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Moschea Rossa: successo di Pirro
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ISLAMABAD, Pakistan - La Moschea Rossa è stata liberata dai suoi militanti ed islamisti.
Il presidente Musharraf ha deciso per l’atto di forza: all’improvviso, rovesciando trattative con i ribelli asserragliati che erano in corso da nove ore.
Pare che il generale abbia fatto capire di essere «sotto forti pressioni da parte degli alleati», ovviamente da Washington.
Secondo Asia Times, sarebbero stati gli americani a precisare che i militanti vanno uccisi o catturati. (1)
Così, questo sembra un successo per l’Amministrazione Bush.
Ha posto fine alle ambiguità del regime pakistano nei confronti dei «terroristi islamici» che datavano dall’insediamento in Afghanistan dei Talebani, preparati e coltivati dall’ISI (il servizio segreto pakistano).
Fine dell’appoggio tacito a ciò che si suole chiamare «Al Qaeda», e che ha il suo santuario nella zona tribale lungo l’Afghanistan.
Ma il successo può rivelarsi brevissimo.

Per capirlo, basta dire il livello delle personalità che stavano tentando con gli assediati la mediazione interrotta dalle armi: il gran muftì del Pakistan, Rafi Usmani, il ministro degli Affari Religiosi, ed Ejaz ul-Haq, e il presidente della coalizione di governo «Pakistan Muslim League» e già presidente della repubblica, Chaudry Shujaat Hussain.
Questo già suggerisce che gli «estremisti» godono di un alto livello, se non di solidarietà e complicità, di neutralità  nei più alti gradi dell’Islam ufficiale.
Queste personalità erano riuscite a concordare con Abdul Rashid Ghazi (il capo dei ribelli assediati) un accordo particolareggiato.
Che avrebbe avuto accordato persino un salvacondotto.

Nella notte, Ghazi (con il megafono e il telefono) aveva detto di doversi consultare con gli altri che erano con lui.
Intanto, l’ex presidente Hussain era andato a conferire con Musharraf per l’approvazione finale della bozza di accordo.
Musharraf aveva già accettato l’idea di un salvacondotto per Ghazi, giorni prima, come possibilità per risolvere la crisi.
Non sembravano esserci difficoltà.
«Sì, i colloqui avevano avuto successo», ha spiegato un disgustato gran muftì ad Asia Times: «La bozza era scritta… ma poi è stata mandata al presidente e lui l’ha cambiata. Così si è tornati alla prima casella».
Alle 4.30 del mattino, i militari hanno intimato ai negoziatori di tornare ai loro alberghi, e l’attacco è cominciato.
Il gran muftì Usmani, che non lascia mai il suo seminario a  Karachi, era arrivato a Islamabad su invito del governo proprio per mediare.

Un altro dei mediatori, Ul-Haq, ha detto che Ghazi aveva rimesso tutto in gioco chiedendo all’ultimo momento garanzie per «i militanti stranieri» che erano nella moschea con lui.
Ma questo particolare è stato smentito dal Maulana Hanif Jalandari, segretario generale del consiglio federale dei seminari islamici: «Ghazi ha chiesto, come da principio del resto, garanzie per quelli che erano assediati con lui, ma non ha specificamente nominato militanti stranieri».
Secondo Asia Times, la situazione è cambiata quando sul luogo è apparsa una delegazione di deputati del Movimento Muttahida Quami, un gruppo alleato al governo Musharraf: costoro  erano usciti da un incontro con un «funzionario americano nella sua residenza ufficiale» (dunque l’ambasciatore), e un’ora dopo tutto cambiava.

La pericolosità di questa «vittoria» contro il covo di terroristi presunti vicini ad Al Qaeda era stata  messa in luce da una dichiarazione, rilasciata poche ore prima, dal generale Hamid Gul, già direttore dell’ISI e «padre» dei Talebani.
«Se viene condotta un’operazione militare contro la Moschea Rossa, ciò avrà il solo effetto di infiammare i centri religiosi del Paese. Ci sono in Pakistan da 250 a 275 mila moschee. Si pensi a quel che può accadere se questi centri si estremizzano. E’ proprio ciò che vogliono i jihadisti, perché alla fine ciò indurrà le armate occidentali a entrare in Pakistan per attaccare i bersagli dei Talebani e di Al Qaeda».

Gul ha aggiunto, amaro: «Il nostro esercito, che preparava i giovani a prendere Lal Qala [il Forte Rosso di Delhi, simbolo dell’India] finisce per andare all’attacco di Lal Masjid [la Moschea Rossa]».
Dev’essere lo stato d’animo di molti ufficiali in queste ore.
Lo stato d’animo di vasti settori della popolazione (150 milioni di abitanti) è già chiarissimo: Musharraf  - rinominato dai manifestanti «Busharraf» - ha spedito in fretta una divisione dell’esercito (10-20 mila uomini) nella valle dello Swat, che si trova nell’incontrollabile North West Frontier Province, per contrastare i simpatizzanti degli assediati della Moschea Rossa in rivolta, e il movimento pro-Talebano TNSM (Tahrik-i-Nifaz-Shariat-i-Mohammedi).
Nella zona di Bajaur, sempre nel nord-ovest, almeno 20 mila tribali, fra cui si sono notati guerriglieri mascherati e armati, sono scesi in piazza per reclamare il salvacondotto per gli asserragliati nella Moschea Rossa; e avrebbero sequestrato quattro agenti della sicurezza pakistana per usarli come pedine di scambio.

Ora, dopo le notizie dell’attacco ad Islamabad, membri del TSNM si sono scontrati con la truppa a Batkhaila, nella North-West Frontier, e si sono impadroniti di tutte le strade carrozzabili della zona, compresa la storica «via della seta» che porta in Cina.
Tre cinesi sono stati ammazzati a casaccio a Peshawar; il TSNM si prepara a dichiarare un proprio governo provvisorio nella zona.
I guerriglieri islamisti che si sono stabiliti lì stanno diffondendo tra le folle la convinzione che la situazione sta precipitando verso la «battaglia del Khorassan», la battaglia finale, l’Armageddon islamica ed uno dei segni della fine dei tempi.
Secondo un hadith del Profeta, dal Khorassan irromperanno le «bandiere nere» (del Mahdi?) e arriveranno fino in Palestina combattendo e conquistando, e ristabiliranno il Califfato.
Il Khorassan è una regione dell’odierno Iran, ma ai tempi di Maometto indicava una più vasta ed imprecisa area tra Iran e Pakistan, Afghanistan e Tagikistan: l’Asia Centrale dove si sono impantanate le truppe occidentali.
Profezie o propaganda?

Sarebbe grave errore sottovalutare la forza dirompente delle speranze o fermenti apocalittico-messianici, che oggi corrono anche in USA e Israele.
Se Israele è tanto allarmata dalla ancora inesistente bomba atomica iraniana, farebbe meglio a rivolgere il suo allarme sulla crisi esplosiva che travaglia il Pakistan: esso può diventare da un momento all’altro uno Stato super-islamico, e il Pakistan ha davvero le bombe atomiche.

 


 

1) Syed Salim Shaazad, «Pakistan’s iron fist is to the Us liking», Asia Times, 11 luglio 2007.
2) Syed Salim Shaazad, «A moment of truth for Pakistan», Asia Times, 10 luglio 2007. L’autore sembra essere un portavoce non ufficiale degli umori e valutazioni dell’ISI. I servizi segreti pakistani, insostituibili alleati di Washington durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, hanno vissuto l’11 settembre e la cacciata dei Talebani come un tradimento. Non c’è dubbio che aspettino l’occasione per ripagare gli americani della stessa moneta.