L’americanismo crolla sporcando il mondo
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Solo dieci anni fa, l’America si celebrava come unica superpotenza rimasta. Senza più rivali globali, le sue classi dirigenti che presero il potere dietro a Bush jr. (i neocon, che da decenni stavano dietro le quinte in posizioni arretrate) dichiararono l’alba del Nuovo Secolo Americano.

Traevano il loro compiacimento da tre presunte superiorità americane:

1) Il sistema sovietico era crollato perchè sbagliato (e lo era), dunque  il sistema capitalista-finanziario e liberista americano s’era definitivamente confermato come vero perchè – come avrebbe detto Marx, e i neocon erano stati marxisti – vincente nella storia. Il capitalismo era lo stato definitivo dell’umanità, di cui nulla di migliore era pensabile. Bastava solo liberarlo degli ultimi lacci, regole e confini di Stato per scatenarne le immense possibilità di creare ricchezza.

2) L’immensa potenza militare accumulata nella guerra fredda si traduceva per la prima volta in una superiorità senza pari verso qualunque avversario potenziale. Una finestra di opportunità da sfruttare, prescrissero i neocon, per conquistare nuove posizioni nel pianeta – l’occupazione del vuoto di potere nell’Asia centrale disertata dall’URSS, i campi petroliferi del Caspio – senza dover temere un conflitto reale con un avversario reale, perchè la Cina non sarebbe stata in grado di sfidare la superiorità americana ancora per molti decenni. Non occorreva più che l’America stipulasse e rispettasse i trattati internazionali, nè che mantenesse l’ONU come tavolo di mediazione globale per una gestione concordata dei conflitti: questi erano utili quando l’America riconosceva limiti alla sua forza, ma oggi la sua forza era ineguagliata. La forza pura bastava, in sè, a raggiungere gli scopi dell’America trionfante, senza bisogno di ricorrere a compromessi con potenze minori, anzi negligibili. Nel 2002, i neocon alla Casa Bianca (Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld) dichiararono, come nuova dottrina di sicurezza USA, di riservarsi «luso della forza contro lintegrità territoriale o lindipendenza di qualunque Stato» giudicassero minaccioso per la sicurezza degli Stati Uniti e i suoi interessi imperiali. Uso della forza per aggredire altri, per di più in modo «preventivo», sono crimini di guerra secondo le convenzioni internazionali. Ora diventavano il diritto. Il nuovo diritto mondiale. L’America invase l’Afghanistan e l’Iraq sotto false accuse.

3) Rumsfeld attuò la sua dottrina, rivoluzione negli affari militari, che si basava su due presupposti: l’applicazione dei metodi gestionali aziendalistici e privatistici alle forze armate, e la fede inconcussa che la tecnologia avanzata potessero risolvere tutti i problemi. Snellito attraverso la privatizzazione (per esempio: mercenari anzichè soldati, li paghi solo quando ti servono, disse Rumsfeld) il potere militare USA avrebbe potuto combattere due guerre di teatro contemporaneamente. Tanto più che l’aviazione, l’avionica, l’elettronica e le altre altissime tecnologie ineguagliate, non avrebbero avuto bisogno di scarponi sul terreno: tutta la guerra si sarebbe potuta fare e vincere dal cielo, con caccia, bombe intelligenti, missili da crociera, satelliti-spia, droni e laser guidati, a migliaia di chilometri di distanza, dagli schermi degli uffici del Pentagono. Se fosse nato un problema, sarebbe bastato immettere più tecnologia, più volume di fuoco, più velocità, consumare più potenza e carburanti.

Questo insieme di credenze è l’aspetto ultimo di quella malattia del pensiero che va sotto il nome di «americanismo». La fede che la forza bruta senza limiti, il gigantismo, la tecnologia e il «mercato» bastassero a risolvere tutti i problemi.

Dieci anni dopo, l’americanismo è incappato nei suoi tre problemi insolubili, che ne stanno provocando il crollo. Problemi giganteschi, in quanto creati dal gigantismo delle soluzioni americane.

Il collasso globale dei mercati innescato in USA dalla finanza scatenata e senza limiti e infettante il mondo intero, il disintegrarsi delle guerre d’aggressione in corso da un decennio con disintegrazione della forza americana, e – da ultimo – l’inarrestabile fuoriuscita di milioni di tonnellate di greggio nel golfo del Messico, che nessuna tecnologia riesce a curare: già alcuni commentatori la chiamano la Chernobyl di Obama, che come la Chernobyl russa rivelò l’impotenza del sistema sovietico, la vacuità delle riforme di Gorbaciov, e ne accelerò la fine.

Sono tre eventi tragici e colpevoli, perchè nascono dalla stessa hybris: l’illusione di essere al comando, di poter controllare e gestire forze titaniche, usando ancora più forza.

La finanza

Le banche e le finanziarie americane (e per imitazione quelle europee) hanno voluto farsi giganti, non solo per accaparrare i mercati, ma per diventare troppo grandi per fallire (too big to fail). Sono diventate troppo grandi per essere salvate (too big to be saved) perchè i salvatori d’ultima istanza, gli Stati, per aver voluto salvare quei titani mostruosi, sono ora sull’orlo della bancarotta. Le monete stesse sono in pericolo di evaporazione. Questo vale per il dollaro (creato dal nulla a fiumi, ad oceani, dalla Federal Reserve: iper-inflazione domani) e per l’euro. Jean Claude Trichet, della Banca Centrale Europea, ha confidato al Wel am Sonntag che nel 2008 «tutte le banche sarebbero scomparse se non le avessimo salvate». Ma ora bisogna salvare gli Stati: la Grecia è un costo che l’Europa fa credere di poter sopportare. Ma la Spagna, è un’enormità che non si può credere possa venir soccorsa.

Le guerre

Sull’Huffington Post del 10 giugno, un analista parla ormai apertamente della disintegrazione strategica e tattica americana in Afghanistan dopo dieci anni tondi di conflitto. Gli alleati della NATO disertano, la strategia dell’ultimo generale convinto che per risolvere il problema ci volessero più truppe (McChrystal) sta fallendo, Karzai il fantoccio s’è già messo nascostamente d’accordo con i talebani per fare un governo insieme dopo che gli americani se ne saranno andati con il sostegno segreto del Pakistan, il Congresso sicuramente boccerà la richiesta di più fondi, più denaro, per l’aggressione decennale. (Afghanistan: Has Hamid Karzai Already Joined the Taliban?)

«Farepiù guerranon è la soluzione», ammette il commentatore, Josh Mull: «Queste manovre (i segreti accordi di Karzai coi talebani e i pakistani) avvengono proprio adesso, nel mezzo della più massiccia escalation delle forze USA».

E’ la scoperta che la forza bruta e  la tecnologia (gli assassinii dal cielo) non bastano, contro un avversario non solo guerrigliero sul suo terreno, ma capace di usare l’astuzia e la diplomazia – quella che la superpotenza ha spregiato. Anche l’Afghanistan è diventato troppo grosso per essere salvato dalla enorme potenza americana.

Se Mull sembra pessimista, è un ottimista in confronto allo stesso generale McChrystal. In una lunga chiacchierata che sta per uscire su Rolling Stones, McChrystal fa capire di essere stato mandato allo sbaraglio a tentare l’ultima escalation da una Casa Bianca (e Pentagono) piena di traditori politici. Sono quelli i veri nemici, i polli bagnati della Casa Bianca, dice McChrystal:  pensano solo a «pararsi il culo, così che se perdiamo, loro diranno: lavevamo detto».

(D)Javid Bey
   Gen. McChrystal

Il generale s’è scusato in anticipo della sua incontinenza verbale con la rivista  Rolling Stones (un altro segno dei tempi), ma è stato chiamato a Washington per dare spiegazioni. E' stato appena dimesso. E ora? (1) Avanza la sconsolata idea che in Afghanistan failure is an option, che la sconfitta è una possibilità. E i neocon, e Israele, pretendono che la loro superpotenza scateni una terza guerra, in Iran... (White House summons US general to explain himself)

Il petrolio BP

Qui va citata Naomi Klein, la nota no-global, che ha condotto una sua inchiesta in loco sulle coste sporcate del Golfo del Messico. La sua conclusione:

«Questa crisi del Golfo è dovuta a tante cose - corruzione, deregulation, la dipendenza dai carburanti fossili. Ma sopra tutto, ad  una cosa: alla nostra pretesa follemente pericolosa di avere un tal completo controllo sulla natura, da poter manipolare e ingegnerizzare radicalmente i sistemi naturali che ci fanno vivere».

La Klein cita il capo della BP, Hayward, che ha assicurato il Congresso così: «Abbiamo messo insieme le menti migliori e i più grandi esperti; a parte il programma spaziale degli anni 60, non sè mai visto un simile gruppo di tecnologi altissimi riuniti insieme in tempi di pace».

Eppure, nonostante tutti questi genii, tutte le loro tecnologie a disposizione, tutte le enormi somme stanziate, il buco che la BP ha aperto nel fondo marino, da cui esce petrolio con metano ad alta pressione, non si riesce a tappare. I geologi non hanno capito «le spaventose forze naturali, interconnesse, che hanno turbato»: un disastro ecologico che estingue pesci e uccelli, e che presto, infettando la corrente del Golfo, porterà il luridume attraverso l’Atlantico verso le coste irlandesi ed inglesi. (Gulf oil spill: A hole in the world)

Naomi Klein è ecologista, e la angoscia soprattutto la tragedia della natura. Ma tocca il cuore del problema quando dice: «Nessun mezzo e nessuna montagna di denaro può sostituire una cultura che ha perso le proprie radici». E poi: «Cè qualcosa di orribilmente deviante nella via americana allilluminismo. Gli americani imparano dove sono i Paesi stranieri quando li bombardano. Ora, sembra, stiamo imparando i sistemi circolatori della natura, avvelenandoli».

E’ una frase che ha un sentore di Apocalisse, e merita di far da epitaffio all’americanismo, alla sua fede nella verità del suo sistema e della sua ideologia, ossia nella forza bruta bellicista, nella brutalità del mercato, nella potenza tecnologica che il denaro può pagare.

La superpotenza ha raggiunto i suoi limiti. E siccome il suo limite è il pianeta, lo distrugge e lo sporca, lo rende invivibile mentre si autodistrugge. Ciò che lascia agli americani è povertà, miseria, collasso economico forse irreversibile. A tutti noi, una immensa zona di instabilità, morte e distruzione – e rifiuti.

Ci lascia una scia lurida di titoli finanziari tossici, di polveri tossiche di uranio impoverito che fanno generare mostri alle madri dei popoli conquistati, ed ora l’immensa scia di petrolio, rossa come sangue marcio, che fa della corrente del Golfo, trasportatrice di calore vitale e delicato sistema circolatorio del pianeta, un mezzo di diffusione di peste.

E ciò, si noti, proprio mentre la classe americana dominante, illuminata, ci voleva imporre le sue misure contro il riscaldamento globale, le sue false fisime anti-inquinamento, pretesti per venderci  diritti dinquinamento sotto forma di titoli finanziari confezionati da Goldman  Sachs. Ci imponevano la loro potenza bruta come moralità, e continuano a fare la morale al mondo che hanno sporcato, questi  ipocriti criminali. Ci sarà mai, per loro, una Norimberga? 

Un senso terminale di fallimento epocale, e il presagio di apocalisse imminente si diffonde tra gli analisti americani.

Herve Kempf, su Truthout, paragona l’America di Obama alla Unione Sovietica di Gorbaciov, e la catastrofe ecologica del Golfo del Messico a quella di Chernobyl. In entrambi i casi, si vede «una catastrofe industriale inarrestabile, un sistema marcio controllato da una rigida nomenklatura, ed un leader nuovo e dinamico che voleva cambiare le cose».

La prognosi è infausta: «Negli anni 80, nessuno avrebbe puntato un dollaro sul collasso improvviso dellURSS, tanto più che il Paese aveva trovato un leader fascinoso e moderno, impegnato a riforme vigorose. (Oggi) chi scommetterebbe un euro o uno yen sul collasso rapido degli USA? Tanto più che ha eletto un presidente fascinoso, moderno, impegnato in vigorose riforme (Sanità, stimolo economico...)».

In URSS fu Chernobyl a rivelare la fragilità irreversibile del sistema. In USA, sarà la tragedia della Deepwater Horizon? «Come Chernobyl, la Deepwater Horizon trae significato dal suo contesto: quello di una società dominata da unoligarchia capitalista (come quella sovietica da una rigida nomenklatura) che rifiuta ogni cambiamento di fondo, nonostante i disastri di cui è responsabile. Wall Street resta aggrappata ai propri privilegi quanto i dignitari sovietici...». (American Chernobyl)

James Carroll, sul Boston Globe: «Ein gioco niente meno che il radicato sentimento della virtù americana (...). Quando una intrapresa fondamentale della economia USA si dimostra, come nel Golfo del Messico, sfrenatamente distruttiva, ed ogni cittadino è complice nella distruzione; quando le devastazioni delle disgraziate avventure americane in Iraq e in Afghanistan sono aggravate da una serie infinita di mancanze di leadership a tutti i livelli, allora la fiducia della nazione in se stessa è per sempre perduta». (On the verge of collapse)

Jack Wheeler, nella sua lettera riservata To the Point, parla di un Obama che dorme male, che non si fida più dei suoi consiglieri, che si irrita alla minima interruzione, che è tornato a fumare accanitamente; che esita ad ascoltare i consiglieri, perchè si sente accerchiato e soffocato da «esperti, alleati, confidenti»: Obama ha sviluppato una mania di persecuzione alla Nixon, e sta meditando di lasciare la presidenza dopo il primo quadriennio.

Il collasso dell’America è il collasso del primo presidente negro, elevato al potere dal grido Yes we can. Poteva cambiare, rigettando l’intera eredità dei neocon e di Bush: invece l’ha assunta sulle sue spalle, e ne è schiacciato.  (http://www.tothepointnews.com/)

Si noterà che queste lucide ed amare diagnosi apocalittiche vengono quasi esclusivamente da blogger intelligenti. Invano le si cercherebbe sui grandi media americani, e non parliamo di quelli europei.



1)
L’insubordinazione e il disprezzo verso i capi politici che il generale McChrystal ha espresso nelle sue chiacchierate coi giornalisti è il meno che ci si possa aspettare dopo dieci anni di guerra e occupazione senza prospettive. Gli eserciti non si usano in questo modo. Storicamente, gli Stati Maggiori che fanno i colpi di Stato sono quelli sconfitti e frustrati, non i vittoriosi.


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