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Meccanica del conformismo
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Negli anni ‘50, un sociologo di Harvard di nome Stanley Milgram condusse un esperimento – in Norvegia e in Francia – per misurare il conformismo (1).

L’esperimento funzionava così: un soggetto, messo in una cabina, sente due suoni in una cuffia e deve dire quale dei due è stato più prolungato. Ma prima di dare il suo giudizio, deve ascoltare quello di altre cinque persone che stanno in cinque altre cabine: persone che (il soggetto non lo sa) non esistono. Le altre  cabine sono vuote, e da esse provengono varie frasi e giudizi registrati, che lo sperimentatore può modificare come vuole. Magari aggiungendoci risatine, mormorii indignati e giudizi maligni come commento alla risposta del soggetto.

Quale dei due suoni è più lungo? Dalle altre cabine vengono giudizi sbagliati. Ebbene: il soggetto – che darebbe la risposta giusta – tende a conformarsi ai giudizi sbagliati del gruppo.

In altre parole: l’uomo medio tende a diffidare delle proprie orecchie (e delle proprie opinioni)
piuttosto che contraddire di continuo il resto del gruppo.

Questo conformismo era spiccatissimo nei norvegesi, mentre lo era molto meno nei francesi. I norvegesi si conformavano di regola con il giudizio degli «altri», anche se il loro era diverso. E non tanto perchè i norvegesi fossero particolarmente pusillanimi (c’era anche questo), ma soprattutto perchè temevano i giudizi degli «altri» – ancorchè inesistenti.

Se infatti veniva chiesto al soggetto di scrivere la risposta anzichè darla a voce, al microfono, facendolo cioè sapere al resto del gruppo (simulato), tendeva a dare un giudizio più indipendente e giusto – anche se sempre meno dei francesi. Se il norvegese sentiva venire dalle altre cabine (vuote) una risatina alla sua risposta giusta, passi; ma se dalle altre cabine gli venivano rivolti commenti  come «Chi ti credi di essere?», oppure: «Quante arie!», allora 75 norvegesi su cento si precipitavano a modificare il loro giudizio (giusto) per conformarlo a quello (sbagliato) del gruppo. Più che la vergogna di dare un giudizio errato in minoranza, agiva sui norvegesi il timore di passare per saccente. Per di più, i norvegesi accettavano la critica «Chi ti credi di essere» in silenzio; al contrario, metà dei francesi reagiva rimbeccando.

Insomma, l’individuo che si conforma al gruppo fino a rinunciare alla propria convinzione di essere nel giusto teme, apparentemente, che «gli altri» gli rimproverino di essere migliore, più intelligente o più acuto. In una parola, teme l’invidia sociale.

Interessanti i motivi con cui i norvegesi (prima studenti, poi l’esperimento fu confermato con operai, che diedero lo stesso risultato) spiegarono nelle interviste successive il motivo per cui avevano cambiato il loro giudizio dopo aver ascoltato quello degli altri: «Nel mondo d’oggi non ti puoi permettere di stare  troppo all’opposizione»; «La vita moderna è fatta così: bisogna cercare di dar ragione agli altri»; o anche: «Se cerchi di sottrarti scostandoti dal giudizio degli altri, te la fanno pagare».

Difficile dire se i norvegesi sono stati resi così dal loro Stato sociale, che fa loro accettare alte tasse e molte restrizioni in nome del bene comune, o se al contrario, lo Stato sociale norvegese sia così ben funzionante grazie all’attitudine dei norvegesi a conformarsi solidalmente agli interessi del loro ambiente sociale, a mettere in secondo piano la loro individualità.

Per i gruppi americani, i sociologi hanno spesso osservato che in un dato gruppo sociale i suoi componenti esigono da ogni altro, specie se novizio, l’uniformità. Essi puniscono attivamente  il non-conformismo.

Spiace che, per quanto ne so, non si siano fatti simili esperimenti in Italia: cosa ne risulterebbe? Forse, conformisti litigiosi.

Si noti: nell’esperimento norvegese come su quello francese, era esclusa ogni subordinazione di tipo gerarchico. Il soggetto sapeva che gli altri erano come lui studenti, pari-grado; eppure la pressione di questi «altri» che non aveva nemmeno visto nè conosciuto, e che poi avrebbe scoperto inesistenti, bastava a indurre il norvegese a rinunciare ad una propria fondata convinzione, pur di non sfidare e di non contraddire il fantomatico gruppo.

L’uomo è tanto spasmodicamente bisognoso di «compagnia», da rinunciare a ciò che ha visto e sentito, e al proprio giudizio, pur di non essere escluso.

Già la mente dei lettori corre, immagino, all’11 settembre, e a come questa tendenza sociale dell’uomo-massa sia stata sfruttata dal potere. Credo che tutti, nessuno escluso, alla visione dell’aereo che colpiva la Torre nel cielo terso, delle due Torri che cadevano in perfetta verticale tra nuvole di polveri, abbiano «sentito» nel fatto qualcosa di artificiale, di troppo scenografico, di «non vero». Ma poi la ripetizione incessante della versione ufficiale, gli incessanti talk show e la processione di «esperti» che la confermavano, con l’esclusione, demonizzazione e derisione di quelli che ne dubitavano, ha ottenuto l’effetto voluto. I più hanno dubitato dei propri occhi, ed hanno dato più credito a tutti «gli altri». Dopotutto, chi sono «io» per smentire ciò che il presidente, gli ingegneri, i giornalisti affermano? E anche loro si sono aggiunti al coro che, a chi obiettava, replicava indignato: «Chi credi di essere?», «Cala le arie».

E’ l’esperimento di Milgram su scala planetaria. Il potere sfrutta da sempre questa attitudine al conformismo, alla subordinazione verso le idee e situazioni vigenti.

Il cardinale di Richelieu, un teorico e pratico del potere non inferiore a Machiavelli per spregiudicata lucidità, dice da qualche parte: mi sono accorto per mia esperienza che, a parità di ogni altra condizione, i «ribelli» sono forti sempre la metà di quanto siano i difensori del potere ufficiale. Nonostante la convinzione di sostenere una buona causa, si è indeboliti dalla coscienza di essere ribelli, di non far parte del vasto gruppo sociale. I leader di gruppi settarii utilizzano d’istinto quest’attitudine, chiudendo il gruppo su cui dominano verso l’esterno (gli altri «altri») con varii metodi e rituali.

Quand’ero giovane, i membri dei gruppuscoli d’estrema sinistra usavano esclusivamente il gergo, gli stilemi, le retoriche del marxismo dottrinario; emergeva tra loro chi usava con più scioltezza quel linguaggio, e se ne usavi un altro, magari per dire le stesse cose, eri «fuori». Quelli di Gioventù Studentesca (la futura Comunione e Liberazione) si sforzavano di usare non solo il linguaggio di don Giussani, ma persino le sue pause, il suo tono di voce, quella foga che gli inceppava la lingua quasi a far intendere che il pensiero gli nasceva e urgeva dentro in quel momento, tanto originale che doveva trovar le parole per esplodere fuori. Effetto retorico magari convincente in don  Giussani, ma ridicolo nei suoi adepti, che ripetevano concetti non loro, tutti uguali, fatti con lo stampino.

Le stesse caratteristiche si mostrano in quegli australiani e americani che, avendo aderito ai Lubavitcher, di punto in bianco si vestono con le palandrane di ebrei polacchi dell’ottocento, infarciscono il loro inglese con uno yiddish deformato da presunti arcaismi, e invocano «Mosiach Now!».

L’effetto è lievemente ripugnante. Ma si deve riconoscere che questo insieme di meccanismi psicologici che è il conformismo, il timore del giudizio degli «altri», il sentire la pressione sociale degli altri e piegarvisi, è una costante, apparentemente invincibile, anche utile in tempi normali: senza questa inerzia non ci sarebbe una società stabile. E’ tuttavia grave in tempi di crisi, quando occorre abbandonare i «luoghi comuni» per esplorare la realtà nuova in modo inedito, recuperando l’indipendenza di giudizio a cui i più non sono abituati.

Fatto significativo: Milgram riuscì ad aumentare la frequenza e il grado dell’indipendenza dei soggetti facendo loro credere che i loro pareri sarebbero stati fondamentali per la costruzione di apparecchiature di controllo del traffico aereo. La responsabilità di vite umane induceva i soggetti a tener fermo nel loro giudizio, che sapevano  giusto, contro quello falso degli «altri».

Dunque il conformismo sarebbe anche in qualche misura uno scarico di responsabilità, che il richiamo alla responsabilità può rettificare.

L’anticonformista – se la sua non è una posa – l’uomo che tiene ferme convinzioni sue che ha maturato, contro «gli altri» e le loro esclusioni, deve reggere la solitudine, questa condizione radicale dell’uomo, la sua realtà. Certo non è qualcosa che si può pretendere da tutti, ed è anche meglio non pretenderla. Basterebbe riflettere, ogni tanto, su quanti  giudizi e idee che diciamo «nostri» ci vengono invece dagli «altri», e da quella massa anonima e generica di altri, che diciamo «la gente».

Del resto, anche il più originale anticonformista possibile può sfidare «la gente» solo in qualche idea o convinzione. Nel 98% del tempo aderisce ai loci communes vigenti, anche i più falsi. Non si può sempre stare a contrastare, per esempio, il darwinismo rozzo professato da buone persone, anche colte, rozzo al punto che nemmeno i darwinisti professionali osano esprimerlo in quel modo (L’uomo discende dalla scimmia»): è una delle «vigenze» nell’aria che tira. L’uomo non è un animale pensante se non quando vi è costretto, è un animale «sociale» nella massima parte della sua esistenza, e si comporta di conseguenza.

Si deve lamentare la devastazione del buon conformismo, quello che – per esempio – obbligava anche i miscredenti ad onorare l’onestà, la povertà laboriosa, magari la castità (almeno prematrimoniale), il sacrificio di sè ad un compito o ai familiari. Ora è stato sostituito dal conformismo della «dissacrazione» di quel conformismo cristiano; e per tutti, l’uomo medio anzitutto, comportarsi bene, responsabilmente, è più difficile. E la società non è migliorata, anzi.

Lo diceva Simone Weil nel 1949: «La religione è stata proclamata cosa privata. Date le attuali abitudini mentali (il nuovo conformismo, ndr) non vuol dire che essa risiede nel segreto dell’anima; vuol dire che è oggetto di opinione, di gusto, di fantasia, qualcosa come la scelta di un partito politico o persino di una cravatta. Essendo divenuta cosa privata, perde il carattere obbligatorio riservato alle cose pubbliche, e quindi non possiede più un diritto incontestabile alla fedeltà... Così, non esiste nulla su cui la fedeltà possa fondarsi» (2).

Tranne lo Stato, aggiungeva Simone: ma era lo Stato che poteva chiedere la fedeltà militare fino alla morte, da tempo dissipato – perchè la distruzione del «buon» conformismo ha dissolto anche la legittimità degli Stati.

Simone Weil descriveva con quelle parole la situazione che oggi viviamo, tragicamente compiuta: una società dissociata, di insubordinati o meglio di sradicati, che negano fedeltà a tutte le autorità (per lo più a ragione), e però docilissima – come i cani di Pavlov – ai conformismi dettati dai media, dalla pubblicità, da «autorità» irresponsabili o malevole.

Perchè la manipolazione delle masse, come abbiamo visto dall’11 settembre, è diventata una scienza esatta. Del resto, perchè credete che la sociologia americana si sia tanto dedicata a certi esperimenti? Credete forse che Milgram, col suo esperimento, mirasse a ridurre il conformismo sociale? Mirava ad accrescerlo, e a mettere a punto gli strumenti per suscitarlo a comando, onde metterli a disposizione del potere.

Adesso sono gli uomini medi a sorvegliare che le menzogne del potere siano rispettate, e non hanno bisogno di ordini per punire il non-conformismo.




1)
S. Milgram, «Nationality and Conformity», Scientific American, 205, 1961.
2) Simone Weil, «La prima radice», pagina 115. Ancora una citazione illuminante: «In certi testi pontifici ci avviene di leggere: ‘... Non soltanto dal punto di vista cristiano, ma più generalmente umano...; come se il punto di vista cristiano, il quale è privo di senso oppure coinvolge tutto in questo e nell’altro mondo, avesse un grado di universalità minore che il punto di vista umano. Non è possibile concepire una più terribile confessione di fallimento».



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