Fiat workers leave the Italian carmaker's plant in Pomigliano, near Naples
Disincanto Pomigliano
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L’articolo del Direttore «Da Brzezinsky a Pomigliano», come sovente accade con i suoi articoli, ispira, in chi li legge con attenzione, riflessioni e ponderazioni per ulteriori approfondimenti. Il problema, giustamente, individuato da Blondet come una manifestazione del nichilismo «gaio», tipico della società stile Mediaset, può essere analizzato anche in una prospettiva storica di lungo periodo. Perché il «nichilismo gaio» è in realtà la faccia «puerile» del più ampio nichilismo che sottende il processo di globalizzazione.

La globalizzazione, infatti, lungi dall’essere la trionfale marcia dell’umanità verso l’Eldorado o il «Sol dell’Avvenire» in salsa liberista, si è rivelata, come del resto avevano anticipatamente annunciato i suoi critici bollati alla stregua di «profeti di sventura», nient’altro che un rullo compressore di identità, certezze sociali, radici spirituali ed esistenziali, come mai prima l’umanità aveva visto. Questo rullo compressore ha potuto mettersi in moto innanzitutto perché da secoli stiamo assistendo alla progressiva chiusura dei Cieli, della Metafisica, con la luciferina promessa della conquista del mondo. Eppure, Qualcuno ebbe ad avvertirci: «Qual vantaggio infatti avrà luomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?» (Matteo 16,26).

Dire «rullo compressore» significa dire «distruzione» che è, a sua volta, sinonimo di «voluttà del nulla», «volontà di nullificazione»: appunto di nichilismo. Ora, si rifletta: se il mondo è stato chiamato, vocato, all’esistenza dal nulla, per Amore, chi mai potrà volere la sua riduzione al nulla, se non una intelligenza malvagia, luciferina?

In una discussione in merito al significato «epocale» dell’accordo di Pomigliano, l’autore di queste povere considerazioni ha inviato, qualche settimana fa, ad un caro, buon e vecchio amico, di area cattolicopersonalista, un articolo, scritto da un giuslavorista molto critico su quell’accordo. Quel caro amico mi ha risposto che, pur condividendo alcune cose, tuttavia in quell’analisi trovava imprecisioni e semplificazioni che non contribuivano a chiarire i termini della situazione.

« … tanto per iniziare, ci scriveva quel caro amico il fatto che cambiando le regole del lavoro, tutto crolli. No, semplicemente tutto cambia, e non è detto che sia un male. Anche perché nella storia sindacale, e soprattutto negli ultimi anni, il sindacato ha tutelato solo chi il lavoro laveva, coprendo talvolta anche rigidità e privilegi che alla lunga andavano a discapito di tutta la società. E soprattutto di chi il lavoro non laveva e continua a non averlo. La vera sfida è quella di creare lavoro, di semplificare la possibilità di chi è fuori dal mondo del lavoro ad entrarvi. Abbandonando il fortino di chi è già lavoratore, per creare un esercito di persone che lavorano e sanno lavorare. Difendere, poi, in questo mondo più flessibile, chi vi entra, in modo che non diventi precario, ma che abbia protezione e formazione per poter crescere. E non è che questo si possa fare con una corporazione, che dice come si fanno le cose, e tutti devono obbedire. Non sarebbe altro che un altro statalismo, più frazionato. Il fatto è che da un lato, la concorrenza è fra sistemi locali e regionali, e dallaltro fra territori statali. Che esistano entità che vadano oltre lo Stato nazionale è una necessità, certamente va fatta con unEuropa dei Popoli, e non burocratica, sono daccordo, e con un ONU che non è questONU, che ancora rappresenta lordine mondiale post II Guerra Mondiale. Laccordo di Pomigliano, in qualche modo, la rappresenta bene: ciascuno sacrifica un po di se (oltre ai privilegi) per combattere una battaglia insieme. Il Sindacato, i Lavoratori, la Fiat, si mettono in gioco, e mantengono competenze e lavoro in Italia. La CGIL, seguendo la sua linea veteromarxista eretica, continua a difendere – ciecamente, contro ogni evidenza – solo chi il lavoro ce lha già alle condizioni che ha sempre avuto, e non pensa a chi invece nel sistema vorrebbe entrarci, e possibilmente, crescere».

Quanto ci scriveva quell’amico è del tutto vero, alla luce della realtà che attualmente ci circonda. E non possiamo certo dargli, nei fatti, torto.

Tuttavia, a nostro giudizio, sarebbe necessaria anche una analisi storicofilosofica sul percorso che è stato fatto per arrivare alla situazione, attuale, così ben descritta dal nostro amico.

Perché in quella descrizione riecheggiano molte «parole d’ordine» che conosciamo bene ormai da più di vent’anni, anzi trenta considerando che si tratta di slogan che hanno iniziato a circolare dall’epoca della rivoluzione conservatrice di Reagan e della Thatcher.

Probabilmente molti, forse, ci hanno pur creduto, a suo tempo. Un tempo nel quale il mondo era diviso in blocchi ideologici apparentemente contrapposti. Anche trent’anni fa erano pochissimi coloro che nel capitalismo e nel comunismo vedevano soltanto le due facce della stessa medaglia.

Però, poi, strada facendo, anche molti di coloro che hanno creduto al «Sol dell’Avvenire» liberista, mentre quello socialista andava spegnendosi, non hanno potuto fare a meno di iniziare ad accorgersi che quelle «parole d’ordine» portavano acqua soltanto al mulino del «capitalismo terminale». Quello assatanato di «centralità dell’impresa», di «priorità del profitto», di «mercatocrazia» e, soprattutto, di primato dell’economia finanziaria su quella reale.

Vi è una corrente di cattolici liberali, quella che fa capo a Dario Antiseri, che, in un mondo dominato dalla grande finanza speculativa cresciuta all’ombra della deregulation, e che tale «libertà» difende anche in tempi di crisi globale, provocata proprio dalla finanza deregolata, va cianciando di «ordoliberalismo», ossia «liberalismo delle regole».

Tutto bello e tutto magnifico… a chiacchiere!

Nella realtà dei fatti, perché come è esistito un «socialismo reale» diverso da quello «ideale» esiste anche un «liberalismo reale» molto diverso da quello «ideale» sognato da Antiseri, stiamo assistendo questo è vero! ad un trapasso epocale tra un mondo ormai destinato a tramontare, se non addirittura già tramontato, ed un «nuovo mondo» che avanza. Di «nuovi mondi», come osservava Eric Voegelin, hanno sempre parlato i rivoluzionari: ed infatti il liberismo è ideologia assolutamente rivoluzionaria.

Ora, però, mentre il vecchio mondo, quello dello Stato sociale realizzato in Europa dal convergere di una serie di scuole di pensiero, da quella cattolica a quella socialista fino a quella fascista, ha dato buona prova di sé, migliorando le condizioni di vita soprattutto dei ceti meno abbienti, il nuovo mondo, al contrario, si sta imponendo mettendo in discussione quanto di positivo il vecchio mondo aveva conseguito.

Il nuovo mondo impone l’individualismo più cinico ma lo chiama «flessibilità», impone la concorrenza sfrenata e selvaggia tra territori, gruppi sociali ed etnici e la chiama «sussidiarietà», impone la finanziarizzazione dell’economia e la chiama «libertà», impone la speculazione e la chiama «new economy». E via dicendo.

Soprattutto dispiace che il mondo cattolico, compreso quello tradizionalista, non abbia capito proprio nulla della svolta che stiamo subendo e si illuda che stia rinascendo non si sa quale sorta di comunitarismo che dovrebbe restituirci non si sa bene quale improbabile «Cristianità» (magari in salsa leghista o neocrociata a stelle e strisce!).

Dobbiamo purtroppo constatare non certo per simpatie per la CGIL che non abbiamo mai avuto che oggi il mondo politico e culturale cattolico, che è stato tra i protagonisti di quanto di positivo fu realizzato nel vecchio e tramontante mondo, non ha quasi nessuna capacità di seria analisi dei processi in atto e si limita a farsi trascinare dai progetti globalisti, di elaborazione liberale, perché tende a confondere il globalismo transnazionale con l’universalismo cattolico o tradizionale.

Attenzione! E’ un grave errore storicoculturale quello di ritenere che la cultura politica cattolica debba essere per forza «antistatalista» e che quindi, superato l’equivoco del liberalismo giurisdizionalista del XIX secolo, possa esservi una naturale convergenza tra cattolicesimo politico e liberalismo all’anglosassone.

Esiste una antica tradizione di pensiero cattolico di matrice aristotelicotomista, purtroppo dimenticata a causa della opposizione allo statalismo liberalrisorgimentale, opposizione che a suo tempo fu storicamente necessaria, che pone al centro, ed al di sopra, della cosiddetta società civile la Comunità Politica, ossia lo Stato benché inteso non come Stato onnivoro al modo totalitario ma come «societas perfecta» che accoglie in sé le «societates imperfectae» delle comunità minori garantendo la loro convivenza associata nella giustizia. Ci riferiamo alla seconda scolastica della cosiddetta «Scuola di Salamanca» (XVI secolo).

Il nostro caro amico, sopra citato, ci scriveva che l’accordo di Pomigliano, in qualche modo,  rappresenta bene l’Europa dei popoli che chiede a ciascuno, sindacato, lavoratori e Confindustria,  di sacrificare un po’ di sé per combattere una battaglia insieme, di mettersi in gioco allo scopo di  mantenere competenze e lavoro in Italia.

Il punto è proprio questo: l’accordo di Pomigliano era, ed è, ineludibile, e la FIOM era battuta in anticipo (benché abbia conseguito percentuali di «no» all’accordo tali da evitare un referendum plebiscitario in favore del medesimo), in quanto la globalizzazione ha dissolto tutto il quadro di relazioni industriali costruito in circa due secoli di modernità, riportando i rapporti di forza all’epoca dell’Inghilterra manchesteriana e dickensoniana.

La FIOM in un certo senso, nella vicenda di Pomigliano, ha svolto il ruolo che, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, fu del cosiddetto movimento luddista. I luddisti erano quegli artigiani rovinati ed impoveriti dalla prima industrializzazione che, costretti dalla concorrenza industriale, capace di produrre in tempi minori ed a costi minori, a chiudere bottega, venivano poi reclutati dai padroni come manovalanza a bassissimo costo. Si ribellarono e la loro forma di violenta protesta sociale consistette nel distruggere i macchinari industriali.

Una forma di protesta «reazionaria» e del tutto sconfitta in partenza perché il processo di industrializzazione era inarrestabile, come gli eventi hanno poi dimostrato. Infatti il luddismo si sciolse presto come neve al sole e non solo per la repressione governativa, favorevole al patronato.

Ma, sconfitto il luddismo, le cose poi si svolsero in un modo del tutto imprevisto dallo stesso patronato.

Innanzitutto si sviluppò un forte movimento sindacale, di varia matrice: da quella cattolica (il movimento dell’Opera dei Congressi, i pensatori come Giuseppe Toniolo e La Tour Du Pin, le grandi encicliche tipo «Rerum Novarum» e, più tardi, «Quadragesimo Anno», la scuola corporativosindacale di Malines) a quella socialista non marxista (Proudhon, Blanqui, Lassalle), cui più tardi si aggiunse quella «sindacal-rivoluzionaria» (George Sorel, Filippo Corridoni, Sergio Panunzio, Giuseppe Bottai, Edmondo Rossoni), propugnatrice, quest’ultima, dell’utopia di una società organizzata in sindacati autonomi ed autogestiti, che finì, tra fine del XIX ed inizio del XX secolo, per incontrarsi, da sinistra, con l’organicismo sociale del nazionalismo antiliberale, di destra, confluendo nell’esperienza fascista del «sindacalismo nazionale».

In secondo luogo, da «destra», ossia dalle forze culturali e politiche tradizionaliste e conservatrici (Donoso Cortès, Bismarck, Garcia Moreno), che costituivano quel «socialismo aristocratico» che Marx beffeggiava perché temeva, venne la spinta interventista dello Stato in economia al fine di assicurare, contro l’individualismo moderno, la coesione nazionale. Uno scopo, sostenevano i critici da destra del liberalismo, che imponeva allo Stato anche un ruolo di riformatore sociale e di riequilibrio redistributivo della ricchezza tra le classi sociali.

E da qui, non da «sinistra», che si sviluppò, in Europa, lo Stato sociale, che negli anni ‘30 del XX secolo l’America rooseveltiana, in preda alla grande crisi del ‘29, imitava, prendendo, tra l’altro, come modello l’Italia fascista.

Se in questa sede ricordiamo tutto questo è solo per dire, sostanzialmente, una cosa: nel corso degli ultimi due secoli, la convergenza di una serie di forze culturali e sociali ha saputo costringere il capitale a sedersi al tavolo delle trattative ed a venire a patti con lo Stato e con il lavoro.

Una soluzione dimostratasi nei fatti molto più efficace che non l’utopia comunista dell’abolizione (anziché della redistribuzione) della proprietà e dell’abolizione ricordiamoci che il marxismo, in questo fratello siamese del liberismo, è antistatalismo all’ennesima potenza dello Stato.

Però ed è questo l’altro punto scottante dell’intera vicenda che oggi travaglia il mondo del lavoro non si trattava dello Stato agnostico e non interventista di tipo liberale. Lo Stato che ha costretto il capitale a sedersi al tavolo delle trattative era lo Stato nazionale, e magari anche autoritario, che se certamente era nato anche con il concorso del liberalismo, svolgendo persino un certo ruolo secolarizzante, era, però, diventato Stato sociale, o meglio socialnazionale.

Solo all’interno del quadro statuale nazionale è stato possibile superare l’individualismo concorrenzialista cui i lavoratori erano sottoposti nell’Inghilterra dickensoniana, quando, senza sindacati e senza intervento pubblico, il lavoro era considerato una merce qualsiasi sottoposta alla ferrea legge di mercato della domanda e dell’offerta. La contrattazione, all’inzio dell’industrializzazione, era bilaterale ed individuale tra il singolo datore di lavoro ed il singolo lavoratore.

Come comprenderebbe anche un bambino, il rapporto di forze, in tal modo, giocava tutto e solo a vantaggio del padrone, perché laddove il lavoratore non accettava le condizioni capestro imposte dal padrone, ma dettate dicevano i liberali del XIX secolo dal nuovo «dio» chiamato «mercato», di altri poveracci disposti a tutto pur di lavorare le strade erano stracolme.

Così funzionava il ricatto padronale all’inizio dell’industrializzazione!

Ebbene, abbattuto, grazie alla globalizzazione, lo Stato nazionale, che era riuscito a tutelare il lavoro in un quadro sindacalnazionale, costringendo il capitale, un tempo non volatile ma legato più di oggi al territorio, a sottostare alla contrattazione collettiva tutelata dallo Stato, il sistema del ricatto padronale è tornato ad imperare ed i  rapporti di forza a far pendere il piatto della bilancia a favore del capitale. Il manico del coltello è tornato di nuovo nelle mani padronali.

Infatti, nel caso di Pomigliano, la Fiat ha potuto tranquillamente esercitare il suo ricatto: o i lavoratori accettano condizioni di lavoro più dure e meno garantite oppure impianti e produzione verranno trasferiti in Polonia, o altrove, ossia dove altri lavoratori, pur di lavorare, sono disposti ad accettare quelle condizioni peggiorative che i loro colleghi italiani, troppo abituatisi alle tutele del passato, non vogliono accettare.

Privi di quella forza contrattuale, in precedenza loro assicurata dal fatto che l’economia e dunque anche la contrattazione industriale vivevano in un invalicabile quadro nazionale, sindacati e governo, ora, corrono dietro al capitale supplicandolo di non andare via, di rimanere nel territorio nazionale.

In un tale contesto, parlare di contrattazione tra le parti sociali, che presuppone una pressoché eguale posizione di reciproca parità, diventa davvero ridicolo.

Non costituisce un rimedio, a detta situazione, l’emergere dei nuovi radicamenti identitari localistici, di tipo federale. Perché anche in tal caso i governi locali sono costretti a correre dietro al capitale volatile supplicandolo di investire sul proprio territorio regionale, anziché altrove. E, per ottenere questo, i ceti politici dirigenti di queste nuove realtà sono disposti a cedere su tutto: il capitale vuole mano libera sul lavoro e sull’indotto locale, gli si conceda purché venga o rimanga da noi!

Insomma, i vari leghismi non ottengono altro che di mettere in concorrenza tra loro le diverse regioni «transfrontialerizzate». Salvo poi scaricare la rabbia dei «nativi» contro gli immigrati, i quali sono tali solo perché si tratta di poveracci che costituiscono una massa di manodopera, disposta a lavorare sottocosto, utile al padronato per far abbassare le tutele del lavoro europeo troppo garantito.

Finora abbiamo spiegato come il liberismo sia riuscito, mediante la globalizzazione, a riportare il timone nelle sole mani del capitale.

Tuttavia negli ultimi anni, quelli della crisi economica globale iniziata nel 2008, stiamo assistendo al paradossale pontificare ex cathedra di economisti liberisti alla Giavazzi proprio mentre i governi sono tornati a prassi in apparenza interventiste ma ed è questo l’ennesimo inganno della globalizzazione a tutela di chi della crisi è il massimo responsabile.

Sappiamo tutti che la responsabilità dell’aver gettato il mondo nell’attuale crisi finanziaria ed economica ricade, checché ne dica Giavazzi, sulle grandi Banche d’Affari transnazionali, tipo Goldmann Sachs.

Ma, invece di essere severamente punite e sottoposte a rigide e ferree regole a difesa del bene comune, come fece in analoga situazione Roosevelt negli anni ‘30 tra l’altro imitando, come si è detto, quanto all’epoca si faceva in Italia dove il sistema bancario veniva, per usare un termine allora in voga, «pubblicizzato» ossia sottoposto a controllo ferreo dello Stato, quelle grandi banche speculative sono state salvate, da Obama in USA e dai nostri eurocrati in Europa, con i soldi dello Stato.

Ecco che, all’improvviso ed inopinatamente, lo Stato, negletto quando negli anni ‘80 e ‘90 pretendeva ancora di esercitare, contro le idee liberiste all’epoca in piena e trionfale marcia, la sua antica funzione di tutore del lavoro, torna, invece, ora utile laddove si tratta di dare il proprio beneplacito alle Banche Centrali per stampare moneta allo scopo di riempire la casse vuote delle grandi organizzazioni bancarie della speculazione globale.

In tal caso il dogma liberista, che quando si tratta di salvare le imprese ed i posti di lavoro aborre interventi statuali in economia (le imprese in difficoltà devono morire: è legge del mercato, sostengono i liberisti dogmatici!), non vale più perché evidentemente, e contrariamente al «dogma», l’intervento dello Stato è a favore degli speculatori.

Hanno, in tal modo, inventato il keynesismo alla rovescia: quello che tutela profittatori e speculatori! La conseguenza è che ora si chiedono sacrifici a tutti: Stato, sindacato, impresa, lavoratori, cittadini. Ma intanto i responsabili, gli speculatori, l’hanno fatta franca ancora una volta!

La destra berlusconiana si riempie la bocca di sussidiarietà, Dottrina Sociale della Chiesa, identità dei popoli, comunitarismo liberal-libertario e rinascita federale dei corpi intermedi. Ma, in realtà, alla prova dei fatti dietro questa filosofia «catto-sussidiaria» e lo diciamo con grande rammarico accompagnato da grande disincanto avanza inarrestabile il «capitalismo terminale».

Quel capitalismo speculativo che riesce persino a pervertire una filosofia sociale di matrice tradizionale perché in realtà ha, per prima cosa, pervertito i cuori di coloro che quella filosofia sociale avrebbero dovuto rappresentare e tradurre in pratica. In effetti, quando si affacciano in TV i vari Fini, Alemanno, Bocchino, Brunetta, Biondi, Bossi (e la sua Trota), Berlusconi, Gelmini, Bersani, Di Pietro, Franceschini, D’Alema, Finocchiaro, ben si comprendono i motivi per i quali un tale personale «politico» mai potrà culturalmente alzarsi, anche solo un po’, dal volo rasoterra cui è abituato. Basta osservare lo sguardo, dai bulbi oculari protuberanti, di un Maurizio Gasparri, e soprattutto ascoltare quel che dice ad ogni sua comparsata televisiva, per capire a quale livello, quanto a spirito critico, sia la nostra classe politica.

La globalizzazione non è stata un processo naturale ma ideologicamente imposto da ristrette élite tecnocraticofinanziarie, imbevute, tra l’altro, dello stesso spirito giacobino-marxista, quindi rivoluzionario, che ha già a suo tempo animato le rivoluzioni degli ultimi due secoli. Il mondo questa è la filosofia che anima i programmatori della globalizzazione non deve essere contemplato ma trasformato secondo un astratto modello ideologico e se la realtà rifiuta il modello tanto peggio per la realtà. Tradotto in altre parole: se il modello impone l’abbattimento delle frontiere, queste ultime devono essere inesorabilmente abbattute anche se ciò travolge le conquiste sociali ottenute dallo Stato nazionale e sociale.

Dicono che si tratti della dolorosa via per arrivare, un domani (quando?), all’uniformizzazione degli standard di vita in tutto il pianeta, elevando un po’ (ma solo un po’!) quelli dei Paesi poveri e contemporaneamente abbassando (di molto!) quelli dei Paesi ricchi. E a chi cerca di svelare il trucco si rimprovera di essere egoista, di voler tutelare i protezionismi nazionali a scapito dello sviluppo dei Paesi del terzo mondo che, invece, sarebbero sicuramente beneficiati dal liberoscambismo globale, compresa la deregulation finanziaria.

Questa pelosa filantropia sa davvero di grande ipocrisia. Si è riusciti nel disegno di convincere l’opinione popolare che bisogna accettare una globalizzazione al ribasso anziché, per tutti, una al rialzo. Ma quest’ultima imporrebbe di abbattere le frontiere solo tra economie dello stesso livello, onde evitare la divisione internazionale del lavoro ossia il neocolonialismo, e di aprire le frontiere solo gradualmente mano a mano che anche altri Paesi, in questo da aiutare con gli strumenti della politica e non solo «economicamente», raggiungono standard di sviluppo più alti.

Una prospettiva aborrita dai globalizzatori perché non produrrebbe profitto speculativo immediato: «tutto e subito» è il loro slogan.

Se le promesse di maggior benefici globali, avanzate dai globalizzatori, si avvereranno lo potranno appurare soltanto i nostri pro-nipoti. Nel frattempo, però, sono solo le multinazionali a guadagnarci a man bassa delocalizzando il lavoro, anche quello intellettuale e altamente specialistico (un ingegnere indiano costa quanto un nostro operaio ed è tecnicamente capace quanto un nostro ingegnere), e giocando speculativamente nel gran casinò virtuale della «Borsa Planetaria».

I luddisti, ad inizio XIX secolo, erano perdenti, come tutti i «reazionari», e non avevano neanche ragione visto che poi l’industrializzazione ha prodotto maggior benessere: però, nell’immediato, avevano certamente le loro ragioni perché quando si tratta di sfamare la famiglia, qui ed ora!, non si possono aspettare i tempi lunghi del compiersi del processo.

«
Nel lungo termine diceva Keynes ai fautori dell’automatismo di mercato che avrebbe dovuto da solo risolvere la crisi del ‘29 saremo tutti morti».

Un processo, come la globalizzazione, che avrebbe richiesto maggior gradualismo impegnando almeno tre o quattro generazioni, è stato invece compresso, per mera prometeica volontà ideologica, in un tempo strettissimo di meno di vent’anni, a partire dal fatidico 1989, provocando tutti i guasti cui oggi stiamo assistendo.

Forse queste considerazioni potranno sembrare, a qualcuno, di «sinistra», laddove invece, per altri versi, potrebbero essere giudicate «reazionarie» (ma poi che senso più hanno ormai parole come «destra» e «sinistra»?). La verità è solo che è giunta l’ora del disincanto che impedisce all’intelligenza critica di entusiasmarsi per qualunque «mito politico», anche ed in particolare per quello liberale.

Resta, grazie a Dio, la Fede. Quella sì che va difesa perché rimane la sola unica speranza dell’umanità. Come diceva Teresa d’Avila: «Tutto passa, solo Dio resta».

Chi scrive non è portatore di alcuna ricetta politico-economica, alternativa allo spirito dell’epoca globale, e quindi alla fine anche le sue sono, forse, solo parole, magari arrabbiate; ma, crede, tuttavia, che si debba almeno salvare lo spirito critico e non farsi abbindolare da nessuna «parola d’ordine».

Luigi Copertino



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