Povero Petraeus, sotto occupazione
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«Sarebbe daiuto far sapere alla gente che ho ospitato Elie Wiesel e sua moglie nei nostri quartieri domenica notte? E che sarò io a tenere il discorso per il 65° anniversario della liberazione dei campi di concentramento, a metà aprile, al Campidoglio?...».

Con questa mail umiliante, inviata a un giornalista fanaticamente ebraico di nome Max Boot, il  generale David Petraeus, allora ancora capo del Central Command, cercava di attenuare l’effetto di una sua franca ammissione resa alla Commissione Difesa del Senato USA: che il sostegno americano ad Israele è dannoso per gli interessi degli Stati Uniti nell’area.

Raccontiamo la storia per ordine.

Mark Perry
   Mark Perry

Il 13 marzo, sull’autorevole rivista Foreign Policy, il giornalista Mark Perry rivela quanto segue: il generale Petraeus è andato alla Casa Bianca per riferire al capo dello Stato Maggiore riunito, ammiraglio Michael Mullen, che il favoritismo americano verso Israele aveva fatto perdere agli alleati arabi ogni fiducia verso gli USA, e la mancata soluzione della questione palestinese metteva in pericolo le vite degli americani che combattono «contro ilterrorismo ». Erano le stesse idee espresse da Joe Biden (il vicepresidente) dopo essere stato umiliato da Netanyahu nella sua visita a Gerusalemme, dove era stato brutalmente informato che il regime sionista – lungi dal mostrarsi più moderato come chiedeva la Casa Bianca – stava costruendo 1.600 nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania.

Ragion per cui, secondo Perry, il generale Petraeus chiedeva al presidente di mettere sotto il suo Central Command (che presiede alle guerre nel Medio Oriente allargato al centro-Asia) anche Israele e Palestina. Infatti il Central Command, per assurdo che appaia, non ha competenza sulla questione palestinese; per volontà di Israele, il problema israeliano-palestinese è affidato all’Europa, cioè ad organi civili (e servili), e anzitutto a Tony Blair. La richiesta, se accettata,  poteva preludere ad un atteggiamento meno servile degli USA verso Israele.

16 marzo, tre giorni dopo, il generale Petraeus tiene la sua audizione davanti alla Commissione del Senato. Due giorni più tardi, M. J. Rosenberg, analista ebreo ma poco amico degli estremisti, sul suo blog «Media Matters» loda Petraeus per il suo atteggiamento «realistico» verso Israele.

Secondo Rosenberg, Petraeus ha detto ai senatori:

«Le persistenti ostilità tra Israele e i suoi vicini rendono difficile far avanzare i nostri interessi... Le tensioni israelo-palestinesi (...) fomentano lanti-americanismo, a causa di quel che viene percepito come favoritismo americano verso Israele. La rabbia degli arabi sulla questione palestinese limita la forza e la profondità della partnership USA con i governi e le popolazioni nellarea, e mina la legittimità dei regimi arabi moderati. Al Qaeda ed altri gruppi militanti sfruttano questa rabbia e mobilitano il sostegno a loro favore. Il conflitto inoltre ha dato allIran maggiore influenza nel mondo arabo, attraverso i suoi clienti, Hezbollah e Hamas».

Ottima valutazione, commentava Rosenberg: Petraeus potrà essere il candidato repubblicano alle prossime presidenziali, molto migliore di Sarah Palin, che invece si fa dettare l’agenda dai neocon israeliani... Il titolo del suo commento è infatti: «Its Palin versus Petraeus».

E’ un elogio che può diventare una tomba, per un generale che ha l’ambizione di diventare presidente, e che quindi sa bene cosa può la lobby.

Lo staff di Petraeus si accorge del pezzo pericoloso. Più precisamente è Michael Gfoeller, un consigliere del Dipartimento di Stato, che manda una mail al generale. La diamo nell’originale, di per sè gustoso e illuminante.

2.18 del pomeriggio, Gfoeller invia allegato l’articolo di Rosemberg. Il messaggio:

«Sir: FYI. Mike» («FYI» significa: «For your information»)

Max Boot
   Max Boot

2.27, 9 minuti dopo Petraeus gira l’articolo pericoloso a Max Boot, suo buon conoscente: si tratta di un influente personaggio (membro del Council on Foreign Relations), un ebreo russo nazionalizzato americano, fieramente pro-Israele a tutti i costi, che scrive sul Wall Street Journal, il New York Times, ma soprattutto sul Weekly Standard (la rivista dei neocon) e sul periodico ebraico Commentary.

Ecco il messaggio di Petraeus:

From: Petraeus, David H GEN MIL USA USCENTCOM CCCC/CCCC
To: Max Boot
Subject: FW: On the Middle East: It’s Palin vs Petraeus

«As you know, I didnt say that. Its in a written submission for the record...».

Più che un messaggio, è un belato. Traduco: «Come sa, io non ho detto queste cose (che mi attribuisce Rosenberg). Si trovano in un esposto scritto per gli archivi».

Infatti Petraeus non ha detto le frasi nel botta-e-risposta coi senatori, ma in una dichiarazione di 56 pagine dal titolo: «Statement of General David H. Petraeus, U.S. Army Commander, US Central Command before the Senate Armed Services Committee on the posture of US Central Command, 16 Mar 2010».

E’ uno di quei documenti scritti che nessuno si suppone legga davvero. Eccolo.

Il generale insinua che non l’ha nemmeno scritto lui, ma il suo staff.

Max Boot risponde  come un lampo, alle 2.31 pm.

«Oh brother. Luckily its only media matters which has no credibility but think I will do another short item pointing people to what you actually said as opposed to whats in the posture statement».

Traduzione: «Accidenti. Per fortuna è Media Matters’, che non ha alcuna credibilità. Comunque scriverò un breve pezzo per sottolineare che quel che lei ha detto veramente è il contrario di quel che è scritto nella dichiarzione scritta».

Passano sei minuti. Poi arriva la mail di Petraeus:

From: Petraeus, David H GEN MIL USA USCENTCOM CCCC/CCCC 2:37

«Thx, Max. Does it help if folks know that I hosted Elie Wiesel and his wife at our quarters last Sun night?! And that I will be the speaker at the 65th anniversary of the liberation of the concentration camps in mid-Apr at the Capitol Dome... ».

Traduzione: «Grazie, Max. Pensi che sia daiuto far sapere che ho ospitato Elie Wiesel con la moglie nei nostri quartieri domenica notte? E che sarò io a tenere il discorso per il 65° anniversario della liberazione dei campi di concentramento, a metà aprile, al Campidoglio?...».

Insomma il generale esibisce le sue più recenti benemerenze verso la lobby.

2:45, Boot risponde:

«No don think that relevant because youre not being accused of being anti-Semitic».

( «No, non credo sia importante perchè lei non è accusato di essere antisemita»).

Passano 12 minuti, e arriva la risposta di Petraeus:

2:57, Petraeus: Roger!)

«Ricevuto», dice Petraeus (Roger, nel gergo radio-miitare). Ma come un ragazzino, ci aggiunge un «emoticon», un faccina sorridente, per comunicare il suo stato d’animo. E’ evidentemente di sollievo.

Max Boot si mette subito al lavoro: è bello ed offre molte prospettive quando il generale più potente degli USA, e futuro potenziale presidente, ti deve un favore. Alle 3.11 ha già postato sulla pagina web della rivista Commentary un commento che se la prende con «i  fuorvianti commenti, che continuano a pullulare, che attribuiscono al generale Petraeus sentimenti anti-israeliani. Sono commenti dovuti a comunisticome quel Rosenberg. Il generale Petraeus non ritiene il processo di pace israelo-arabo come un tema centrale... Solo quando pressato da una domanda ha fatto una dichiarazione anodina sullopportunità di incoraggiare i negoziati per aiutare i regimi arabi moderati. Questo è tutto. Non ha detto che gli insediamenti (ebraici) vanno fermati o che la mancanza di progressi nei negoziati è colpa di Israele...».

Eccetera, eccetera. Chi vuole leggere l’originale, lo trova qui.

Ma basta il titolo: «Una menzogna: David Petraeus anti-Israele».

Resta da spiegare chi e come ha svelato il piccolo intrigo fra il tremebondo generale e l’ebreo neocon. Si tratta di un blogger di nome James Morris, che tiene un sito chiamato «Neocon Zionist Threat to America», ossia «La minaccia dei sionisti neocon allAmerica» http://neoconzionistthreat.com

Il 19 marzo, questo Morris aveva mandato una mail a Petraeus congratulandosi con lui per la sua coraggiosa uscita sulla questione palestinese al Senato. Lo stesso giorno, Petreaus gli rispondeva, allegando il piccolo pezzo di Max Boot su Commentary on line. Il messaggio d’accompagnamento era laconico al massimo:

«FYI», ossia «Per sua informazione».

Ma Petraeus non s’è accorto che, con l’allegato, praticamente aveva spedito a James Morris la scia di scambi di mail fra lui, il suo staff e Max Boot. Da qui il blogger anti-neocon ha ricostruito tutto l’intrigo, rivelatore della soggezione del potente generale verso la lobby. Anzi, Morris ha cercato inutilmente di far uscire il generale dalla sua laconicità, invitandolo a dire di più. Ha ricevuto un’altra email  così concepita:

«Thanks, James. Frankly, Id like to let all this die down at this point, if that’s possible! All best».

Traduzione: Grazie, James. Ma francamente preferirei lasciar morire la faccenda, se possibile ».

Lo si deve capire, Petraeus. Anche lui è un generale sotto occupazione sionista. Una settimana fa, ben 338 membri della Camera USA hanno firmato una petizione – dettata dalla «lobby» – rivolta al presidente Obama, in cui gli ingiungono di mettere il veto ad ogni possibile risoluzione delle Nazioni Unite di condanna al sanguinoso arrembaggio israeliano contro la Mavi Marmara, in cui i militari sionisti hanno trucidato con colpi alla nuca nove civili turchi. Deputati e senatori USA sanno bene che non firmare le petizioni dell’AIPAC, dell’ADL e degli altri organismi ebraici schierati per Israele ad ogni costo significa, per loro, il suicidio politico. Per questo stanno tempestando la Casa Bianca con ingiunzioni, con richieste di attaccare l’Iran… Non perchè sono convinti, ma perchè sono terrorizzati.

Il sistema politico americano è sotto occupazione, umiliato e prigioniero. Petraeus lo sa meglio di ogni altro, come dimostrano le mail che ha scambiato con Max Boot.

Ma se fossimo ebrei, proprio questa sottomissione ci preoccuperebbe. Evidentemente, gli alti gradi militari hanno perfetta coscienza che gli USA, i suoi politici e le sue forze armate sono al servizio dell’estremismo israeliano, e che la poltica «con Israele ad ogni costo» danneggia gravemente gli interessi mondiali americani.

E’ la tesi dei professori Walt e Mearsheimer in «La Lobby israeliana e la politica estera americana», un saggio che evidentemente gli Stati Maggiori hanno letto con attenzione; è chiaro che questa tesi si fa strada negli alti comandi.

Insomma i generali hanno identificato il «nemico interno», e tanto più si piegano al suo tallone, tanto più ingoiano umiliazione e insofferenza. Le guerre che conducono per ordini superiori, vanno di male in peggio; la crisi economica morde tutti, si capisce che il Paese non ha più i mezzi per servire il sionismo.

Nell’eventualità di una disfatta in Afghanistan, di per sè umiliante perchè subìta per mano di guerriglieri a bassa tecnologia, è facile che i generali giungano alla conclusione: non è l’Afghanistan che deve essere liberato, sono gli Stati Uniti. E i generali di un Paese occupato hanno i mezzi, e persino il dovere, di liberarlo. Rapidamente, in modo deciso e segreto.

Se fossi ebreo, non gongolerei per la soggezione di Petreaus, così evidentemente forzata. Lo ha intuito il ministro israeliano del Commercio e Industria, Binyamin Ben Eliezer. In un’intervista ad Yedioth  Ahronoth, ha detto:

«Siamo in una situazione in cui il mondo è stanco di noi. Sono stanchi di sentire le nostre spiegazioni, di mostrare simpatia per i nostri guai... Stanchi di comprenderci’. Questo trucco non funziona più. Dopo 43 anni, nessuno vuol più sentire spiegazioni sul perchè questa occupazione (dei Territori) continua, sul fatto che non abbiamo nessuno con cui negoziare. Non siamo noi che stiamo facendo il blocco (di Gaza). Siamo noi ad essere bloccati, isolati...».

Ascolta, Israele.


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