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Pensare l’Apocalisse per pensare meglio
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«Sono convinto», ha scritto il famoso antropologo René Girard, «che siamo entrati in un periodo in cui l’antropologia diventa uno strumento più utile che le scienze politiche.

Dobbiamo cambiare radicalmente la nostra interpretazione degli eventi, cessare di pensare come uomini dellIluminismo, guardare in faccia finalmente la radicalità della violenza, e con essa costituire un tuttaltro tipo di razionalità. Gli eventi lo esigono».

Trovo questa frase in una profonda, provocatoria riflessione degli autori del sito Dedefensa, a cui rimando per la lettura integrale: ne vale la pena.
Gli eventi cui allude Girard sono quelli come «la fine del petrolio», il «riscaldamento globale»,

la guerra infinita e sgranata e degradata in cui ci troviamo a vivere e ad assistere (complici e passivi) mentre devasta milioni di vite innocenti, senza scopo e senza fine razionalmente evidente.
Sono eventi, o catastrofi, che «hanno necessariamente una risonanza di Apocalisse», dice Dedefensa.
Tale che anche la ragione ne viene modificata, e deve adattarsi a questa modificazione.

Non crediate stiamo parlando di grandi eventi al di fuori della nostra portata.
L’apocalisse ha anche misure più familiari e vicine.

Per esempio, diventa urgente chiedersi come mai l’apice della cultura occidentale e la sua civiltà tecnico-scientifica, che non ha mai avuto nulla di simile nella storia, abbia dato come risultato la dittatura collettiva della più sorda ignoranza collettiva.
Come mai sono i neo-primitivi, i cafoni più incivili, soddisfatti di sé e più arroganti, ad imporre le loro «soluzioni» sui competenti e ragionevoli.
Come mai tremila anni di pensiero occidentale, e tre secoli di razionalismo, hanno portato al totalitarismo del non-pensiero?

In questo senso, la considerazione di Girard si applica benissimo anche alla monnezza di Napoli.

Tralascio i bruciatori di cassonetti, i 20 mila netturbini napoletani (25 per ogni netturbino milanese) evidentemente assunti in quota-camorra, la passività di una cittadinanza che non solo sopporta questa inadempienza lurida per 14 anni, ma che la difende al bisogno.
Mi limito al caso apparentemente marginale: gli abitanti di Pianura, il sobborgo, che contro la riapertura della locale discarica bruciano quattro autobus e si scontrano con la polizia perché, dicono, lì vogliono un campo da golf a 18 buche.


C’è qui un’evidente deformazione psicologica, che è spiegabile forse solo dall’antropologia

(lo studio di selvaggi).
Questi abitanti non hanno la minima idea delle «condizioni» richieste dalla creazione di un campo da golf: tanto per fare un elenco incompleto, la vicinanza di alberghi di lusso, una capacità di manutenzione che a Napoli semplicemente non esiste, un paesaggio curato e di fama mondiale per la sua bellezza anziché bruttato dalle fungaie edilizie abusive, un mare non inquinato anziché i cavalloni color sterco che battono il golfo di Napoli, servizi inappuntabili, puntuali e dedicati  al servizio del turismo d’alta gamma non solo con competenza professionale ma con dedizione generosa, la protezione da una micro-criminalità volta al borseggio e alla rapina dello straniero  che è invece onnipresente, impunita e compassionata («Non cè lavoro, devono anda a rubbà»),

e inoltre - perché no - una cultura diffusa che sappia valorizzare ed amare le bellezze archeologiche locali.

Fra le condizioni che rendono irreale un campo da golf c’è anche una popolazione in rivolta perpetua e che compie atti di teppismo incendiari per far valere un suo presunto «diritto».
Non accade solo a Napoli.

Anche in Lombardia è accaduto: hanno steso un campo d’atterraggio nella brughiera, chiamato Malpensa, ed hanno detto: ecco fatto l’hub per il Nord produttivo.
Apparentemente, la classe dirigente è ignara delle condizioni basilari che fanno di un aeroporto un hub, a cominciare dal collegamento di tutti i trasporti terrestri, stradali, ferroviari, metropolitani, con la pista d’atterraggio.

Eppure quella classe dirigente, grande viaggiatrice in delegazioni con amanti al seguito (tanto paghiamo noi), sarà pur atterrata qualche volta a Francoforte, al Charles De Gaulle di Parigi, ad Heathrow.
Lì, il viaggiatore avvertito, se italiano, non solo nota, ma si stupisce della quantità di servizi di trasporto messi a sua disposizione, facilmente e senza ritardi, senza parlare di tutti gli altri servizi:

a Malpensa non ci sono nemmeno toilettes a sufficienza, e per lo più sono in riparazione o chiuse per pulizia.


Però c’è una hall lunga mezzo chilometro su cui si affacciano vetrine.
La classe dirigente voleva fare della Malpensa, infatti, una «vetrina del Made in Italy», sognava una passeggiata fra Armani, Versace e Volta & Gabbana di viaggiatori che devono trascinarsi la valigia su e giù per il mezzo chilometro alla ricerca di un cartello segnalatore, di informazioni sul volo,

di una hostess che non stia telefonando e non lo tratti con dispregio, di un WC o di un taxi, visto che i treni nazionali non ci sono.
Quelle vetrine sono per lo più sfitte e spente, perché Armani mica c’è cascato.
E tuttavia Malpensa è davvero una «vetrina del Made in Italy»: ossia della nostra cafoneria arrogante, insensibile ai bisogni del viaggiatore moderno, incapace di mettersi nei suoi panni e di offrirgli qualcosa in cambio dei soldi che gli spilla.

E’ così tutto il governo italiano, in fondo.

Di destra o di sinistra.

Selvaggi che si mettono al collo una sveglia, e così si sentono nella modernità.

Ma la sveglia non è un ornamento.

Nel mondo civile, serve per andare a lavorare in orario.

A Pianura, dicono gli abitanti sediziosi, il campo da golf glielo avevano promesso.
Già: glielo aveva promesso chi?
Una classe dirigente che da 14 anni non mantiene le banali promesse di nettezza urbana, benchè abbia affollato i posti di 20 mila netturbini, per lo più pregiudicati.
Che non sa sviluppare il tesoro archeologico che da solo arricchirebbe la Campania - parlo di Pompei - e che invece ha abbandonato al minuto taglieggio di un piccolo commercio abusivo e delinquenziale.
Nemmeno lì possono sorgere alberghi di lusso, delle catene internazionali: contro di loro si applicano vincoli rigororissimi, di fatto impraticabili.

Mentre a Pompei, apprendo, esistono 900 denunce di abusi edilizi e 4.200 richieste di condono di tali abusi.
Manica larga per «i nostri», strettissima per «quelli là».
Secessione mentale.

Il bello è che i cittadini di Pianura avranno votato per quelli che gli hanno promesso il golf a 18 buche.
Perpetuando così attivamente quella Casta da inchiesta giudiziaria contro cui, ora, bruciano gli autobus (ma la Casta non va in bus).


Di fatto questi napoletani, che vivono nel culto della propria furbizia, fanno la figura di quel turista americano a cui Totò, in un film indimenticabile, vende la Fontana di Trevi.
Loro si sono fatti vendere il campo da golf.
Da Bassolino e Jervolino.

Non voglio infierire.

Ma questo è appunto un esempio «antropologico» del massimo interesse: il miscuglio patologico di chiusura mentale dialettale e particolarismo neo-primitivo, aggravato da spezzoni di «pensiero illuminista» mal masticato, e dato per scontato.

In che consistono tali residui dei Lumi?

Nel fatto che questa gente - e anche noi - presupponiamo che la parola «governo» significhi ancora quello che ha significato nei due secoli precedenti: ossia che esista ancora un potere coordinato, in qualche modo competente, e volto a fornire servizi moderni, che garantiscano la libertà nella stabilità.
Pensiamo che se la spazzatura si accumula, una «autorità» se ne sia accorta ed abbia la volontà di provvedere a sgombrarla.
Che se la camorra si impadronisce di certe aree, un «governo» provvederà a stabilire l’ordine nell’interesse dei cittadini.
Che se i prezzi rincarano, ci sia un ministero non si dice capace di tenerli sotto controllo, ma almeno che stia pensando a come fare.

Insomma viviamo in un mondo utopico in cui supponiamo di essere «governati», e che qualcuno stia provvedendo ai bisogni della comunità in modo sensato.
Persino i camorristi e mafiosi suppongono l’esistenza di un «ordine» e di un «diritto», non foss’altro per violarlo.
Anche i cittadini che si fanno dare il parcheggio da falsi invalidi credono di stare furbescamente allargando a loro vantaggio le maglie di un diritto che, nonostante le continue violazioni, persiste e continua a funzionare.

Ebbene: proprio questo non esiste più.

Come la parola «guerra» non significa più quello che significava in passato, ma l’infinito ammazzamento di inermi messi alla fame che vediamo in Palestina, il bombardamento di capanne afghane con caccia-bombardieri stratosferici e missili supersonici, l’avvelenamento totale di linee genetiche umane da uranio impoverito, così anche «governo» significa altra cosa.

Eppure è esistito.




Dai racconti dei miei genitori, che abitavano a Milano durante la Repubblica Sociale come lavoratori di una fabbrica militarizzata nella vasta area meccanico-siderurgica vicino a Sesto, una cosa mi stupiva: che sotto i bombardamenti terroristici e continui, la fame e la disfatta imminente, continuasse ad esistere il governo e l’ordine.
Autorità provvedevano al razionamento nella penuria, con tessere alimentari diverse per vecchi e donne allattanti.
Il delitto grave era la borsa-nera, quasi una necessità.
Il valore della lira era paradossalmente stabile ed alto (alla fine, si trovò che la Tesoreria di Salò aveva mantenuto ottime riserve auree).

 

Rari gli sciacalli che saccheggiavano le case sventrate, pena la fucilazione immediata; non c’erano bande di criminali che approfittavano della situazione per rapinare, come accade per esempio oggi in Kenia.
I tranvieri si facevano in quattro per far funzionare i trasporti pubblici, scarsi e devastati; là dove le rotaie del tram erano divelte dalle bombe, una qualche autorità provvedeva a trasbordi con camioncini macilenti al gasogeno.
I treni partivano e arrivavano, passando su binari secondari e per giri lunghissimi, continuamente minacciati dal mitragliamento aereo.
Funzionavano la polizia e i tribunali, gli acquedotti e le centrali e le poste.
Le gente andava a lavorare ogni giorno.

Responsabilità nel sacrificio erano la norma.

E non era questione di fascismo.

Anche gli operai stalinisti della grandi fabbriche, col mitra nascosto in attesa della rivoluzione imminente, lavoravano sodo e bene, tanto che gli ingegneri SS dell’Alfa Romeo si opposero all’ordine finale di Berlino di smantellare la fabbrica e di minarla: la produttività milanese era quella della Ruhr, sotto gli stessi bombardamenti.
Gli operai stalinisti erano per la rivoluzione, non per la sedizione.
Il lavoro ben fatto, coordinato e responsabile, era la loro norma.
Persino loro si fidavano dell’ordine generale, vi si appoggiavano come cosa che viene da sé.
Era l’effetto della civiltà.
Della razionalità dei Lumi, se volete.
Ora tutto questo è sparito.

Ciò che chiamiamo «governo» non ha né l’intenzione né la capacità di provvedere ad alcunchè; la sua sola azione di governo consistendo nella tassazione strangolatrice.
Siamo abituati a pensare che un governo sia l’antagonista istituzionale della malavita organizzata; non riusciamo a vedere che oggi, invece, ne è divenuto l’ausiliario subordinato, nella comune opera di taglieggio della società.
Facciamo fatica a capire che non esiste più un ordine provvidente, nemmeno da violare con il sopruso o la furberia.

Durante «lemergenza rifiuti», Napolitano era a Capri nella villa presidenziale, Pecoraro Scanio all’estero in località sconosciuta, Prodi sciava sulla neve e Berlusconi era ad Antigua a curare la sua villa da 10 milioni di euro.


Prodi è tornato, ma sapete a fare che?
A mettere uomini suoi sulle poltrone massime di INPS, INAIL ed INPDAP: enti cosiddetti previdenziali che gestiscono 400 miliardi di euro - denaro estratto da milioni di imprese contro le quali possono usare la forza pubblica «legale» - e lo distribuiscono a 22 milioni di famiglie:

un enorme blocco di potere clientelare la cui occupazione con complici fidati garantisce l’eternità del potere prodiano.
Le riforme di cui questi enti avrebbero bisogno, ovviamente, non sono nemmeno prese in considerazione.

La sparizione del governo competente e dedicato al bene comune è uno degli eventi apocalittici.

«Guardare in faccia la radicalità della violenza» in cui si è trasformata la «legalità» o l’ordine pubblico (perché dove non c’è il diritto non esiste che violenza e sopruso radicale), è appunto imparare a pensare nell’Apocalisse: prendere atto che solo per freni residuali non siamo ancora ridotti allo scontro di tutti contro tutti dell’Iraq o del Kenia, ai quartieri separati fra sunniti e sciiti, alle bidonville etnicamente ripulite dai kikuyu, alle bande armate di saccheggiatori o a quelle, peggiori, di «poliziotti» col mitragliatore, che se sono kikuyu ammazzano i passanti luo.

Quei freni sono morali, ma stanno cedendo: e la «classe dirigente» ne affretta allegramente lo sfascio,  dando l’esempio di ruberia e illegalità impunita, di favoritismi e furberie di ogni genere che allentano quel che resta di legalità, e anche solo di decenza.

E ciò non avviene solo in Italia.

«La violenza è oggi scatenata a livello del pianeta intero», dice Girard, «provocando ciò che annunciavano i testi apocalittici: una confusione tra i disastri causati dalla natura e i disastri causati dalluomo, la confusione del naturale e dellartificiale».

Pensate a New Orleans: distrutta dall’uragano Katrina (naturale) o dalle falle nelle dighe mai riparate, perché i soldi servivano a fare la guerra al terrorismo globale inesistente?
E nonostante questo disastro, il «governo» Bush è rimasto a «governare», ossia al potere di malfare: fatto senza precedenti nella storia americana.

Pensate a come l’Occidente considera «naturale» che Israele stia facendo morire di fame un milione e mezzo di palestinesi, avendo un «diritto naturale allintera terra biblica»: vi sembra razionale tutto ciò?


A Napoli, le montagne di monnezza hanno ormai il carattere di una catastrofe «naturale» come un’eruzione del Vesuvio, ma sono opera umana.

Anche nostra.
O almeno di ciascuno di noi che ha furbescamente votato sognando un campo da golf sulla rumenta. Di chiunque si faccia dare una pensione cui non ha diritto, sottraendola a chi ne ha bisogno, di chi si faccia una casa abusiva o altro beneficio indebito, come la falsificazione di un concorso pubblico.

O chiunque si batta per la «legalità» dell’aborto, mentre dichiara «illegale» la pena di morte, trasformando così la morte di Stato da pena in «terapia» mutuabile.
E il feto, anziché in un innocente da tutelare, in malattia.


A forza di forzarlo e scardinarlo, l’ordine non esiste pìù.
Esiste solo la corsa disordinata ad arraffare quel che si può, ciascuno per sé e contro gli altri.

Ciò in cui consiste la barbarie apocalittica.

E non ce ne accorgiamo.
Perché, come dice Dedefensa, «La nostra psicologia attuale, costretta comè dalle norme imposte dalla civiltà in corso, è totalmente incapace di sopportare lurto degli eventi che si ammassano, se non per accecamento volontario benchè incosciente, o minacciato dalla follia».

Un accecamento «volontario» ma «incosciente» è una contraddizione in termini?
No, nell’ora apocalittica.

Pensate solo a come i più credono alla versione ufficiale sull’11 settembre, o che davvero gli USA abbiano invaso Afghanistan e Iraq per dare la democrazia a quei popoli.
Pensate a come i giornali trattano Napolitano come fosse davvero un’autorità morale.
Fanno finta?
Non soltanto: «devono» fingere, perché guardare in faccia la realtà - negli attuali limiti e presupposti del politicamente corretto - sarebbe troppo sconvolgente.
Riconoscere di essere governati da un potere di menzogna totale e in definitiva primordialmente omicida, obbligherebbe a fare qualcosa di radicale.
Ma cosa?

O pensiamo alla crisi del petrolio.
Se il petrolio sta per finire, è tutta la nostra civiltà del consumo che è votata alla fine.
Niente più commercio globale, telefonini taiwanesi, ananas africani, auto giapponesi, jeans e felpe Nike; niente più abbondanza; invece autarchia, razionamento, rinunce.
Per la massima parte della gente che vive con noi in questa generazione, è letteralmente «impossibile» pensarsi in questo mondo imminente.
Pensare che l’umanità ha vissuto per millenni senza scarpe di ricambio o senza scarpe affatto, nel freddo d’inverno e nella calura estiva, con viaggi limitati dalla trazione di muli e cavalli, assillata dal pensiero del raccolto minacciato dalla grandine, costretta a produrre da sé il proprio cibo - eppure non primitiva né infelice, anzi produttrice di arte e pensiero di una eccellenza che, oggi, nemmeno possiamo immaginare.
Noi, non possiamo.

Non ci si vuol pensare, e si arraffa quel che si può, finchè si può, per godersi gli ultimi giorni a spese di altri meno forti o meno ammanicati: e così, scardiniamo ancora un po’ di più quel che resta dell’ordine, accelerando la nostra stessa fine.

Ci aiuta in questa volontaria incoscienza il mondo «virtuale», esito ultimo della tecnologia occidentale: la TV e le comunicazioni in genere in cui viviamo immersi che si presentano come

«la realtà», mentre ci anestetizzano dalla realtà e ci assicurano che il pensiero dei Lumi è ancora valido, che il progresso non s’è interrotto, che la moralità e decenza, o il coraggio e la responsabilità verso il prossimo non servono più, perché ogni problema ha una risposta tecnica, che verrà dalla Scienza o dalla «democrazia».

Il peggio è che questo rumore mediatico non è nemmeno propaganda.

I primi a credere alla realtà virtuale sono coloro che la inventano, siano l’asse Pentagono-Hollywood, o l’asse Mediaset-TG3.
I vecchi geni della propaganda non credevano alle menzogne che diffondevano, e questo era ancora un segno di sanità.
Oggi, gli autori della narrativa pubblica credono all’universo illusorio che hanno creato, la loro psicologia è la prima ad essere deformata dal mezzo audio-visivo totale.
Naturalmente, ci credono per accecamento volontario ma insieme inconscio.

E’ stato facile accusare i tedeschi degli anni ‘30, tutti quanti, di questo accecamento volontario-inconscio: non volevate vedere, ecco il punto!


Ma noi facciamo peggio, e su scala planetaria.

E lo facciamo per una falla morale che sta dentro di noi.
Perché sappiamo che un cambiamento radicale dovrebbe cominciare dalla nostra, personale, riforma interiore: più frugalità, più rinunce, più associazione concorde per il bene comune, in vista dei più deboli e inermi, quelli che la scomparsa dell’ordine colpisce più duramente - come i 13 milioni di italiani sotto il limite di povertà, o vecchi o famiglie numerose: fenomeno di cui nessuno vuol dire se è «naturale» o artificiale, se per caso è dovuto al fatto che Napolitano e Bertinotti fanno alzare un Airbus per andare a Firenze, o che il signor Caputo ha un posto di netturbino  a Napoli perché amico di camorristi, un posto da cui è assente per «malattia» da «allergia alle polveri», naturalmente certificata dal medico della ASL.

Quei poveri non sono effetto di una «naturale» penuria, di un cattivo raccolto come otto secoli fa. Quei poveri, li abbiamo fatti noi.
Lo spreco dei parassiti, anzitutto.
Ma anche la somma delle nostre furberie, inadempienze e mancanze di generosità nel sacrificio comune, che giustifichiamo con la pseudo-convinzione che «ci penserà il governo».


Cominciamo a pensare l’Apocalisse come possibile: è la sola via di guarigione.
«E la nostra psicologia», conclude Dedefensa, «che ha permesso alla bestia di scatenarsi e che ci ha indotto a incatenarci, noi, per fascinazione e vanità, al suo sviluppo incontrollato».

E’ solo la nostra psicologia, se accettiamo l’idea che dobbiamo sviluppare «un altro tipo di razionalità», che può permetterci di liberarci: non soltanto per osservare in modo radicalmente critico un dominio considerato come tabù [la «democrazia», la «legalità» ad esempio], ma per scongiurare la nostra tendenza sistemica a confondere l’idea della forza con l’idea del bene, a fare di una funzione dinamica (la forza) una funzione morale (il bene).

E’ esattamente questo il punto.
Qui siamo, e qui dobbiamo saltare.

 

Note 

1)  «Lesprit de lapocalypse salue lannée 2008», Dedefensa, 2 gennaio 2008.