01 Luglio 2010
Nell’aprile 2007, nella città di Malatya, tre missionari protestanti, impiegati della casa editrice «Zirve», che pubblica Bibbie in turco, furono torturati e uccisi a pugnalate, la gola squarciata. Erano due turchi cristiani, Necati Aydin e Ugur Yuksel, e un tedesco, Tilmann Ekkehart Geske.Pochi mesi prima, nel gennaio, era stato trucidato ad Istanbul il giornalista armeno cristiano Firat Hrant Dink, davanti alla sede del suo giornale bilingue Agos. Nel febbraio 2006 era stato assassinato don Andrea Santoro, un prete italiano a Trebisonda, da un giovane (arrestato) che mentre lo uccideva gridava «Allah Akhbar!». Tutti gli omicidi avevano una chiara firma di estremismo islamico.
Ma le indagini condotte dalla Polizia e dall’intelligence turca in relazione alla morte dei tre protestanti di Malatya hanno rivelato «firme» di tutt’altra origine, e retroscena che gettano una luce assai diversa anche sulla morte di monsignor Luigi Padovese, il nunzio apostolico, anche lui trucidato dal suo autista al grido di «Allah è grande».
Mons. Luigi Padovese
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Levent Bektas
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La cosa è tanto credibile, che il tribunale che sta giudicando gli arrestati per l’assassinio dei tre missionari protestanti a Malatya ha avocato a sè l’intero dossier del Piano Gabbia, con l’evidente intenzione di collegare i due casi in un unico processo. Gli avvocati della famiglia Dink hanno fatto richiesta di collegare anche il processo per l’uccisione del giornalista armeno al Piano Gabbia. (Judges in missionary murders case request Cage Plan evidence files)
Eckart Cuntz
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Alla prima udienza del processo s’è notata la presenza dell’ambasciatore tedesco in Turchia, Eckart Cuntz. L’Unione Europea segue con attenzione gli sviluppi delle indagini sugli assassinii di Malatya e del giornalista armeno.
Secondo Wayne Madsen, l’ex agente della NSA divenuto giornalista investigativo, che ha proprie fonti nell’intelligence di Ankara, questa avrebbe raccolto prove del sostegno del Mossad nei vari attentati «false flag». In particolare, nell’attentato contro un posto della marina turca a Semdimli, avvenuto in coincidenza con l’arrembaggio-strage della flottiglia della pace. L’attentato è stato compiuto dal PKK curdo, ma le forze turche avrebbero identificato un gruppo israeliano di appoggio ai terroristi, grazie al sistema di droni Heron che, ironicamente, è di fabbricazione israeliana. Anche gli assassinii di non-musulmani, secondo le stesse fonti, rivelerebbero la mano dei servizi isreaeliani. (Operation Cage: a case study in Israeli false flag tactics)
Effettivamente, il Piano Gabbia turco somiglia molto al Piano Susanna con cui, nel 1954, Israele volle minare i buoni rapporti che l’egiziano Nasser, da poco salito al potere, stava annodando con Washington. Una serie di attentati esplosivi furono messi a segno alla sede dell’USIS ad Alessandria, in un teatro di proprietà britannica al Cairo, e contro altri interessi americani e inglesi.
Gli attentati furono attribuiti ai Fratelli Musulmani, e continuarono inspiegati fino a quando un ebreo egiziano, Philip Nathanson, si fece saltare accidentalmente la bomba che aveva in tasca mentre stava per piazzarla in un altro cinema-teatro.
Le indagini fecero emergere la vera storia: a compiere gli attentati erano stati ebrei di cittadinanza egiziana, volonterosi «sayanim» ma dilettanti, addestrati e inquadrati dall’agente isareliano Avram Dar, arrivato al Cairo sotto il nome di John Darling, con passaporto britannico, e da Avraham Seidenberg, alias Avri Elad, che entrò in Egitto (false flag su flase flag) assumendo l’identità di una ex SS, Paul Frank.
I due agenti professionisti se la filarono in tempo, lasciando nelle mani degli egiziani i dilettanti, due dei quali furono impiccati dopo un processo che la stampa israeliana definì «farsa», «un nuovo olocausto», la prova dell’«antisemitismo del nazista Nasser», eccetera, eccetera. La sporca faccenda è nota come «scandalo Lavon», dal nome del ministro della Difesa israeliano che dovette dimettersi dopo il false flag andato a male.
Lo storico ebreo Shabtai Tevet, che ha compulsato i documenti su quella vecchia operazione, ha scritto che la missione degli agenti, scritta nero su bianco, era di «minare la fiducia dell’Occidente nell’attuale regime (egiziano), creando un clima di insicurezza pubblica e azioni atte a portare ad arresti, dimostrazioni, ritorsioni» che avrebbero reso impopolare Nasser all’interno, mentre occorreva far cadere i sospetti su «Fratelli Musulmani, comunisti, o nazionalisti locali».
Esattamente lo stesso programma del Piano Gabbia. E c’è un certo odore di false flag anche nell’arresto di una rete di presunte spie russe in USA.
«Il momento scelto è stato particolarmente utile», ha detto sarcasticamente il ministro degli Esteri Sergei Lavrov; «non si capisce che cosa abbia spinto il dipartimento della Giustizia americano a fare una dichiarazione pubblica sul caso, nello spirito della guerra fredda».
L’idea in Russia è che qualcuno in USA ha voluto «dare uno schiaffo in faccia ad Obama», rovinando la sua progettata «rimessa in atto» (reset) di buone relazioni con Mosca. Putin ha corroborato la sensazione: «La polizia americana è fuori controllo», ha detto. Obama ha rifiutato ogni commento.
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