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Banche senza Dio
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Come non bastasse la crisi di fiducia che dilaga nel credito mondiale, la Société Generale, massima banca francese, denuncia di essere stata defraudata da un suo impiegato - un trader trentenne - di quasi 5 miliardi di euro.
Non milioni, ma miliardi: oltre un decimo della capitalizzazione in Borsa della Societé Generale, che ha 120 mila dipendenti.

Il presunto malfattore, Jerome Kerviel, non era nemmeno uno di quei ragazzi-prodigio cui le banche lasciano mano libera, perché sono i soli a capire qualcosa dei prodotti strutturati che inventano e vendono; lo dimostra il suo stipendio, modesto nel settore, 100 mila euro annui, e il fatto che trattava futures dei più semplici e tranquilli, i «plain vanilla».
Secondo l’accusa, ha operato indisturbato per un anno, superando tutti i controlli.

Ciò evoca un tema più grave della disonestà: il disordine crescente delle grandi organizzazioni, l’incapacità ogni giorno più acuta di gestirle che ha colto l’Occidente.
Evoca questo tema, sul Telegraph, Jeff Randall, con humour britannico: «Questo è fare banca, ma non come lo conoscevamo», ironizza (1).

Se il ragazzo si fosse accontentato di ritagliarsi una somma pari ad una normale vincita al Superenalotto, (diciamo 5 milioni di euro) «magari nessuno se ne sarebbe accorto».
Ciò perché «il mondo delle primarie banche che ricevono depositi è diventato un tale colabrodo, che somme ad otto cifre possono scomparire senza far suonare campanelli dallarme. Le decine di milioni vengono trattati come tartine ad un ricevimento di finanzieri, come antipasti nel vasto menù monetario».

La spiegazione avanzata da Daniel Bouton, presidente della Société Generale, è patetica: «Estato un uomo solo. Ha creato unazienda nascosta allinterno della banca, usando gli strumenti della banca, perché aveva tutte le informazioni necessarie per sfuggire a tutti i controlli».

Ma com’è possibile creare una seconda banca incistata nella banca grossa (la seconda di Francia) come un verme solitario, per oltre un anno, e sfuggire alle procedure di controllo?
Il sistema bancario come lo conoscevamo era tutto un sistema di controlli.
Ogni singolo ufficio chiude ogni sera il bilancio, e le voci del dare e avere devono essere pareggiate al centesimo.

Di più: nel95 la Barings Bank fu praticamente rovinata da un suo trader di Hong Kong che, azzardando speculazioni folli sui derivati, provocò un buco da 800 milioni di sterline.
Da allora tutte le banche si sono fornite di un esercito di «auditor» e controllori per scongiurare questo rischio, su quei mercati esoterici.

Il risultato, zero.
Cosa hanno fatto gli auditor sella SocGen per guadagnarsi lo stipendio?
Evidentemente, il lavoro della banca non è più quello di una volta: prendere il denaro dei depositanti a tasso nullo, prestarlo a imprenditori a tasso più alto, e addebitare commissioni e spese grasse a tutti e due.

Oggi, si perseguono profitti fantastici con i metodi che abbiamo visto rivelati dalla crisi dei

sub-prime: accendere migliaia di mutui a poveracci che non sono in grado di pagarli, macinarli tutti insieme con varie spezie come per fare il salame, e rifilarli a fette come obbligazioni AAA.
E’ un tipo di mestiere dove eccellono nuovi tipi umani: ragazzoni con una laurea alla Harvard Business School, una dichiarata sete di arricchirsi, e un cinismo senza pari.
Sono questi che mettono insieme «prodotti strutturati» e derivati dai nomi più fantasiosi, così complicati che nemmeno loro sono in grado di quantificarne il rischio, e figurarsi cosa ne capiscono i presidenti e gli amministratori delegati.

Si fidano di questi esperti.
E del loro pelo sullo stomaco, che è appunto ciò che garantisce il master alla Harvard Business School.

E’ come se un ristoratore fosse beccato ad aprire una scatola di cibo per cani, cospargerla di prezzemolo e servirla come bistecca alla tartara a 50 euro.
Solo che un simile ristoratore verrebbe condannato, mentre i ragazzoni che fanno lo stesso nelle grandi banche d’affari, rifilando i subprime come «investimenti ad alto rendimento», vengono premiati con gratifiche e bonus da miliardi, ed esaltati sulle pagine di «Fortune» e di Economist.

Per lo più, i ragazzoni col Rolex di platino hanno lavorato così tutti questi anni, creando profitti moltiplicati, da ingegnosi moltiplicatori di loro invenzione, su esigui movimenti di prezzi delle valute, delle materie prime e degli indici azionari.
La finanza creativa consente di puntare 100 e vincere come se si fosse puntato mille; finchè le cose vanno bene, s’intende.
Quando la direzione si rovescia, la banca perde mille avendo in cassa solo 100.
Questo non ha più niente a che fare col lavoro bancario come lo conoscevamo, ma con la roulette, con le puntate sul rosso e sul nero e le scommesse sui cavalli.

Le «grandi» banche lo sapevano benissimo, e non guardavano troppo per il sottile a quel che facevano i loro ragazzoni: portavano profitti immensamente superiori ai modesti direttori dell’ufficio-fidi.
La Socitèté Generale è stata premiata nel 2007 con il titolo di «Best Private Bank in Europe» e «Global Equities Derivative House of the Year», proprio perchè aveva avuto i suoi bei successi coi derivati.
Ora, un ragazzone gli fa perdere un decimo del suo capitale, e in più ha annunciato di aver perso 2 miliardi di euro nei subprime americani.
Sicchè deve procedere d’urgenza - con questi chiari di luna - a un aumento di capitale, dopo aver visto dimezzare la sua quotazione da maggio ad oggi.


Non è solo una falla morale; è il dominio dell’incompetenza che evidentemente impera là dove una volta regnavano gli ingegneri e la partita doppia.
E’ che nelle grandi organizzazioni occidentali aumenta ogni giorno il disordine e la disorganizzazione.

Un fisico direbbe che aumenta l’entropia.

Ciò avviene tipicamente nei corpi viventi quando muoiono: allora il caldo diventa tiepido e poi freddo, le energie degradano al livello di massima probabilità, le cellule scadono e si decompongono nei loro elementi minerali, carbonio, zolfo, idrogeno.

Bisogna cominciare a chiedersi seriamente come mai una civiltà che gestiva in modo insuperabile grandi sistemi - grandi fabbriche, grandi eserciti, grandi Stati sociali - mostri questi segni inequivocabili di decomposizione.

Tento qui la riposta preliminare, nel modo più brutale (che irriterà tanti lettori): il disordine aumenta in una società che ha abbandonato Dio.

Non sto facendo propaganda cattolica.
Non è solo che l’Occidente ha abbandonato Gesù; è che ha abbandonato il Dio di Aristotile, il Motore Immobile, l’Essere in Atto.
Già quel Dio impersonale anima una visione del mondo come grande sistema armonioso, un sistema unitario fatto di sistemi coordinati e complementari.
E’ la visione del mondo non soltanto come grande organizzazione, ma come organizzazione - un cosmo, dunque un ordine inerente - ma come qualcosa di significativo.

Anzi di più: qualcosa che ha una finalità, che è organizzato per uno scopo.

In vista del fine, si credeva, le cose sono «ordinate».
In vista del fine si crea spontaneamente in ogni organismo vivente una «gerarchia».
Questa parola gerarchia, oggi intesa come costrizione e abuso oscurantista, si giustificava invece nella comune finalità: tre miliardi di cellule del corpo umano sono nuclei viventi capaci di autonomia, ma la cui autonomia viene subordinata alla formazione dell’individuo umano, senziente e pensante, il solo capace di intuire lo «scopo»  di tutto.

Cellule che conquistano la loro piena autonomia, in una grande sistema che è il corpo-mente di un uomo, cominciano a proliferare come fanno tutti gli essere monocellulari, figliando sempre uguali a se stessi: la loro autonomia, così naturale al loro livello, è cancro per il sistema superiore.
Per Aristotele, un uomo è qualcosa di più delle cellule che lo compongono.
E una società, qualcosa di più della somma degli individui che la fanno.
E l’intera natura, come un ordine pervaso dalla tendenza dei sistemi viventi a formare strutture più complesse, capaci di funzioni più alte, e ciò come «principio di organizzazione inerente», causa efficiente del mondo.
Una tensione armoniosa verso Dio.


Le frasi oggi incomprensibili si spiegano in questa visione: Ens et verum convertuntur, «ente e verità sono una cosa sola».
Verum et bonum convertuntur, «vero è ciò che è buono», nascono da questo principio di ordine inerente teso al divino.
Ancora una volta, non è moralismo: una spada «vera» è una «buona» spada nel senso che uccide meglio.
Meglio di un ferro qualunque e informe.
I fabbri giapponesi che fabbricavano la katana per un samurai ne misuravano la lunghezza sul braccio di quel guerriero, perché potesse estrarla fulmineamente con un solo gesto: questo era «buono», era «vero».
Guardavano al fine, e vi subordinavano la loro arte.
Ogni organizzazione nasceva ad imitazione dell’ordine cosmico, per questo veniva naturale disporre i mezzi, commisurandoli al fine.

Un’economia «vera» e «buona» era quella che provvedeva ai bisogni dell’uomo in modo sufficiente, senza ammettere profitti indebiti (che sono furto e usura); una società «buona» è quella che aiuta e non ostacola l’uomo a tendere al suo fine, il fine che gli è proprio come natura non solo zoologica, ma spirituale.
Il peccato e la trasgressione erano visti, prima che una mancanza morale, come un’irruzione di disordine nel cosmo, una «cattiva» volontà era una volontà »non vera».

 

Oggi, la mentalità vigente impone di credere al contrario.

L’individualismo a livello politico ed economico, tipico del liberismo, si basa in fondo su un assioma di Adam Smith: che la società è solo una somma di individui, e che è giusto che ciascuno persegua la sua individuale egoismo senza limiti.
I totalitarismi non sono il contrario di questa visione: solo, essi pensano che l’ordine e l’organizzazione debbano essere imposti «da fuori» e dall’alto, con la bruta violenza, e gli individui essere ridotti a meccanismi senza autonomia.

L’uno e l’altro nascono in un mondo che ha abbandonato Dio, il Dio ordinatore e datore di significato.
Anche la scienza moderna nasce da questa visione, l’evoluzionismo non ne è in fondo che il dogma centrale: i viventi sono opera del caso cieco, la loro esistenza non ha senso né finalità.

Richard Dawkins, un biologo evoluzionista che sè recentemente lanciato in una campagna contro la religione (Odifreddi lo copia), ha scritto che non si deve mai creder ai miracoli, nemmeno se una statua della Vergine ci facesse un segno di saluto con la mano.
Ciò perché, dice pressappoco (sto citando a memoria, non ho il testo sottomano), è solo che gli atomi di marmo della statua si sono mossi tutti insieme nella stessa direzione, e poi tutti insieme sono tornati nella direzione di prima: fatto altamente improbabile, ma possibile

statisticamente.

Questo è il solo modo scientifico ammesso di spiegare i fenomeni.

Ora, persino Dawkins, se vede non una statua, ma un normalissimo tizio che gli fa quel gesto con la mano dall’altro marciapiede, non pensa: strano, gli atomi si sono spostati tutti insieme, pensa invece: chi è quello che mi saluta?

Lo conosco?
Insomma, anche lui vede in quel gesto il «significato», non la causa materiale.
Anche il darwinista più fanatico, convinto che tutto nasca da caso cieco e necessità bruta, si comporta - nella vita comune - da aristotelico perfetto: vede nei gesti degli altri le «intenzioni», la «finalità», la causa efficiente.

Solo quando diventa scienziato, Dawkins - e gli altri scienziati come Odifreddi - si vieta di vedere la causa finale, si rende cieco alla intenzione e alla volontà di un gesto, dello scondinzolare del cane e dei moti delle cellule.
Si chiude alla suggestione dell’armoniosa, grandiosa complessità significativa del sistema di sistemi che è la natura.
Evita di chiedersi il «perché esistano» le stelle, e si limita a misurarne massa e distanza.
Si sforza di sopprimere ogni significato per ridurre tutto a moti casuali di atomi, variazioni casuali del DNA, per ridurre ogni complessità alla somma dei suoi componenti.
Questo è «scientifico», oggi.

E’ il riduzionismo puro, il contrario del finalismo aristotelico.
Ma che altro è questa scienza egemone, se non un’intimazione all’istupidimento generale?

In ogni campo, agli uomini viene dato lordine, implicito o esplicito, di «non chiedersi perché»: nelle aziende come nella politica e nell’economia.
Non è dunque strano che il disordine cresca in Occidente, che tutte le sue organizzazioni si degradino e si sfascino.
E’ a forza di stupidità.
E non serve a nulla aumentare i controlli contro il malfare dei dipendenti impazziti come cellule cancerose.
Ciò che serve per creare un’organizzazione è tenerne presente la finalità: a cosa «serve» una buona banca?
Una «buona» società?
Cos’è la «vera» libertà?
Solo tenendo le menti fisse allo scopo le organizzazioni si organizzano, e tendono addirittura ad auto-organizzarsi spontaneamente per il fine dichiarato e chiarito.
Perduto il fine, ogni sistema muore, e comincia a crescere l’entropia.


Torniamo alla Societé Generale per le ultime notizie: Elie Cohen, economista del CNRS francese, non crede alla versione ufficiale (2).
Sospetta che la grande banca stia nascondendo, con la scusa di una frode del suo dipendente incontrollato, le immense perdite sui subprime e derivati che avrebbe accumulato e che non saprebbe spiegare agli azionisti.
Questo fatto, se fosse vero, non cambierebbe uno iota su ciò che abbiamo indicato come il motivo della crescita del disordine occidentale: se Dio non c’è, dice Dostojevski, non c’è nulla che l’uomo non possa permettersi.
La menzogna, l’arbitrio e la forza bruta diventano le ultime istanze della vita.
La stupidità cinica prende posto nella stanza dei bottoni anziché al manicomio, in galera o all’ospizio dei poveri, come dovrebbe.


 

Note

1) Jeff Randall, «This is banking - but not as we know it», Telegraph, 25 gennaio 2008.

2) Alexandre Panizzo, «Fraude à la Société Générale: Elie Cohen ny croit pas», Figaro, 25 gennaio 2008.