo Motta informò monsignor Montini di essersi recato, al momento della cattura degli ebrei, dal generale Stahel, il quale dopo avergli espresso la sua estraneità alle azioni di polizia, un po più tardi gli aveva fatto comunicare che non vi era alcuna speranza: ‘Questi ebrei non ritorneranno mai più alle loro case’. Nondimeno, Maglione rivolse una nota ufficiale allambasciata tedesca, sollecitando informazioni e chiedendo inoltre se fosse possibile inviare qualche aiuto materiale ai deportati ebrei di Roma. Il 15 novembre Weizsacker comunicava che avrebbe potuto fare poco o nulla, anche solo per ottenere notizie» (8).

Il conflitto tra Pacelli ed Hitler

Di fronte alla crescente tragedia che insanguinava il mondo, il Papa nel Natale del 1942 non solo condannò fermamente i regimi totalitari ma espresse anche un esplicito riferimento alla sorte di «centinaia di migliaia di persone, le quali senza veruna colpa, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe sono destinate alla morte o a progressivo deperimento».

Il Papa non denunciò esplicitamente lo sterminio degli ebrei perché nel 1941-42 di ciò si avevano solo rare e contraddittorie notizie che certo non potevano giustificare un incidente diplomatico con il rischio di mettere a repentaglio la sorte dei cattolici in Germania e nei Paesi occupati dai nazisti (ed è questo che i detrattori di Pio XII non ammettono: secondo loro il Papa non avrebbe dovuto tener conto dei suoi figli cattolici solo per intervenire in favore degli ebrei senza che in quel momento vi fosse prova di uno sterminio). Solo dal 1943, infatti, inizieranno a circolare gradualmente informazioni via via sempre più esaurienti. Ma i leader nazisti compresero immediatamente il senso delle parole di Pacelli nel Natale 1942: «Eun capolavoro di travisamento clericale della concezione del mondo nazionalsocialista», dichiarò l’organo ufficiale del Partito Nazista.

Questo testimonia dell’irriducibile conflitto che intercorreva tra Pio XII ed Hitler, segnato anche da episodi inconsueti per un Papa come il tentato esorcismo a distanza sul dittatore tedesco. Non meraviglia dunque che da parte di Hitler si progettò, e per un momento si pensò seriamente di eseguire, la deportazione di Papa Pacelli in Germania, sull’esempio di quanto avevano già fatto i giacobini nel 1799 con Pio VI e poco più tardi Napoleone con Pio VII. Dei piani nazisti per «allontanare» Papa Pacelli dalla Santa Sede nelle ultime fasi del secondo conflitto mondiale, ne aveva già parlato nel 1972 l’ex-generale delle SS Karl Wolf, scomparso nel 1984, riferendo del contenuto del suo incontro con Pio XII del 10 maggio del ‘44. Il suo racconto è stato però ritenuto privo di sicuri riscontri. Ma recentemente sono emersi riscontri oggettivi circa un piano organizzato dal Reichssicherheitsamt (Quartier generale per la sicurezza del Reich) di Berlino dopo il 25 luglio ‘43. Il testimone chiave in proposito, detentore anche di probanti documenti fatti visionare agli storici, è Niki il figlio, oggi lucidissimo 72enne, del barone Wessel Freytag von Loringhoven che rivestì nella vicenda un ruolo importante. Il 29 luglio 1943, Wessel Freytag von Loringhoven accompagnò l’ammiraglio Canaris, capo del controspionaggio tedesco, ad un incontro con il capo del SIM (Servizio Informazioni Militari) dell’esercito italiano, generale Cesare Amé. L’incontro si svolse a Venezia, all’hotel Danieli. La missione di Canaris, siamo nel periodo del governo Badoglio tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, era quella di saggiare la consistenza effettiva della fedeltà dell’alleato italiano. Sia Canaris che von Loringhoven e von Lahousen, un altro degli accompagnatori di Canaris, avevano raccolto presso il Reichssicherheitsamt, sede della Gestapo a Berlino, voci concrete sulla volontà del führer di vendicarsi degli italiani, che avevano arrestato Mussolini, colpendo il re e il Papa. Deportazione o morte erano le parole che i tre esponenti del controspionaggio avevano sentito pronunciare. In una deposizione al processo di Norimberga il 1° febbraio del ‘46 Lahousen ha fornito anche dei particolari riportati a verbale sotto il titolo «Warnreise - Testimony 1330-1430».

Lahousen ha riferito, sempre a Norimberga, anche della reazione di Freytag von Loringhoven: «Euna vera vigliaccheria! Bisognerebbe avvertire gli italiani!». Non deve meravigliare questa reazione perché sia von Loringhoven che Canaris facevano parte di quella resistenza di destra, nazionalconservatrice, al nazismo che di lì a poco avrebbe trovato in von Stauffenberg l’uomo disposto ad organizzare il, poi fallito, colpo di Stato con l’attentato ad Hitler al quartiere generale di Rastenberg il 20 luglio 1944. Sempre secondo Lahousen, lo scopo prioritario del volo a Venezia, al di là delle motivazioni ufficiali, fu soprattutto il tentativo di far sapere agli italiani i progetti di Hitler verso il re e Papa Pacelli. L’incontro, come detto, avvenne in una sala riservata dell’hotel Danieli. Canaris ed Amé si intrattennero insieme a lungo ma nulla è trapelato dei loro scambi d’opinione. Nel pomeriggio del 30 luglio, invece, Amé e i due colonnelli, von Loringhoven e von Lahousen, passeggiarono a lungo al Lido e l’argomento centrale di questi altri colloqui fu proprio l’avvertimento circa i progetti nazisti relativi alla deportazione in Germania del sovrano e di Pio XII. Amé, rientrato a Roma, fece spargere la voce sui nefasti progetti di Hitler verso il re e Pio XII. Tali voci giunsero anche all’ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weisäcker, che si precipitò a chiedere informazioni ai suoi superiori.

Egli ne ha riferito nel suo libro «Erinnerungen» (Ricordi) del 1950. Incontrò immediatamente il feldmaresciallo Kesserling, quindi Kappler a Roma, e poi Wolf a Milano. Tentò di avere notizie più precise anche a Berlino presso l’ufficio di Martin Bormann, capo della segreteria di Hitler. Infine chiese spiegazioni allo stesso Canaris. Il capo del controspionaggio tedesco non poté evidentemente dare a von Weisäcker una risposta affermativa, senza esporsi per questo al rischio della vita e si disse, come tutti gli altri, all’oscuro di piani per deportare Pio XII. E tuttavia una cosa l’incontro tra Canaris ed Amé era riuscita ad ottenere: ormai le voci su quei piani erano diventate pubbliche ed i progetti segreti per colpire il Santo Padre, ormai di dominio pubblico, furono abbandonati. Questo, forse, spiega anche quanto ebbe a dire nell’apparizione in quel di Ghiaie di Bonate, nei pressi di Bergamo, nel 1944, apparizione a suo tempo non riconosciuta ma sulla quale le competenti autorità ecclesiali hanno nel 1999 riaperto il procedimento di verifica, la Santa Vergine ad una piccola veggente: «Comunica a tutti che il Santo Padre soffre molto per le sciagure di questa guerra e molto ancora dovrà soffrire, ma resterà sempre in Vaticano e nessuno lo toccherà». Von Lahousen riuscì a sfuggire alle retate contro i congiurati del 20 luglio ‘44 e fu fatto prigioniero dagli americani. Il servizio segreto inglese lo interrogò per alcuni mesi e quindi fu liberato. Canaris, invece, fu arrestato 3 giorni dopo l’attentato di von Stauffenberg e impiccato nel campo di concentramento di Flossenburg il 9 aprile ‘45. Il barone Wessel Freytag von Loringhoven, il 26 luglio ‘44, avvertito che la Gestapo stava venendo ad arrestarlo e ben conoscendo i metodi di interrogatorio a cui sarebbe andato incontro, preferì suicidarsi con la pistola d’ordinanza. Aveva 45 anni e lasciava quattro figli in giovane età, tra cui Niki (9).



I presunti silenzi e lEnciclica nascosta

Padre Gumpel ha di recente ricordato i tanti discorsi pubblici di Pacelli contro il nazismo e il razzismo, come «l’allocuzione natalizia del 1942», per evidenziare che la questione del silenzio di Pacelli è del tutto viziata da preconcetti ideologici e religiosi. Dal canto suo lo storico e biografo di Winston Churchill, l’inglese Martin Gilbert, di origini ebraiche, ritiene che il cosiddetto «silenzio di Pio XII» ha permesso di salvare molti più ebrei di una esplicita condanna (10).


I presunti silenzi di Papa Pacelli sono solo un argomento fazioso e pretestuoso. Infatti se Pio XII avesse tenuto un atteggiamento di conclamata denuncia pubblica, anziché quello più proficuo alla salvezza di vite umane del silenzio attivo ed operoso, ora gli stessi suoi detrattori, che oggi lo accusano di passività, lo accuserebbero di aver provocato, in barba alla sorte delle povere vittime, con le sue pubbliche denunce, la rabbia nazista aumentandola a dismisura. Lo stesso padre Gumpel, in una intervista recente su Il Messaggero del 22 dicembre scorso, ha ricordato dell’appello giunto in Vaticano nel 1943 da parte dei vescovi polacchi affinché il Papa si astenesse da pubbliche denunce che avrebbero solo peggiorato la situazione. Nella stessa intervista, Gumpel ricorda di essere stato testimone diretto in Olanda, dove ragazzo, in quegli anni tragici, era esule con la famiglia, dell’intensificarsi della persecuzione nazista, che fino a quel momento, per evitare conflitti con la Chiesa, aveva risparmiato gli ebrei battezzati (ed i falsi certificati di battesimo fioccavano copiosi dalla sacrestie per gli ebrei che li richiedevano) nonché chiese e conventi, a seguito della pubblica denuncia della persecuzione antiebraica effettuata dall’episcopato cattolico olandese (nelle seguenti retate, che, come detto, non risparmiarono neanche conventi e chiese, fu catturata anche Edith Stein, oggi Santa, ebrea convertitasi al Cattolicesimo, che poi morì internata in un campo di concentramento, già allieva di Husserl e di Heidegger, quest’ultimo simpatizzante dell’hitlerismo, e nota filosofa ella stessa).



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Benedizione di Papa Pio XII ad un americano. Il Cardinale Francis J. Spellman e Monsignor Enrico Dantes sullo sfondo, 1950



I detrattori di Pacelli, come ad esempio lo storico Luciano Canfora, citano sempre, quale presunta prova del filonazismo di Pacelli, la cosiddetta «enciclica nascosta». Si tratta di una enciclica contro la discriminazione e la persecuzione razziale, direttamente finalizzata alla condanna del regime nazista, commissionata da Pio XI che però, causa morte, non ebbe il tempo di firmarla e pubblicarla. Pacelli, dicono i suoi detrattori, che se la trovò sul tavolo, non appena eletto Pontefice, l’archiviò. Ma a proposito della presunta «enciclica nascosta» di Pio XII, Luciano Canfora e gli altri detrattori di Pacelli non ricordano mai, a dispetto dell’onestà intellettuale che dovrebbe caratterizzare ogni storico, che la Humani generis unitas (così essa si sarebbe dovuta chiamare), redatta dai teologi LaFarge, Desbuquois e Gundlach su incarico di Papa Ratti, oltre ad una chiara e netta condanna dell’antisemitismo razziale conteneva, però, anche un’altrettanto chiara e netta riaffermazione del tradizionale antigiudaismo religioso cristiano. E fu questo il motivo per il quale Pio XII ritenne di non pubblicarla. Perché in anni nei quali in Europa imperversava l’antisemitismo nazista un tale documento sarebbe stato senz’altro strumentalizzato da Hitler e soci.

La malafede oggi, come si è detto, usa come prova del presunto filonazismo di Papa Pacelli l’«enciclica nascosta». Ed invece proprio la mancata pubblicazione di tale documento dimostra chiaramente che Papa Pacelli tutto era tranne che simpatizzante nazista e che egli non voleva dare pretesti «teologici» all’antisemitismo razziale. Se Pio XII avesse pubblicato tale enciclica oggi essa sarebbe il principale capo di accusa contro di lui. Infatti i suoi malfidati detrattori gli imputerebbero la pubblicazione di un documento che in quelle condizioni storiche si prestava ad essere usato dalla propaganda di Goebbels. Canfora e gli altri detrattori di Pio XII, poi, non dicono che la parte non suscettibile di equivoci dell’Humani generis unitas, ossia quella tesa a riaffermare l’unità di natura dell’intero genere umano, fu ripresa da Pio XII nella sua prima enciclica, quella nella quale esponeva il programma del suo Pontificato, ossia la Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939. In essa Pio XII affermava, con tono quasi dogmatico, che la visione cristiana: «ci fa contemplare il genere umano nellunità di una comune origine in Dio: un solo Dio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti».

Un noto opinionista, egli stesso di origini ebraiche, Paolo Mieli, allievo di Renzo De Felice e già direttore del Corsera, criticabile, anche noi lo abbiamo aspramente criticato su molte sue posizioni, è però onesto quando riconosce, lui non cattolico, la santità di Papa Pacelli. In una intervista dell’anno scorso, a proposito dei presunti silenzi di Pio XII e del diverso atteggiamento del mondo ebraico dell’immediato dopoguerra, ossia di quello che fu diretto testimone dell’opera di carità di quel Papa, così diceva:

«Uno dei rimproveri portati al cardinale Pacelli, segretario di Stato di Pio XI, è stato quello di averne attenuato le condanne del nazionalsocialismo. Tra le tante accuse - secondo me non del tutto giustificate - che ha ricevuto Pacelli cè stata anche quella di aver smussato, di aver attenuato i toni dellenciclica Mit Brennender Sorge’. In realtà, esaminando sotto il profilo storico lattività di Papa Pacelli, ricorderei alcuni particolari. Quando iniziò la guerra egli criticò lapatia della Chiesa francese sotto la dominazione nazista nella Francia di Vichy; poi criticò lantisemitismo, quello sì evidente, del monsignore slovacco Josef Tiso (su Tiso il giudizio di Mieli è errato, si veda sotto quanto ne scriviamo noi, nda); diede - come ben raccontato in un libro di Renato Moro, ‘La Chiesa e lo sterminio degli ebrei’, Il Mulino - la propria disponibilità e addirittura una mano, con decisione rischiosissima, a dei complotti contro Hitler tra il 1939 e il 1940. Continuo: quando nel giugno 1941 lUnione Sovietica fu invasa dalla Germania, cera una certa resistenza nel mondo occidentale a stringere accordi con chi fino a quel momento aveva combattuto la guerra dalla parte della Germania nazista. Pio XII invece si diede molto da fare per facilitare unalleanza fra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. E infine il capitolo più importante: durante loccupazione nazista di Roma - come raccontato ad esempio in due libri, quello famoso di Enzo Forcella (‘La resistenza in convento’, Einaudi) e laltro appena uscito di Andrea Riccardi (‘Linverno più lungo’, Laterza) - la Chiesa mise a disposizione tutta se stessa: quasi ogni basilica, ogni chiesa, ogni seminario, ogni convento ospitò e diede una mano agli ebrei. Tantè che a Roma, a fronte dei duemila ebrei deportati, diecimila riuscirono a salvarsi. Ora, non voglio dire che tutti quei diecimila li salvò la Chiesa di Pio XII, però senzaltro la Chiesa contribuì a salvarne la maggior parte. Ed è impossibile che il Papa non fosse a conoscenza di quello che facevano i suoi preti e le sue suore. Il risultato fu che per anni, anni e anni - ci sono decine di citazioni possibili - personalità importantissime del mondo ebraico hanno riconosciuto questo merito intestandolo esplicitamente a Pio XII. Di queste testimonianze si è persa ormai quasi traccia. Ne ha parlato, ad esempio, un bel libro di Andrea Tornielli (‘Pio XII il papa degli ebrei’, Piemme). E una letteratura molto vasta di cui vorrei fornire qualche scampolo. Nel 1944 il gran rabbino di Gerusalemme, Isaac Herzog, dichiara: ‘Il popolo dIsraele non dimenticherà mai ciò che Pio XII e i suoi illustri delegati, ispirati dai principi eterni della religione che stanno alla base di unautentica civiltà, stanno facendo per i nostri sventurati fratelli e sorelle nellora più tragica della nostra storia. Una prova vivente della divina provvidenza in questo mondo’. Nello stesso anno, il sergente maggiore Joseph Vancover scrive: ‘Desidero raccontarvi della Roma ebraica, del gran miracolo di aver trovato qui migliaia di ebrei. Le chiese, i conventi, i frati e le suore e soprattutto il Pontefice sono accorsi allaiuto e al salvataggio degli ebrei sottraendoli agli artigli dei nazisti, e dei loro collaborazionisti fascisti italiani. Grandi sforzi non scevri da pericoli sono stati fatti per nascondere e nutrire gli ebrei durante i mesi delloccupazione tedesca. Alcuni religiosi hanno pagato con la loro vita per questopera di salvataggio. Tutta la Chiesa è stata mobilitata allo scopo, operando con grande fedeltà. Il Vaticano è stato il centro di ogni attività di assistenza e salvataggio nelle condizioni della realtà e del dominio nazista’. Cito poi da una lettera dal fronte italiano del soldato Eliyahu Lubisky, membro del kibbutz socialista Bet Alfa. Fu pubblicata sul settimanale Hashavua il 4 agosto 1944: ‘Tutti i profughi raccontano il lodevole aiuto da parte del Vaticano. Sacerdoti hanno messo in pericolo le loro vite per nascondere e salvare gli ebrei. Lo stesso Pontefice ha partecipato allopera di salvataggio degli ebrei’. Ancora, 15 ottobre 1944. Registriamo la relazione del commissario straordinario delle comunità israelitiche di Roma, Silvio Ottolenghi: ‘Migliaia di nostri fratelli si sono salvati nei conventi, nelle chiese, negli extraterritoriali. In data 23 luglio ho avuto l’ordine di essere ricevuto da Sua Santità al quale ho portato il ringraziamento della comunità di Roma per lassistenza eroica e affettuosa fattaci dal clero attraverso i conventi e i collegi... Ho riferito a Sua Santità il desiderio dei correligionari di Roma di andare in massa a ringraziarlo. Ma tale manifestazione non potrà essere fatta che alla fine della guerra per non pregiudicare tutti coloro che al nord hanno ancora bisogno di protezione (…).E dal 1963 che sono stati accesi i riflettori su Pio XII alla ricerca delle prove della sua colpevolezza e non è venuto fuori niente. Anzi, gli studi hanno portato alla luce una documentazione molto copiosa che attesta come la sua Chiesa diede agli ebrei un aiuto fondamentale. Mi ricordo a questo proposito un gesto molto bello: nel giugno 1955 lOrchestra Filarmonica dIsraele chiese di poter fare un concerto in onore di Pio XII in Vaticano per esprimere gratitudine a questo Papa e suonò alla presenza del Papa un tempo della settima sinfonia di Beethoven. Questo era il clima. E allorché il Papa morì, Golda Meir - ministro degli Esteri dIsraele e futuro premier - disse: ‘Quando il martirio più spaventoso ha colpito il nostro popolo durante i dieci anni del terrore nazista, la voce del Pontefice si è levata in favore delle vittime. Noi piangiamo la perdita di un grande servitore della pace’. La voce del Pontefice per qualcuno non si era levata, ma loro lavevano udita. Capito? Golda Meir aveva udito la sua voce. E William Zuckermann, direttore della rivista Jewish Newsletter’, scrisse: ‘Tutti gli ebrei dAmerica rendano omaggio ed esprimano il loro compianto perché probabilmente nessuno statista di quella generazione aveva dato agli ebrei più poderoso aiuto nellora della tragedia. Più di chiunque altro noi abbiamo avuto il modo di beneficiare della grande e caritatevole bontà e della magnanimità del rimpianto Pontefice durante gli anni della persecuzione e del terrore’. Così è stato considerato Pio XII per anni, per decenni. Erano forse tutti pazzi? No, anzi, erano coloro che avevano subito le persecuzioni di cui Pio XII è incolpato come complice. Se noi lo prendiamo come un caso storiografico, quello della leggenda nera è pazzesco. Però io penso che, a parte qualche polemista, ogni storico degno di questo nome si batterà - anche nel caso di persone come me che non sono cattolico - per ristabilire la verità» (11).

Una testimonianza artatamente rimossa

Ma la testimonianza più efficace a favore della santità e della carità di Papa Pacelli proviene proprio dal mondo ebraico della sua epoca. E non a caso essa è stata prima silenziata e poi rimossa. Parliamo della straordinaria figura del rabbino capo di Roma, negli anni della Guerra, nonché grande biblista, le cui opere di esegesi biblica ancora oggi sono studiate, Israel Zolli, e del suo itinerario di adesione alla Fede in Cristo. Un itinerario nel quale un ruolo notevole fu rivestito anche dall’opera di misericordia di Pio XII verso gli ebrei, della quale Zolli fu testimone e che, insieme ad altri eventi anche di natura soprannaturale, come la visione di Cristo durante l’ultimo ufficio da lui celebrato in sinagoga, lo spinsero ad abbracciare la fede cattolica, con grande scandalo della sinagoga. La Guerra era ancora in corso, quando il 14 febbraio 1945 le agenzie di stampa comunicarono la notizia che il giorno precedente il professore Israel Zolli, gran rabbino di Roma, si era convertito al cattolicesimo, ricevendo il Battesimo. La notizia suscitò incredulità, sdegno, commozione, odio e pressioni inenarrabili su Zolli affinché tornasse sui suoi passi. Israel Zoller, questo il suo nome ebraico, poi italianizzato in Zolli, era nato il 17 settembre 1881 a Brodj in Galizia, Polonia. Figlio di un ebreo polacco, la madre era di famiglia rabbinica e si adoperò per prepararlo agli studi ed alla carriera di rabbino. Era per l’appunto ancora un giovane studente in una scuola rabbinica, quando, in casa di un compagno cattolico, profondamente colpito dal Crocifisso appeso alla parete iniziò a domandarsi sul «Perché gli Ebrei lo crocifissero?».

Quell’Uomo sofferente sulla Croce non gli dava affatto l’idea, comune tra gli ebrei all’epoca, di un impostore o di un traditore dell’ebraismo. Fu per questo che iniziò a studiare il Vangelo, donatogli da amici cristiani. Si fece così evidente all’intelligenza di Zolli che soltanto in Cristo poteva identificarsi il «Servo sofferente di Jahvé» descritto dal Deutero-Isaia nei quattro canti di cui ai capitoli 42-49 e 50-53 di quel Libro veterotestamentario (12). Questa scoperta, della quale andava ogni giorno di più convincendosi proprio sulla base dei suoi studi esegetici, lo spinse, inquieto, ad indagare ancora di più il Mistero dell’Uomo Crocifisso mentre continuava gli studi di filosofia e quelli rabbinici prima a Vienna e poi a Firenze. A soli 30 anni nel 1911 fu nominato vice-rabbino di Trieste. Qui continuò la sua personale riflessione sul Libro di Isaia: ogni ipotesi alternativa a quella dell’identificazione del «Servo sofferente» con altri che non con Cristo cadeva, dopo indagine rigorosa, miseramente.

Nel 1917 la prima delle esperienze di ordine mistico che segnarono la sua vita. Egli stesso ebbe a raccontare che in un pomeriggio d’estate, mentre studiava ancora una volta il passo di Isaia, «la penna mi cadde dalla mano e dal fondo del cuore proruppe una invocazione spontanea: ‘Cristo, salvami!»». Da quel momento fu del tutto certo che il «Servo di Jahvé» è solo Gesù, crocifisso e poi risorto. Nel 1920 Israel Zoller fu nominato Rabbino Capo di Trieste e sposò Emma Majonica dalla quale ebbe una figlia, Myriam. Esse più tardi lo seguirono nella conversione a Cristo. Nel 1933 prese la cittadinanza italiana, cambiando il cognome Zoller in Zolli.

Proprio in questi anni iniziò a scrivere un bellissimo libro intitolato «Il Nazareno» dedicato alla figura di Cristo nel contesto ebraico (13). Gli fu data la cattedra di Lingua e Letteratura ebraica all’Università di Padova che dovette poi lasciare a seguito delle leggi razziali per però assumere, nel 1940, la carica di Gran Rabbino a Roma. All’arrivo dei tedeschi a Roma dopo l’8 settembre 1943, Zolli che, forte anche della sua conoscenza diretta di quanto di pericoloso per gli ebrei si agitava in Europa in quegli anni, aveva già intuito come sarebbe andata a finire, si scontrò con le autorità civili della stessa comunità ebraica romana che, al contrario, tendevano a minimizzare i pericoli. Iniziò in questo momento la fase più cruciale della sua vita, che sfocerà finalmente nell’aperta conversione e nel riconoscimento della Divino-Umanità di Cristo. Ricercato durante il rastrellamento al ghetto di Roma riuscì fortunosamente a mettersi in salvo. Ma, proprio poco prima era accaduto l’evento che fece rifulgere ai suoi occhi la grandezza spirituale e la carità di Pio XII contribuendo ulteriormente alla sua decisione per Cristo.

Il 27 settembre 1943, il colonnello delle SS Herbert Kappler, capo dei servizi di Polizia nella Roma occupata, pretese dalla comunità ebraica, entro 24 ore la consegna di 50 kg d’oro, minacciando la deportazione in Germania in caso di inadempienza. Gli ebrei romani racimolarono tutto quello che potevano, ma a fine giornata mancavano ancora 15 kg d’oro. Fu allora che Zolli si recò da Papa Pio XII per chiedere il suo aiuto ed il Pontefice diede immediata disposizione che gli fosse dato quanto richiesto. Nel frattempo, però, gli ebrei romani erano riusciti da soli a racimolare l’oro mancate, ma la grande carità mostrata da  Papa Pacelli fu per Zolli la prova definitiva della Verità di Cristo, che egli, in quel frangente, vide impersonato dalla persona del Pontefice. Comunque, la raccolta dell’oro fu del tutto inutile perché i nazisti, pur avendo ottenuto quanto chiedevano, attuarono egualmente, come è noto, tra il 15 ed il 16 ottobre 1943, il rastrellamento e la deportazione di duemila ebrei romani. Zolli, come detto, fortunosamente scampò al rastrellamento. All’arrivo degli americani a Roma, il 4 giugno 1944, Israel Zolli riprese il posto di Gran Rabbino e nel successivo luglio celebrò una solenne cerimonia nella Sinagoga, che fu radiotrasmessa, durante la quale espresse pubblicamente a nome di tutta la comunità ebraica romana riconoscenza a Pio XII per l’aiuto dato agli ebrei. Il 25 luglio 1944 Zolli si recò in udienza in Vaticano per ringraziare ufficialmente il Papa per quanto egli, personalmente o attraverso le organizzazioni cattoliche, aveva fatto in favore degli ebrei, ospitandoli o nascondendoli in conventi e monasteri e salvandone così un gran numero (si calcola che la decisione del Papa di aprire le porte di chiese e conventi salvò circa 850.000 ebrei in tutt’Europa). Il successivo 15 agosto 1944, festa dell’Assunzione della Vergine, Zolli si recò da padre Paolo Dezza, gesuita dell’Università Gregoriana, chiedendogli l’acqua del Battesimo. In una successiva intervista avrebbe spiegato così il suo gesto: «Quando ho visto la mia anima che traboccava di Cristianesimo, pur conservando infinita carità per le sofferenze del mio popolo, mi sono convinto che sarebbe stato disonesto proseguire per una via che non era più la mia». Nel settembre 1944, celebrò per l’ultima volta la festa dell’Espiazione nella Sinagoga romana. Fu durante questa celebrazione che, come racconta nella sua autobiografia (14), ebbe una visione di Cristo che lo benediva. Poi si dimise dalla carica di Gran Rabbino e, come detto, il 13 febbraio 1945 ricevette il Battesimo nella Cappella annessa alla sacrestia della Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma, per le mani di monsignor Traglia, vicegerente di Roma. Prese come nome di battesimo quello di Eugenio Pio, per pubblica riconoscenza verso Pio XII (Eugenio Pacelli). La moglie Emma prese il battesimo con il nome di Maria in onore della Madonna. Furono raggiunti nella fede cristiana dopo un anno anche dalla figlia Myriam.

Agli ebrei che lo accusavano di essere un serpente in seno alla comunità israelitica, il settimanale ebraico uscì addirittura stampato a lutto, egli tentò di spiegare la sua decisione scrivendo loro queste parole : «Il mio Dio si è rivelato al mondo, dopo Mosè e i Profeti, in Gesù Cristo. Io sento per Gesù un amore ardente, fiammeggiante e per amore di Gesù Cristo ho rinunciato a tutto… Nulla chiesi e nulla ebbi da voi. Vi amo tuttora nel nome del Signore».

Il 4 marzo 1945 si recò in udienza da Papa Pacelli per esternargli la sua devozione, come nuovo figlio della Chiesa cattolica. Anziano, sofferente e povero, ma felice, iniziò una vita cristiana fervente. Assisteva ogni mattina alla celebrazione della Santa Messa, si comunicava e stava ore in prolungata preghiera perché diceva: «Si sta bene in cappella con il Signore, che non vorrei mai uscirne». Ai cattolici che lo avvicinavano era solito ripetere: «Voi che siete nati nella religione cattolica, non vi rendete conto della fortuna che avete avuto di ricevere fin dallinfanzia la fede e la grazia di Cristo; ma chi come me, è arrivato alla fede dopo un lungo travaglio di anni, apprezza la grandezza del dono della fede e sente tutta la gioia di essere cristiano».

Riavuta, abrogate le leggi razziali, la sua cattedra universitaria, iniziò, tra quelli dei suoi ex correligionari ebrei che si dimostravano intenzionati a meglio conoscere Cristo, un’opera intensa di apostolato. Contemporaneamente diventò il principale testimone della carità di Pacelli e il più strenuo difensore della sua memoria. Tuttavia, pur non negando che il comportamento di Pio XII in occasione degli eventi accaduti durante l’occupazione tedesca di Roma avesse avuto il suo peso nella sua decisione verso il gran passo della conversione, proprio perché fu, quello del Papa, un comportamento nel quale rifulse la Luce di Cristo, Zolli dichiarò sempre che la conversione restava comunque l’esito di grazia di un lungo percorso iniziato sin da quando, ragazzo, si poneva domande circa l’Uomo del Crocifisso in casa dei suoi amici cristiani. Lo studio delle Scritture lo avevano portato a cogliere i semitismi avvertibili dietro il greco del Nuovo Testamento, prova tra tante altre della storicità dei Vangeli. Ma soprattutto ad identificare, come detto, l’isaiano «Servo sofferente» nel Cristo crocifisso. In proposito ammoniva i suoi antichi confratelli: «O il Servo di Jahvé è Colui che la Chiesa cattolica ha riconosciuto e onorato fin da principio e riconosce tuttora come Figlio di Dio, o tutto è un caos e cadono tutte le Scritture». Riguardo a Papa Pacelli affermava: «Io non ho esitato a dare una risposta negativa alla domanda se mi fossi convertito per gratitudine a Pio XII, per i suoi innumerevoli atti di carità. Ciò nonostante, sento il dovere di rendergli omaggio e di affermare che la carità del Vangelo fu la luce che mostrò la via al mio cuore vecchio e stanco. E quella carità che tanto spesso brilla nella storia della Chiesa e che rifulge nellopera del Pontefice regnante».

Zolli morì a Roma il 2 marzo 1956 a 75 anni. Nello stesso giorno dell’80° compleanno del suo grande amico Pio XII. Se oggi fosse vivo, Zolli sarebbe esterrefatto ed indignato delle posizioni faziose del »Trio Lescano» e ne sarebbe, con la sua testimonianza dal «vivo», il più acerrimo confutatore. Sarebbe la prova vivente della grande carità di Pio XII di fronte alla quale anche la protervia arrogante del «Trio» dovrebbe pudicamente tacere. E’ per questo che, da parte ebraica, si è fatto di tutto per rimuovere la memoria di Zolli, senza che, purtroppo, da parte cattolica, una nostra colpa inescusabile, si sia fatto molto per maternale viva.



Intempestività di Benedetto XVI?

I contestatori di parte ebraica della decisione di Benedetto XVI di sbloccare l’iter di canonizzazione di Papa Pacelli lamentano, come abbiamo già ricordato, che tale decisione arriva in modo intempestivo rispetto alla data di apertura degli Archivi Vaticani relativi al periodo della seconda guerra mondiale e del pontificato di Pio XII. Nel suo discorso in occasione della Pentecoste del 13 giugno 1943, Papa Pacelli, riferendosi alla propaganda menzognera che lo voleva ora l’alleato di una delle parti in conflitto ora dell’altra, fece una «profetica» affermazione che sembra dettata proprio dalla intricata e complicata situazione internazionale, quella stessa che, non solo a lui, aveva suggerito la via obbligata del silenzio, però attivo nell’aiuto agli ebrei, e che invita oggi noi tutti, se onesti, ad andare oltre gli aspetti contingenti. Disse, in quell’occasione, Papa Pacelli: «La Chiesa non teme la luce della verità, né per il passato, né per il presente, né per il futuro. Quando le circostanze dei tempi e le passioni umane permetteranno o richiederanno la pubblicazione di documenti, non ancora resi di pubblica ragione, concernenti la costante azione pacificatrice della Santa Sede, non timida dei rifiuti e delle resistenze durante questa immane guerra, apparirà in luce più che meridiana la stoltezza di tali accuse».

Un’affermazione che vale anche, di riflesso, per quel che riguarda il suo atteggiamento nel frangente della persecuzione antiebraica. Ora, è proprio questa serena consapevolezza che ha mosso Benedetto XVI, già al corrente dei risultati delle ricerche da lui stesso fatte portare ad ulteriore approfondimento sulla documentazione contenuta nell’Archivio Vaticano, a rimuovere ogni ostacolo, di tipo storico, sulla via della beatificazione di Eugenio Pacelli. Solo un anno fa, infatti, nel dicembre 2008, Benedetto XVI dichiarava pubblicamente: «Pio XII spesso agì in modo silenzioso e discreto perché, alla luce delle situazioni di quella complessa fase storica, intuì che solo così si poteva evitare il peggio e salvare il più gran numero possibile di ebrei». Una affermazione fatta con la sicurezza di chi sa perfettamente che i documenti d’archivio, una volta che, concluso il loro riordino sistematico, saranno resi accessibili agli storici, gli daranno ampia ragione (15).

Padre Gumpel conferma la certezza di Benedetto XVI: «Sono sempre più convinto - ha detto - della santità di questo grande Papa (Pacelli, nda) e certamente se avessi scoperto nellArchivio Segreto vaticano qualsiasi documento che potesse minare la sua causa di beatificazione, sarei stato il primo a denunciare la cosa. E poi mi chiedo come mai - ora che gli Archivi Vaticani sono aperti fino al febbraio 1939 - non si accede a questi documenti. Si conoscerebbe un Pacelli nunzio in Baviera e segretario di Stato sotto Pio XI molto diverso da quello raffigurato da Rolf Hochhuth nel suo dramma Il Vicario’ (si tratta della piéce teatrale, commissionata nel 1963 da Mosca, con la quale iniziò l’opera di sistematica diffamazione della venerabile memoria di Pio XII, nda). Ci sono tanti documenti inediti in difesa di Pio XII nelle cancellerie di molti Paesi. Mi chiedo: perché questi testi non vengono studiati?» (16).

La certezza di Benedetto XVI deriva dall’ulteriore indagine condotta dal domenicano Ambrosius Eszer, che per conto della Santa Sede ha effettuato un nuovo approfondimento del materiale d’archivio in vista della futura beatificazione di Pio XII. Eszer ha espresso la sua ferma convinzione sull’evidenza dell’operato di Pio XII in favore degli ebrei perseguitati in una lettera inviata proprio a padre Gumpel nel luglio scorso, nella quale si legge: «Ho finito il mio lavoro presso lArchivio della Segreteria di Stato e ogni nuova ricerca potrà confermare la posizione attuale della Santa Sede su Pio XII» (17).

Sempre Gumpel ha poi ricordato a proposito di Pio XII: «E morto povero, lui principe romano, perché usò buona parte delle sue fortune per salvare il maggior numero di ebrei perseguitati e nascosti nei conventi. Mi tornano alla mente le tante missioni ufficiose nella capitale della fidata suor Pascalina Lehnert» ed ha lamentato che: «Mai si ricorda quanto Pacelli fece prima della deportazione degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943. Si pensi al fatto che Pio XII si dichiarò disposto a recuperare delloro da consegnare al rabbino capo di Roma Eugenio Zolli. O la protesta informale che il Papa fece per la deportazione degli ebrei nel 1943 allambasciatore Ernst von Weizecker. Una testimonianza - questultima - da me raccolta dalla viva voce della principessa Enza Pignatelli Aragona»(18).

Come si è detto Benedetto XVI ha chiesto, prima di firmare il decreto sull’eroicità delle virtù di Eugenio Pacelli, un supplemento di indagine allo storico domenicano Ambrosius Ezser. Il quale, in dieci mesi di ricerca presso la prima sezione dell’Archivio della Segreteria di Stato, ha esplorato circa 27 faldoni, trovando ampia conferma di quanto Pio XII, attraverso la sua rete diplomatica e il suo provvidenziale «silenzio attivo», fece a favore degli ebrei durante la persecuzione nazista.

Eszer ha verificato tutta la documentazione relativa alla «politica» vaticana tra il 1939 e il 1945 fugando ogni eventuale ostacolo alla beatificazione di Pio XII. Padre Eszer ha 77 anni ed è un insigne storico, già relatore generale alla Congregazione per le cause dei santi. Risiede attualmente nel convento di San Paolo a Berlino da dove ha dichiarato: «… proprio la recente indagine mi ha permesso di vedere quanto la Santa Sede e di riflesso Papa Pacelli si siano prodigati per gli ebrei. Quando si apriranno gli archivi penso si scoprirà ancor di più quanto la luce del Pastor Angelicus meriti di brillare per quanto, a volte nel silenzio e fuori dai riflettori, si è prodigato per arginare il dramma della Shoah» (19).

Padre Eszer ha fatto anche un accenno significativo che ci permette di confutare anche l’ultimo dei pretestuosi capi d’accusa che il nostro «Trio Lescano/Quaretto Cetra» ha elencato nelle sue dichiarazione al Messaggero del 20 dicembre scorso, ossia il presunto mancato intervento del Papa sul regime slovacco di monsignor Tiso: «Mi ha sorpreso - ha detto Ezsner - la diplomazia nascosta e parallela, soprattutto in Paesi come Cecoslovacchia o Ungheria, messa in atto dalla Santa Sede per salvare tante vite» (20).



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Papa Pio XII alla festa di Natale dove i doni di cibo e indumenti sono stati elargiti a 2.500 bambini rifugiati, 1944, Università Gregoriana



Quello di monsignor Josef Tiso non fu affatto un regime fascista o nazista. Tiso era il presidente del Partito Popolare Slovacco, una formazione politica di tipo nazional-cattolica, che, difendendo i diritti della popolazione slovacca contro gli abusi centralistici di Praga, godeva molto consenso tra gli slovacchi durante il periodo di unificazione forzata ceco-slovacca, seguita al disfacimento della compagine asburgica all’indomani del primo conflitto mondiale. Il programma del partito di Tiso era di tipo corporativista in linea con il magistero sociale cattolico dell’epoca («Rerum Novarum» di Leone XIII e «Quadragesimo Anno» di Pio XI). Tiso salì al potere nel 1938 a seguito dell’accordo di Monaco che inaugurò l’indipendenza slovacca e segnò la fine dell’innaturale Cecoslovacchia voluta dai vincitori di Versailles, francesi ed inglesi, come argine alla Germania, a capo della quale era stato messo il massone Benes. Il regime di Tiso fu inizialmente di tipo autoritario e nazional-cattolico, dunque nulla che vedere con fascismo e nazismo. Hitler, potente vicino del piccolo Paese mitteleuropeo si intrometteva volentieri nelle vicende interne della Slovacchia e oltre all’adozione di una legislazione antisemita, impose a monsignor Tiso la nomina a primo ministro del capo del locale partito nazista slovacco, Tuka, e come ministro dell’Interno l’altro capo nazista slovacco, Alexandre Mach. Monsignor Tiso tentò di portare avanti un programma sociale cattolico ed, ad contempo, di contenere il radicalismo della formazione di Tuka e di Mach, ma senza grande successo. Alla fine prevalsero i nazisti, capeggiati dai ministri Tuka e Mach, e monsignor Tiso fu praticamente emarginato nel ruolo meramente simbolico di presidente della repubblica.

Nel libro di padre Blet, da noi citato alla nota 8, l’intero capitolo VIII, da pagina 223 a pagina 240, vi è il racconto analiticamente documentato del braccio di ferro instauratosi tra la Santa Sede ed il governo slovacco in ordine agli ebrei, strenuamente difesi in ogni modo da Roma, anche facendo pressioni canoniche e disciplinari su monsignor Tiso, ed invece subdolamente consegnati alle SS dai predetti ministri nazisti. Monsignor Tiso cercò di salvare almeno gli ebrei battezzati, o falsamente battezzati, ma alla fine non sempre si dimostrò all’altezza della situazione e spesso tentennò ambiguamente tra i suoi doveri di sacerdote cattolico e la sua devozione patriottica alla Slovacchia, che aveva appena raggiunto un simulacro di indipendenza. In realtà, Tiso non si rese mai pienamente conto di essere prigioniero dei nazisti e di, in tal modo, mettere a repentaglio i suoi ideali di patriota slovacco nonché il suo status di sacerdote cattolico. Successivamente catturato dagli americani, lo sfortunato prelato fu consegnato ai sovietici e da questi processato, si può immaginare con quali garanzie giuridiche, ed impiccato. La persecuzione antiebraica fu quindi opera non di Tiso ma dei nazisti collaborazionisti guidati dai ministri Tuka e Mach. A Tiso, casomai, si può imputare una troppo eccessiva arrendevolezza alle decisioni dei suoi ministri, tenendo conto però che egli era nella non facile situazione di essere a capo di un piccolo Stato sottoposto al pesante protettorato di un potente vicino come la Germania hitleriana. Una cosa è sicura: al Vaticano di Pio XII non può assolutamente rimproverarsi alcuna inerzia, nei confronti del governo di Tiso, nel difendere gli ebrei slovacchi. A chi ne dubita diciamo, «leggete padre Blet».

E lItalia fascista?

Dall’indagine di Ambrosius Eszer sono emersi anche interessanti particolari sul ruolo dell’Italia nel Patto d’acciaio: «Strano a dirsi, - ha dichiarato il domenicano - ma la presenza dellItalia nellAsse ha permesso di mitigare la ferocia nazista verso gli ebrei. Mi ha colpito nella mia verifica scoprire una lettera preoccupata di Mussolini al gerarca fascista Cesare de Vecchi sul fatto che Hitler desse poca importanza al rischio di proteste dei cattolici tedeschi fedeli a Roma, perché costituivano solo un terzo della popolazione» (21). In realtà la cosa non è affatto strana, per chi, come storici e politologi, conosce le differenze ideologiche, genetiche, politologiche ed istituzionali esistenti tra fascismo e nazismo e che rendono i due regimi assolutamente non comparabili fra loro, al di là delle superficiali apparenze. Che poi Mussolini in persona non fosse affatto antisemita e che, anzi, odiasse, comunque ritenesse inaffidabile, Hitler è cosa ormai ampiamente risaputa e comprovata. Tra le autorità italiane e quelle tedesche vi furono veri e propri scontri, e non solo verbali, in ordine alla questione ebraica. Lo storico ebreo Léon Poliakov ha riconosciuto che ampia fu la protezione posta in essere da Benito Mussolini a favore degli ebrei, non solo di quelli italiani: «Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)» (22).

La protezione assicurata dalle autorità italiane agli ebrei si ergeva non solo in Italia ma anche nei Paesi sotto occupazione italiana come la Croazia, la Grecia, la Tunisia. Dopo il 25 luglio, naturalmente venne meno quella protezione e la pressione nazista si fece pressante anche sulla Repubblica Sociale. Il rastrellamento e la razzia del ghetto di Roma non sarebbe mai potuta avvenire prima del 25 luglio 1943. Essa infatti avvenne il 16 ottobre 1943. La caduta del fascismo ebbe come conseguenza il fatto che i nazisti non trovarono più nessun ostacolo, salvo quello della Chiesa, nel portare a termine la persecuzione antiebraica anche laddove, ossia in Italia e nei Paesi occupati dalle truppe italiane, dove prima non avevano potuto operare. Ciononostante, non tutto andò secondo i programmi nazisti. Un episodio, relativo proprio agli eventi del 16 ottobre 1943, è in proposito altamente indicativo. I tedeschi, la mattina del rastrellamento del ghetto di Roma, trovarono a protestare e a tentare di fermarli non i partigiani o i politici antifascisti, nascosti, anch’essi ed anche quelli di sinistra, nei conventi, ma un uomo in camicia nera, Ferdinando Natoni. Un «dimenticato» dalla storiografia che lo storico non professionista Filippo Giannini ha avuto il merito di sottrarre dall’oblio raccogliendo la testimonianza della figlia Anna. Il Natoli, mentre la retata era in corso, si precipitò in strada e, avvalendosi della qualifica di «fascista», pretese dalle SS la restituzione degli ebrei catturati nel suo edificio. Cosa che avvenne. Natoli è un nome che dovrebbe aggiungersi a quelli più noti di Perlasca che salvò la vita ad alcuni migliaia di ebrei in Ungheria, Zamboni che riuscì a far fuggire da Salonicco centinaia di ebrei, Palatucci che ne salvò alcune migliaia a Fiume, Calisse che operò in Francia e fece fuggire diverse decine di ebrei. Tutti, per lo scandalo dei benpensanti del «politicamente corretto», fascisti! Persino un, pur radicale e fanatico, Farinacci nascose una famiglia di ebrei nella sua tipografia. Almirante, il futuro segretario del MSI, ne nascose alcuni nel ministero dove lavorava. La testimonianza della figlia del Natoli è stata comprovata da quella delle gemelle ebree Mirella e Marina Limentani, che furono salvate proprio da quel fascista che secondo la storiografia, falsa e bugiarda, del «politicamente corretto» non doveva essere lì: «Natoni - hanno testimoniato le sorelle Limentani - si fece avanti verso i tedeschi con decisione, presentò me e mia sorella come sue figlie e, mostrando la sua divisa, li invitò con fermezza ad andarsene, cosa che fecero scusandosi per il disturbo».

Questo dimostra due cose essenziali: la prima, già accennata, che il fascismo non è assimilabile né avvicinabile al nazismo e la seconda che nel diverso atteggiamento del regime mussoliniano verso gli ebrei, al di là delle posticce, improvvisate e strumentali leggi razziali, un ruolo fondamentale lo svolgeva il secolare carattere cattolico degli italiani che agiva anche oltre l’ideologia, già di per sé non antisemita, del regime stesso. Due fattori che hanno continuato a fare la differenza anche durante i mesi della Repubblica Sociale, quando la ferocia della guerra civile ed il radicalismo dei più intransigenti tra i fascisti avrebbe invece dovuto spingere ad un maggior allineamento alla politica razziale degli «alleati» nazisti. In realtà, anche durante quel tragico periodo nel quale l’Italia fu divisa, occupata da Nord e da Sud e gli italiani si trucidavano tra essi, «Se si eccettua laspetto economico, - ha osservato Renzo De Felice  - nei mesi successivi allemanazione dellordine di polizia numero 5, la politica antisemita della RSI fu in un certo senso abbastanza moderata (…). Il concentramento degli ebrei fu condotto poi dalle prefetture, in relazione al periodo in questione sintende, con metodi e discriminazioni abbastanza umani ed esso non fu affatto totale, come lascerebbe credere lordine del 30 novembre 1943. Oltre a ciò il 20 gennaio 1944 Buffarini Guidi, venuto a conoscenza del fatto che in molte località i tedeschi prendevano in consegna gli ebrei ivi concentrati, diede istruzioni perché fossero fatti presso le autorità centrali germaniche i passi necessari ad ottenere che, in ottemperanza al criterio enunciato, fossero impartite disposizioni atte a far sì che gli ebrei rimanessero in campi italiani (…)» (23).

Conferma il giudizio del compianto storico, socialista ed ebreo, reatino, la testimonianza di Primo Levi rilasciata nell’intervista a L’Espresso del 27 settembre 2007, nella quale ricorda del suo arresto, il 13 settembre 1943, e del suo trasferimento ad Aosta nella caserma della Milizia Fascista. Qui Levi e altri ebrei arrestati, come lui, furono consegnati al centurione Ferro, poi ucciso dai partigiani nel 1945, il quale li trattò tutti con estrema benevolenza: «Il Centurione - rammenta Levi - appreso che eravamo ebrei e non dei veri partigiani ci disse: ‘Non vi succederà nulla di male; vi invieremo al campo di Fossoli, presso Modena’. Ci veniva regolarmente distribuita la razione di vitto destinata ai soldati e alla fine di gennaio 1944 ci portarono a Fossoli con un treno passeggeri. In quel campo si stava allora abbastanza bene; non si parlava di eccidi e latmosfera era sufficientemente serena; ci permisero di trattenere il denaro che avevamo portato con noi e di riceverne altro da fuori». La convergenza tra la posizione della Chiesa cattolica assolutamente favorevole alla tutela degli ebrei, posizione condivisa anche da quei suoi settori, come i gesuiti di Civiltà Cattolica, che raccomandavano politiche prudenziali verso le pretese di assoluta libertà ed eguaglianza religiosa avanzate dall’ebraismo, e l’ideologia del regime originariamente del tutto aliena da qualsiasi razzismo, comportò persino un’applicazione soft delle leggi razziali, quando l’innaturale alleanza con la Germania, maturata anche per via dell’atteggiamento anti-italiano assunto da Francia ed Inghilterra nella questione della guerra d’Etiopia, costrinse l’Italia, e che fu un atto forzosamente strumentale alla politica estera italiana di quel momento è ormai riconosciuto la maggior parte degli storici, ad iniziare dal De Felice, a dotarsi di leggi di quel genere.

La prova palmare di questa applicazione soffice della legislazione razziale, che dimostra tutta l’inconsistenza dell’operazione «razzismo» in Italia, sta nel fatto che decine di migliaia di ebrei, fuggendo dalla Germania e dai Paesi caduti sotto l’occupazione tedesca, si rifugiavano nel nostro Paese nonostante le leggi razziali all’epoca vigenti. Fuggivano, ebrei e perseguitati politici, nell’Italia fascista e non nei Paesi democratici. Questo perché la Svizzera li rifiutava, Roosevelt fece intervenire la Marina per respingere le navi dei fuggiaschi e l’Inghilterra minacciava il siluramento delle navi cariche di ebrei esuli.

Lo ricordava il 20 luglio 1993, su L’indipendente, Daniele Vicini, citato da Filippo Giannini, scrivendo: «Ebrei e comunisti sciamavano verso il Brennero, frontiera che possono varcare senza visto a differenza di altre (americana, sovietica, ecc.) apparentemente più congeniali alle loro esigenze». Altra conferma giunge da Klaus Voigt, anch’esso citato dal Giannini, che nel libro «Rifugio precario» afferma: «Fino allentrata in guerra dellItalia non risulta neppure un caso di condanna o allontanamento di un migrante per attività politica (…). Eppure dal 1936 (?), la Germania è il principale alleato e quegli emigranti sono suoi nemici. Polizia e carabinieri ricevono disposizioni dal Duce, chiare ed essenziali, anzi ridotte ad una sola parola: ‘Sorvegliare, non arrestare’».

Giannini ricorda, sulla scorta del Vicini, anche un ebreo d’eccezione che trovò salvezza nell’Italia fascista. Si tratta di Edward Luttwak, il noto opinionista e politologo americano. Infatti la profonda conoscenza della lingua e della cultura italiana che Luttwak, spesso ospite nelle nostre trasmissioni televisive, dimostra risale proprio al periodo trascorso in Italia quando con la sua famiglia fuggì dalla Romania per rifugiarsi da noi.



Per concludere

La storia è una cosa molto complessa e non si può mai ridurla a slogan. E’ necessario sempre indagarla a tutto tondo. Cosa che da parte della Chiesa di Benedetto XVI è stata fatta, proseguendo un’opera di verifica storica che riguardo a Pio XII era iniziata sin dai tempi di Paolo VI, sicché le lamentele del «Trio Lescano/Quartetto Cetra» dell’ebraismo italiano non solo appaiono del tutto pretestuose ma anche tragicamente ridicole. Si è appreso che la comunità ebraica di Roma ha convocato il «Sinedrio» appositamente per discutere se annullare o meno la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma prevista per il 17 gennaio prossimo. Pare che alla fine abbia prevalso la linea favorevole alla conferma, anche - hanno detto i maggiorenti della comunità - per lasciare aperto il dialogo. Sembra però che vi saranno proteste anche ufficiali per la decisione del Papa di sbloccare l’iter che porterà alla canonizzazione di Pio XII durante quella visita. Si sentono offesi, gli ebrei, per il fatto che il dialogo da parte cattolica sarebbe ambiguo e temono che sotto sotto i cattolici vogliano la loro conversione. Non si capisce perché mai noi cattolici non dovremmo augurare anche ai «fratelli maggiori» il Sommo Bene che è l’incontro e l’adesione a Cristo. Vogliamo dirlo chiaro direttamente agli interessati: la vostra conversione, «fratelli maggiori», è sempre, ogni giorno, nelle nostre preghiere. Certamente sappiamo anche noi che la vostra conversione è un evento escatologico riservato al Disegno di Dio e che dunque non è a noi che spetta stabilire quando e come essa avverrà. Ma è sicuro che essa avverrà. E lo sapete anche voi perché da duemila anni la vostra ansia messianica, quella che vi turba e vi ha portato e vi porta ancora a sbagliare sull’identificazione del Messia (da ultimo, e con quali tragiche conseguenza gli eventi di Terra Santa lo stanno provando a tutto il mondo, lo avete identificato nell’Israele medesimo), è rimasta inappagata e tale rimarrà fino a quando non riconoscerete la Divino-Umanità di Gesù Cristo. Noi possiamo attualmente solo testimoniarvi Cristo e ricordarvi la vostra posizione teologica imperfetta ed arretrata. Ciò non può né deve impedirci di riaffermare, come nel caso di Pio XII, la verità storica oltre che quella teologica. Benedetto XVI è un Papa che pur dialogando con tutti e pur procedendo con estrema carità nel proporre la Verità, non si lascia intimorire da nessuno quando si tratta di tenere alta la fede della Chiesa nel Suo Signore. E cosa sulla quale anche tanti cattolici, sovente critici da «destra» e da «sinistra», di Papa Ratzinger dovrebbero riflettere. Certo, poi, ci sono anche le prudenziali ragioni della diplomazia, anche di quella religiosa, e quindi non deve meravigliare la nota di Curia, diffusa il 22 dicembre scorso da padre Lombardi, nella quale si dichiara che la canonizzazione di Pio XII è questione solo teologica e non anche storica. Si sostiene in quella nota che la santità di Papa Pacelli è stata valutata sulla base del grado, appunto eroico, dell’esercizio delle virtù cristiane teologali di Fede, Speranza e Carità, indipendentemente dalle decisioni che lo stesso prese nel governo della Chiesa in un periodo sicuramente difficile.

A nome della comunità ebraica romana, rabbi Riccardo Di Segni si è detto «soddisfatto» del gesto di apertura del Vaticano verso la loro sensibilità. Ma, con la cristallina ironia che lo caratterizza, padre Gumpel, che - ricordiamo - è il postulatore della causa di beatificazione di Pio XII, ha fatto notare che la virtù teologale della Carità, per l’appunto, si manifesta proprio nella storia e nelle decisioni che il cristiano prende nella propria vita, sicché scindere l’aspetto teologico da quello storico non è, non può essere, e non è stato neanche nella fattispecie relativa a Papa Pacelli, il metodo seguito dalle commissioni canoniche preposte a vagliare della santità dei candidati agli altari (24). Questo giusto per raffreddare la «soddisfazione» di rabbi Di Segni, e degli altri suoi correligionari, e per ricordare che, in vista della visita del Papa in sinagoga il prossimo 17 gennaio, un atto di diplomatica distensione era dovuto. Che poi questo, come molti hanno pensato, sia un dietro front rispetto alla dichiarazione sulla eroicità delle virtù di Pio XII non corrisponde ai fatti. L’iter di Papa Pacelli verso la beatificazione è ormai irreversibilmente aperto e prima o poi lo vedremo sugli altari, lui che è già santo in Cielo. Forse si dovrà aspettare ancora del tempo, nel caso dell’attuale beato Carlo d’Asburgo tra la dichiarazione di «Servo di Dio» e la beatificazione è passato quasi un secolo, ma Pio XII sarà beato. Piaccia o non piaccia al «Trio Lescano» ed accoliti.

Luigi Copertino



1) Il noto gruppo vocale degli anni trenta e quaranta era costituito da tre giovani cantanti di origini ebraiche che si misero in mostra per il loro indubbio talento canoro, spesso accompagnando come «spalla» altri noti cantanti dell’epoca. Esattamente come hanno fatto, nelle recenti polemiche a proposito della dichiarazione dell’eroicità delle virtù di Pio XII, Riccardo Di Segni, Riccardo Pacifici e Renzo Gattegna che hanno agito di «spalla» al direttore del museo della shoah di Roma, Marcello Pezzetti. Da qui il nostro scherzoso definirli «Trio Lescano» dell’ebraismo italiano. Non tutti sanno che, nel periodo successivo alle leggi razziali in Italia, il noto trio dovette cambiare il nome in «Trio Cetra». Denominazione ripresa, nel dopoguerra, da un altro noto gruppo canoro, il «Quartetto Cetra». Sicché, dal momento che nell’occasione in questione, i suddetti tre rappresentanti della comunità ebraica romana hanno agito all’unisono con il Pezzetti, ci è sembrato scherzosamente simpatico chiamarli anche «Quartetto Cetra».
2) Rimandiamo in ordine alla pulizia etnica sionista sulla inerme popolazione palestinese, che è costata non solo l’espulsione della popolazione palestinese dall’attuale territorio di Israele ma anche centinaia di migliaia di vittime innocenti tra vecchi, donne e bambini, al fondamentale libro dello storico israeliano Ilan Pappe, dell’università ebraica di Gerusalemme dalla quale, dopo la pubblicazione delle sue ricerche, è dovuto emigrare alla volta di una università inglese. Il libro è intitolato «La pulizia etnica della Palestina» ed è stato pubblicato in Italia per i tipi della Fazi Editore di Roma nel 2008. Pappe, che è figlio di genitori sfuggiti alla persecuzione nazista, è uno degli storici israeliani cosiddetti «revisionisti», appartenenti alla giovane generazione dei «nuovi storici», ma a differenza di altri noti nomi di tale corrente storiografica non ha mia giustificato, come fanno gli altri, con presunte ragioni di Stato o di sopravvivenza di Israele la mattanza ai danni dei palestinesi. Anche perché, sostiene Pappe, la mattanza è iniziata ben prima della guerra del 1948 e soprattutto perché la parte forte, quella che aveva la totale superiorità militare, politica ed economica, come l’esito della successiva guerra ha dimostrato, era proprio Israele e non certo la popolazione palestinese autoctona. Il fatto che poi i palestinesi sono stati spesso usati cinicamente come pretesto politico dai Paesi arabi, che perseguivano a loro volta altri obiettivi geopolitici, nulla toglie alla responsabilità criminale che i vertici israeliani e sionisti si sono assunti di fronte al giudizio morale ed a quello storico. Anche se nessun tribunale di nessuna Norimberga li condannerà mai (il che poi non è mica detto: spesso la storia riserva amare sorprese a chi si sente intoccabile!).
3
) Confronta L. Copertino, «Le giravolte pseudo-storiche di Gianfranco Fini» e «Pio XII ed il nazismo», in www.effedieffe.com, rispettivamente del 19 e 26 dicembre 2008.
4
) Riportiamo a mo’ di esempio le dichiarazioni del rabbino americano Silver tratte da un articolo di Avvenire del 14 giugno 2009 «Un rabbino americano chiede la canonizzazione di Pio XII»: «Roma, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org) E’ un rabbino statunitense, fino al settembre del 2008 aveva sollevato dubbi sull’idoneità per la beatificazione di Pio XII, mentre adesso prega per il Pontefice e propone di riconoscere Papa Pacelli come santo. Nella prefazione all’ultimo libro di suor Margherita Marchione, ‘Papa Pio XII. Un antologia di testi nel 70° anniversario dell’incoronazione’, edito in italiano e inglese dalla Libreria Editrice Vaticana, il rabbino americano Erich A. Silver del Temple Beth David in Cheshire…, racconta il perché del suo cambio di opinione. ‘Credevo – ha scritto Silver nella prefazione al libro della Marchione - che poteva fare di più. Volevo sapere se, infatti, fosse stato un collaboratore, un antisemita passivo, mentre milioni furono uccisi, alcuni in vista del Vaticano’. Poi - ha raccontato il rabbino - nel mese di settembre del 2008 venne a Roma, invitato da Gary Krupp a partecipare ad un simposio organizzato dalla Pave The Way Foundation, in cui si voleva esplorare il ruolo di Pio XII durante l’Olocausto. In quell’occasione il rabbino Silver conobbe suor Marchione e una cinquantina tra rabbini, sacerdoti, studiosi e giornalisti che avevano studiato e indagato a fondo sul tema. Per Silver, quel simposio è stata una folgorazione: ‘Le prove che ho visto - ha scritto - mi hanno convinto che la sua sola motivazione (di Pio XII ndr) è stata di salvare tutti gli ebrei che poteva’. E l’immagine negativa contro Pio XII? Secondo Silver, tutto è cominciato con la pubblicazione del libro ‘The Deputy’ con la diffusione di bugie e l’abitudine a non indagare i fatti storici. Così molte persone sono diventate ‘strumento di coloro che detestano Pio XII perché fu sempre anticomunista’. ‘E’ da notare - ha rilevato Silver - che, dopo la fine della guerra, e fino alla sua morte gli ebrei lo hanno lodato continuamente riconoscendolo come salvatore’. ‘Io spero - ha auspicato il rabbino - che la canonizzazione di Papa Pio XII possa procedere speditamente, affinché non solo i cattolici, ma tutto il mondo possa conoscere il bene compiuto da quest’uomo di Dio’».
5
) Confronta Lorenzo Fazzini, «Pio XII per gli ebrei, ecco la prova», in Avvenire del 4 marzo 2009. Nell’intervista contenuta nell’articolo ora citato, padre Gumpel così significativamente continua: «C’è stato qualche nemico della Chiesa che ha detto: siccome non ci sono ordini scritti di Pio XII di salvare gli ebrei, vuol dire che non l’ha fatto. Ma è la stessa motivazione con cui lo studioso David Irving ha negato la Shoah, ovvero che non esiste un documento firmato da Hitler che attesti lo sterminio degli ebrei; e quindi l’Olocausto non sarebbe avvenuto... Questo delle Agostiniane è uno dei pochi casi di testimonianza scritta della volontà di Pio XII di aiutare gli ebrei».
6
) Citato in Paolo Mieli, «La storia renderà giustizia a Pio XII», in L’Osservatore Romano del 19 settembre 2008. Si tratta di una importante intervista all’ex allievo di Renzo De Felice ora disponibile anche sul sito di Sandro Magister www.chiesa.espressonline.it del 10 ottobre 2008.
7) Confronta Andrea Tornielli, « ‘Civiltà Cattolica’: così Pio XII soccorse gli ebrei», in Il Giornale del 6 marzo 2009. Vedasi, sempre di Tornielli sull’argomento, anche «Il museo dell’Olocausto rivede la leggenda nera», in Il Giornale del 16 marzo 2009.
8
) Confronta Pierre Blet, «Pio XII e la seconda guerra mondiale negli archivi vaticani», edizioni San Paolo, Milano, 1999, pagine 281-284. Quando i giornalisti lo interrogavano sui presunti silenzi di Pio XII, Giovanni Paolo II, riferendosi a quest’opera, rispondeva loro «Leggete padre Blet».
9
) Confronta Diego Vanzi,  «Luglio ‘43, Hitler voleva eliminare Pio XII», in Avvenire del 16
giugno 2009.
10
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», in Avvenire del 22 dicembre 2009.
11
) Confronta Paolo Mieli, «La storia renderà giustizia a Pio XII» opera citata.
12
) Il riferimento è in particolare al capitolo 53 del Libro di Isaia. Il «Servo del Signore» è descritto come l’Uomo più innocente, eppure percosso e umiliato, tormentato fino alla morte, a causa dei peccati degli altri: «… Eppure, egli si è fatto carico delle nostre infermità e si è addossato i nostri dolori. Noi lo abbiamo ritenuto un castigato, un percosso da Dio e umiliato. Ma egli è stato trafitto a causa dei nostri peccati, schiacciato a causa delle nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti…».
13
) Il libro del Zolli su «Il Nazareno» è stato ripubblicato quest’anno per le edizioni San Paolo.
14
) Confronta E. Zolli, «Prima dell’alba», edizioni San Paolo, Milano, 2004.
15
) Confronta Antonio Airò, «Pio XII: ‘I documenti ci daranno ragione’ », in Avvenire del 9 dicembre 2008.
16
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
17
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
18
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
19
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
20
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
21
) Confronta Filippo Rizzi, «Pio XII oltre i dubbi», opera citata.
22
) Confronta Léon Poliakov, «Il nazismo e lo sterminio degli ebrei», pagine 219-220. Riprendiamo questa citazione, come altre che seguono, nonché l’argomentazione dell’intero paragrafo in questione da due notevoli contributi dell’erudito Filippo Giannini «Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire - I casti divi e l’olocausto» e «La regina delle menzogne: Mussolini sterminatore di ebrei?». I due contributi sono stati fatti girare dal loro autore per posta elettronica. Ma sono anche disponibili nelle sue opere storiografiche, reperibili sempre presso l’autore o editrici non conformiste come Effedieffe.
23
) Confronta Renzo De Felice, «Storia degli ebrei sotto il  fascismo», pagina 447.
24
) Confronta intervista a padre Gumpel su Il messaggero del 22 dicembre 2009.



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