L'enigma Giovanni XXIII: l'origine «fallibile» del Vaticano II (IV ed ultima parte)
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Giovanni XXIII° il giorno della sua incoronazione nel 1958

Ci sono elementi tangibili per conoscere l'origine del Vaticano II.
Essi vanno dal piano delle logge di formare un clero modernista che fornisse un Papa per convocare un Concilio, secondo i bisogni dei tempi rivoluzionari, al programma, oggi ribadito anche da Benedetto XVI, di inserire con questo nella Chiesa i «migliori valori» dell'Illuminismo.
«Dai frutti li conoscerete»; chi se non gli ispiratori e i realizzatori di tali piani?
Si è visto che per attuarli una legione di novatori ha operato e opera ancora per la completa mutazione della Chiesa, ridotta ad animatrice della democrazia ecumenista globale.
Ma poiché tale «frutto finale» è presentato dai vertici come «elemento essenziale per l'autenticità della religione», una
moltitudine di cattolici sono passati dallo stato di dubbio a quello d'apostasia, senza nemmeno accorgersi in quale «sofisma religioso» sono stati irretiti.
Di cosa si tratta?
L'illuminismo, venendo a succedere al «profondo teologo» Martin Lutero, ha introdotto il «fai da te» della coscienza, dopo il «fai da te» della fede diffuso da Lutero.
La coscienza non sarebbe più la norma prossima dell'agire (1), di cui la norma superiore, la «regula agendi», è la legge naturale e divina (2) stabilita da Dio.
Non più quindi l'orologio personale che dobbiamo adeguare all'ora effettiva, ma il fatto che disponiamo di un'ora a piacimento che dipende solo dai nostri gusti personali.
La mentalità luterana elimina l'«atto» della fede, perché non vuole più sottoporre l'intelligenza personale alla interpretazione autorevole della rivelazione data dal magistero della Chiesa, la quale è infatti la «regula Fidei».
Ma a tale mentalità, assorbita «de facto» anche in ambiente cattolico, si viene a sommare pure l'anzidetta degenerazione riguardo alla coscienza, che si separa dai sicuri ancoraggi della legge naturale e divina per darsi ai flutti del sentimentalismo, e così alla mercè d'ogni vento delle idee dominanti.
Con ciò si realizza una ipertrofia della coscienza e si compie una trasposizione oggettivamente fraudolenta della medesima, che dal piano delle decisioni riguardanti l'agire va ad usurpare anche il dominio dell'intelligenza al quale apparteneva l'«atto» della fede, cioè l'adesione razionale all'insegnamento della Chiesa.
E la coscienza, divenuta erronea perché disancorata dai suoi corretti riferimenti e conformata solo alle più comode idee mondane di larga diffusione mediatica, si erge a norma non solo dell'agire, ma pure del credere.
Ecco la rivoluzione clericale innescata dal piano modernista.

Quindi per capire la matrice dell'apostasia attuale dobbiamo ripercorrere il corso del processo modernista, che aliena il concetto dicoscienza retta, formata nella verità - rivelata infallibilmente - per seguire l'idea della «coscienza libera» che si ritene «degna e retta» in base ai propri giudizi derivati dal progresso delle scienze e dai bisogni dei tempi.
Ecco il fulcro della questione descritta da san Pio X nella condanna al modernismo («Pascendi»): parificano la rivelazione divina alla coscienza.
San Pio X «condanna il 'Sillon': Alla base di tutti i loro errori sulle questioni sociali, si trovano le false speranze dei Sillonisti sulla dignità umana. Secondo loro, l'Uomo sarà un uomo veramente degno di tale nome solo quando avrà acquisito una consapevolezza forte, illuminata, ed indipendente, capace di fare a meno di un maestro, ubbidendo solo a se stesso, e capace di assumersi le più gravi responsabilità senza turbamenti. Tali sono le grandi parole con cui viene esaltato l'orgoglio umano, come un sogno che conduce l'Uomo lontano senza luce, senza guida, e senza aiuto nel regno dell'illusione nel quale egli sarà distrutto dai suoi errori e dalle sue passioni mentre attende il giorno glorioso della sua piena consapevolezza».
Secondo questi filosofi [sillonisti], il primo elemento della dignità dell'uomo è la libertà, intesa, però, nel senso che, ogni uomo è autonomo fuori che in materia di religione.

Fuori che in materia di religione?
Certo, nessun cattolico e meno ancora un consacrato avrebbe potuto pensare che qualcuno in nome della religione potesse andare oltre le teorie del «Sillon» condannate da Magistero.
Eppure, il Vaticano II le ha riprese superandole con la dichiarazione «Dignitatis humanae» (7 dicembre 1965), nella quale dichiara, in nome dell'autorità della Chiesa, il «diritto alla libertà religiosa», il cui fondamento è la dignità della persona umana, «quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione» (confronta Giovanni XXIII, «Pacem in terris», 11aprile 1963).
«Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa dev'essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società» (6, d.).
Il magistero di san Pio X aveva condannato in anticipo questa dottrina sillonista e democristiana che, suffragata dal Vaticano II,
superò ogni limite precedente sostenendo che il diritto all'autonomia di ogni uomo, anche in materia di religione, è fondato sulla Rivelazione.
La stessa dottrina del «Sillon», condannata all'inizio del secolo da un Papa santo, è stata superata per essere ufficializzata da
quell'assemblea conciliare, alla luce dei «segni dei nostri tempi».
Dio vorrebbe la libertà religiosa per i tempi moderni!
Quindi Dio, secondo Giovanni XXIII, Paolo VI e correligionari, non solo ha dato all'uomo la religione del frutto proibito, secondo il bene della Sua legge, non solo la «libertà» psicologica per cui l'uomo può scegliere anche il male e perdersi, ma anche una «religione» della libertà nel «bene soggettivo» e nel male oggettivo!
La «religione fai da te» sarebbe voluta da Dio!!!

Giovanni Paolo II, nel «Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace» (8 dicembre 1998), ha dichiarato: «La libertà religiosa costituisce (...)il cuore stesso dei diritti umani. Essa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda».
Ma come, non solo la libertà di passare da una falsa religione alla vera, storicamente rivelata, ma la libertà di negarla e avversarla in favore di una propria scelta religiosa è il cuore di un «diritto umano», perciò di un bene per l'uomo?
Tale «diritto» lo può predicare l'Illuminismo della Rivoluzione Francese, russa o cubana, ma un Papa o un Concilio ecumenico della Chiesa cattolica come potrebbe farlo senza svelarsi in grave contraddizione proprio verso le coscienze?
Se è proprio la religione che deve formare le coscienze, come potrebbe invitarle alla libertà religiosa, che implica libertà morale?
Essa suppone l'inesistenza di Dio e della sua legge e religione.
Sarebbe un invito all'apostasia in nome dello stesso insegnamento di Gesù Cristo: «Predicate a tutti la Buona Novella. Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato».
Poiché questa religione dell'apostasia, che è quella del Vaticano II, oggi è più praticata che compresa, si deve capire il suo «sussurro» demoniaco alla luce degli abbagli che essa ha seminato nella storia fino al presente.

Il concetto cattolico di libertà e di dignità

Leone XIII («Libertas», 20 giugno 1888): «La libertà, dono di natura nobilissimo, è proprio unicamente degli esseri intelligenti o ragionevoli e conferisce all'uomo questa dignità, di essere in mano del suo consiglio ed avere intera padronanza delle sue azioni. La qual dignità però importa moltissimo come sia sostenuta, perché dall'uso della libertà derivano del pari e sommi beni e sommi mali. Può infatti l'uomo obbedire alla ragione, seguire il bene morale e tendere diritto all'ultimo suo fine; e può invece mettersi in tutt'altra via, e correndo dietro a false immagini di bene, turbare l'ordine debito, ed esporsi da se stesso ad inevitabile rovina. Il nostro Redentore Gesù Cristo, restaurando ed elevando la dignità primitiva di natura, recò alla volontà grandissimo giovamento; e... la innalzò a più nobile segno. Per la stessa ragione assai benemerita di sì eccellente dono di natura fu e sarà sempre la Chiesa cattolica, come quella che ha per officio di propagare a tutti i secoli i benefizi recatici da Gesù Cristo».

Il libero arbitrio

Leone XIII distingue: «La libertà naturale, (d'ordine psicologico)è principio e fonte nativa da cui scaturisce ogni altra libertà. Essa, 'innalzandosi alla conoscenza delle ragioni immutabili e necessarie del vero e del bene, è in grado di giudicare della contingenza dei beni particolari'. Ora, come la semplicità, spiritualità ed immortalità dell'anima, così la libertà sua nessuno afferma più alto, nessuno con più costanza difende della Chiesa cattolica, che le insegnò sempre, e le sostiene qual dogma».
Si tratta della responsabilità umana: risposta dovuta anzitutto a Dio.

Libertà morale

«Poiché ogni mezzo ha ragione di bene utile, e il bene, in quanto bene, è oggetto proprio dell'appetito, ne segue che il libero arbitrio è dote della volontà, anzi è la volontà stessa, in quanto ha, nell'operare, facoltà di elezione».
Il bene voluto è conosciuto da un giudizio della ragione.
Così la volontà, come la libertà che ne deriva, ha per oggetto il bene conforme alla ragione.
La possibilità di errare, per difetto di giudizio, «dimostra che siamo liberi, come la malattia, che siamo vivi, ma dell'umana libertà non è che difetto».
Discorre su ciò san Tommaso: «Il poter peccare non è libertà, ma servaggio».
Basti quel che egli dice commentando le parole di Gesù Cristo: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato» (Giovanni 8, 34).
«L'uomo è ragionevole per natura […] si muove da sé e però da libero, quando opera secondo ragione: ma quando opera contro ragione, come fa quando pecca, allora egli è mosso quasi da un altro, e tirato e imprigionato nei termini altrui: chi fa il peccato ne è schiavo».

La libertà e la Legge: «Tale essendo dunque nell'uomo la condizione della sua libertà, troppo era necessario avvalorarla di lumi ed aiuti, che in tutti i moti suoi la indirizzassero al bene e la ritraessero dal male; altrimenti di grave danno sarebbe riuscito all'uomo il libero arbitrio».
«E primieramente fu necessario porgli una legge, ossia una regola di ciò, che si ha da fare ed omettere... Nello stesso arbitrio dell'uomo adunque, ossia nella morale necessità che gli atti volontari nostri non discordino dalla retta ragione, va cercata, come in radice, la prima causa dell'esserci necessaria la legge. E nulla può dirsi o concepirsi più perverso e strano di quella massima: che l'uomo, perché naturalmente libero, deve andare esente da legge; il che, se fosse vero, ne seguirebbe che per essere liberi dovremmo essere irragionevoli. Ma la verità si è che proprio per questo l'uomo va soggetto a legge, perché è libero per natura».
«L'uomo, per necessità di natura, trovasi in una vera e perpetua dipendenza da Dio, così nell'essere come nell'operare, e però non può concepirsi umana libertà se non dipendente da Dio e dalla sua divina volontà. Negare a Dio tale sovranità, o non volervisi assoggettare, non è libertà ma abuso di libertà e ribellione, e in siffatta disposizione d'animo consiste appunto il vizio capitale del liberalismo. Il quale però prende molte forme, potendo la volontà in modo e gradi diversi sottrarsi alla dipendenza dovuta a Dio e a chi ne partecipa la autorità».
La vera libertà consiste nel fatto che l'uomo possa vivere secondo il bene e il fine per cui fu creato con l'aiuto dell'ordinamento
giuridico della società.
La libertà fisica e sociale dev'essere pertanto condizionata dalla legge, cioè se qualcuno abusa della propria libertà contro il bene e la libertà comune, la società ha il diritto e il dovere d'impiegare la coercizione per impedirlo.
Ecco il corollario inevitabile del problema della libertà umana: perché la legge sia rispettata, assicurando la libertà generale,
l'autorità deve poter coagire e perciò, essere valutata come servizio alla libertà di tutti.
Può questa vera libertà dispensare la verità rivelata da Dio per il bene umano?

La controreligione illuministica

L'illuminismo voleva, però, aggiungere un suo «valore» a questa libertà dell'uomo affinche fosse simile, o anche meglio di Dio,
conoscendo il bene e il male.
Ora vediamo le tappe oscure che questo piano, il più ambizioso dell'intera creazione, ha percorso nei tempi moderni, fino al Vaticano II.
Che gli uomini conoscessero per istinto il rischio della tirannide di una libera creatività umana è attestato dal sospetto con cui erano visti perfino i poeti nel passato.
L'Umanesimo ha invertito questo spirito e ha aperto la cultura ad ogni idea, iniziando la riforma mentale.
Non importava più quel che si doveva sapere, ma conoscere sempre più di tutto.
E un nuovo concetto d'istruzione è prevalso, covando le rivoluzioni moderne che, a loro volta, passarono al piano universale,
irreversibile, della nuova istruzione, dell'apertura verso la speranza di un ammirabile mondo futuro, rimasto precluso all'uomo da una greve mentalità religiosa.
Erasmo è stato un grande precursore di quest'apertura professando in campo teologico che «ogni uomo ha in sé la teologia», ed è «ispirato e guidato dallo spirito di Cristo, sia esso scavatore o tessitore».
Lo scrittore Jacques Ploncard d'Assac, nel suo libro «L'Eglise Occupée» (Edizioni de Chiré, Vouillé, 1972), parla delle
conseguenze di queste idee fino ai nostri giorni, partendo dalla battuta di un monaco di Colonia: «Erasmo ha messo le uova, Lutero le farà schiudere».
In esse c'era il sussurro invitante la coscienza umana ad emanciparsi, questa volta, però, in nome dello spirito «ordinatore» di Cristo.
Sono le idee apparse nei secoli scorsi a delineare oggi la mentalità dei profeti della rivoluzione conciliare.
Come riconoscere tali profeti?
«La Chiesa è intransigente nei princìpi, perché crede; tollerante nella pratica perché ama. I nemici della Chiesa sono tolleranti nei princìpi, perché non credono; intolleranti nella pratica, perché non amano» (padre Garrigou Lagrange, «Dieu, son existance et sa nature», volume II, pagina 725).

Giovanni XXIII rilancia l'ambiguità erasmiana nella «Pacem in terris», che, essendo il riferimento più citato nella «Dignitatis
Humanae
», chiaramente contiene la frase chiave della revisione conciliare sui concetti di dignità umana e libertà religiosa: «In
hominis iuribus hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad rectam conscientiae suae normam, venerari possit, et religionem privatim publice profiteri
»; cioè «ciascuno ha il diritto di onorare Dio seguendo la retta norma della propria coscienza e di professare la propria religione in pubblico e in privato» (AAS 55, 1963, pagina 260).
Ecco l'ambiguità rilanciata: si tratta di norme divine su cui si fonda la «retta coscienza», o di una «retta norma», come giudizio della propria coscienza autonoma?
L'abbozzo di quest'ambiguità di Erasmo era stato condannato dalla Chiesa nel passato.
Nei nostri tempi essa ritorna rinforzata da Giovanni XXIII, per delineare il piano di «aggiornamento» conciliare.
L'ambiguità si rivelerà la copertura lasciata cadere con l'opzione della «Dignitatis Humanae» per una «coscienza autonoma».

Dalla «Pacem in terris» alla «Dignitatis humanae»

Nella «Dignitatis Humanae» «Seguono una citazione di Lattanzio e un'altra di Leone XIII, ma né l'una né l'altra provano la proclamazione fatta, poiché Lattanzio parlava del diritto dei cristiani a praticare la loro religione nell'impero romano e Leone XIII precisava di quale libertà intendeva parlare, cosa che non fa invece l'enciclica di Giovanni XXIII.
In questa, infatti, l'assenza di ogni precisazione fa sì che la proclamazione del diritto di ogni uomo a professare la propria religione possa cadere sotto i colpi della condanna del liberalismo fatta da Leone XIII, proprio nella 'Libertas' di cui nella 'Pacem in terris' si cita un passaggio... procedimenti di tal fatta non sono onesti intellettualmente
»...
Il senso della «Dignitatis Humanae» «è il senso percepito dal padre Rouquette, che scriveva in 'Études' del giugno 1963: La 'Pacem in terris' è di fatto un evento che, per gli storici futuri, segnerà una svolta nella storia della Chiesa». (monsignor F. Spadafora, Tcc, pagine 240/1)
La «Dignitatis Humanae» è basata sulla versione eterodossa della «Pacem in terris».
Ecco il riassunto del testo postumo del padre Joseph de SainteMarie pubblicato dal «Courrier de Rome» (maggio 1987) e da «Itinéraires», (luglioagosto 1987): «Padre Laurentin lo testimonia... scrive 'questo diritto della persona... non è un'innovazione conciliare', […] questa formula 'che inizialmente era stata assunta tale e quale, non può essere mantenuta se non a costo di attenuazioni. Tuttavia, la dichiarazione presa nel suo insieme non scioglie certe ambiguità, ma perfino fa deduzioni su quanto era stato volontariamente mantenuto nella 'Pacem in terris' '. Ecco una confessione da considerare e padre Laurentin dice da chi l'ha avuta: padre Pavan (il teologo di Giovanni XXIII) in 'Libertà religiosa e Pubblici poteri', Milano, 1965, pagina 357. Strano modo di insegnare la verità».

La formula ambigua della «Pacem in terris» «può cadere sotto la condanna del liberalismo della 'Libertas' di Leone XIII, della quale si cita un brano... Senza dubbio troviamo qui una delle 'ambiguità volontariamente mantenute' di cui parla padre Laurentin. A cosa serve invocare l'espressione 'seguendo la giusta norma della coscienza' per dire che si tratta qui della libertà religiosa concepita correttamente? Poiché siamo di nuovo di fronte ad una ambiguità. Si sa che la morale cattolica riconosce il diritto e proclama il dovere, di ogni uomo, di seguire il giudizio della 'coscienza retta':
conscientia recta. S'intende con ciò il giudizio di una coscienza formata secondo le norme della virtù della prudenza e che si è conformata alla verità. Questa nozione classica si trova perfino nella 'Gaudium et spes', 16. Di questa coscienza retta si proclama ladignità, che si estende fino alla coscienza invincibilmente erronea, quella di una persona che è nell'impossibilità morale e pratica di liberarsi dall'errore in cui si trova
».
La coscienza perde la sua dignità nel momento in cui aderisce all'errore per negligenza colposa.
«L'ambiguità della 'Pacem in terris' appare nella redazione latina del testo, che parla dellarectam conscientiae suae normam, cioè della 'norma retta della coscienza'. Si deve intendere il riferimento alla norma della 'coscienza retta' o di una 'norma retta', che sarebbe ogni giudizio in coscienza? Ognuno può capirlo come crede; e in ciò consiste l'ambiguità. Ognuno la applicherà perciò ugualmente nel senso che vuole, ma l'enciclica ha in se stessa un moto interno che ci dice in quale senso, secondo essa, tale 'libertà' dev'essere intesa. E' il senso inteso da padre Laurentin e da padre Pavan, così come dai periti conciliari della 'libertà religiosa'. Senza dubbio, continua immediatamente: non un cambiamento dei princìpi della antropologia cattolica, fondata sulla Rivelazione, ma una presa di posizione nuova visàvis del mondo moderno. Soltanto questo?
Forse si può anche dire questo della 'Pacem in terris', a causa delle 'ambiguità volontariamente mantenute', ma ciò non è più possibile dopo la 'Dignitatis humanae', titolo della dichiarazione conciliare, dove si trovano princìpi che furono essi stessi cambiati
».

«La continuità tra la 'Pacem in terris' ela 'Dignitatis humanae' è evidente; lo dimostrano i testi quanto le testimonianze, incontestabili in questa materia, di padre Laurentin e di padre Rouquette. Abbiamo visto come il primo lo sottolinei. Ed ecco quanto diceva il secondo, nella stessa cronaca del giugno 1963, cioè tra la prima e la seconda
sezione conciliare: 'Tra i diritti derivati dalla dignità della persona umana, l'enciclica insiste sul diritto ad una libera ricerca della verità'
(non semplice 'tolleranza', ma 'libero esercizio del culto'), e questo è detto con una confusione di campi e di punti di vista deliberatamente mantenuti».
«Le posizioni prese in questo modo dall'enciclica arrivano a proporre il Segretariato per l'Unità nel progetto dello schema 'De libertate religiosa'; il cardinale Bea, in un'intervista alla quale ci siamo riferiti, ha indicato che lì c'era il suo spirito».
«Il paragone (tra il progetto di schema e la 'Dignitatis Humanae') parla da sé e ci permette di identificare nella persona del cardinale Bea, l'autore del testo centrale della dichiarazione sulla libertà religiosa, o almeno, del suo ispiratore principale».
«Il sofisma che si ripete in entrambi i testi consiste nel passare in modo indebito dall'affermazione innegabile, evidente e
fondamentale, della libertà essenziale dell'atto di fede, libertà per la quale ogni pressione su tale atto distrugge la sua natura stessa, all'affermazione, per niente evidente, e di fatto negata tradizionalmente dalla Chiesa, di una libertà parimenti essenziale e illimitata a priori in materia di esercizio pubblico del culto religioso, qualunque esso sia
. (3)
La Chiesa non nega nella pratica, in assoluto, ogni diritto di pubblica espressione alle altre religioni. In ciò la sua tolleranza è aumentata nel tempo».
«La 'Pacem in terris' e il Vaticano II si spingono al punto di mettere in causa gli stessi princìpi. E' esattamente in questo che consiste la novità e il problema gravissimo posto dall'affermazione del testo conciliare 'Dignitatis Humanae': un diritto alla libertà religiosa nel foro esterno iscritto nella natura umana e nell''ordine stesso stabilito da Dio', diritto che si vuole limitato unicamente dalle esigenze d''ordine pubblico'.
Si noti anche, poiché il fatto è di massima importanza, un'altra somiglianza tra l'enciclica di Giovanni XXIII e la dichiarazione del Vaticano II: in entrambi i casi questi testi, di così pesanti conseguenze per la storia della Chiesa, e che così si pongono per il giudizio di tale magistero, non sono potuti venire alla luce che in seguito a gravi scorrettezze di procedura. Per quel che concerne la 'Pacem in terris', ecco ancora la testimonianza di padre Rouquette: 'So da buona fonte che il progetto in questione è stato redatto da monsignor Pavan, animatore delle Settimane Sociali in Italia; la sua redazione è stata condotta in gran segreto; il testo non sarebbe stato sottomesso al Sant'Uffizio, i cui direttori non fanno mistero della loro opposizione al neutralismo politico papale. Si è voluto evitare così che il Sant'Uffizio differisse indefinitamente la pubblicazione del testo, come era successo con la 'Mater et Magistra'
».
«La 'Pacem in terris' è stata pubblicata all'insaputa del Sant'Uffizio, essendo stata redatta e mantenuta segreta dal piccolo gruppo di periti - e di pressione - del quale era l'opera. Analogo, ma ancora più grave, il corso seguito dalla 'Dignitatis Humanae'. Le legittime obiezioni sollevate al piano di dichiarazione dal 'Coetus internationalis Patrum' non furono ascoltate, ma respinte (confronta 'Rhin', Wiltgen, pagine 243247) ...Come la 'Pacem in terris', e ancora più di questa, la dichiarazione conciliare è stata pubblicata in seguito a palesi violazioni delle regole.
Non fu rispettato nel primo caso almeno il dovere di prudenza; nel secondo, perfino un diritto esplicito è stato conculcato
».

Conseguenze della contraffazione dottrinale

«Il discorso sugli effetti di questi errori imposti alla Chiesa da gruppi di pressione per vie oltremodo subdole grazie alla copertura dell'autorità pontificia o conciliare sarebbe vastissimo. Ci limitiamo ai titoli principali sotto i quali continuare la riflessione sulle loro conseguenze ed implicazioni.
La prima concerne l'autorità del magistero: se la Chiesa insegna oggi solennemente il contrario di quanto insegnò fino al 1963, significa che si era prima sbagliata. Ma se si era sbagliata, è fallibile, e lo è oggi come lo fu ieri. Che ragione avrei allora per credere in essa ora più che ieri?
La seconda è che proclamando oggi come principio assoluto il diritto naturale alla libertà religiosa, la 'dichiarazione' conciliare rappresenta una condanna di massa non solo dell'insegnamento precedente della Chiesa, ma anche del suo modo di agire; il che mette in causa non più semplicemente la sua potestas docendi, ma anche l'uso della sua potestas regendi. Per dei secoli la Chiesa avrebbe agito ignorando e conculcando un diritto naturale fondamentale della persona umana. E la negazione conciliare dei diritti e dei poteri della società civile in materia religiosa implica una analoga condanna di tutti i Papi degli ultimi secoli.
Peggio ancora, dalla concezione non solo laica ma abbastanzalaicizzante che essa offre, la dichiarazione conciliare nega i diritti di Cristo sulla società civile, il che è non solo in contraddizione con l'insegnamento costante della Chiesa, ma anche con le verità più fondamentali della dottrina cristiana della Redenzione. C'è un'empietà in questo, nel senso proprio del termine, forse non del tutto esplicita, ma a causa della sua implicazione immediata
. […]
Insomma, per tornare al piano dell'ordine naturale, questa separazione falsa e indebita di quanto concerne la religione rivelata dell'ordine della società civile risulta nella completa rovina delle fondamenta stesse di quest'ordine. Il caso estremo a cui condurranno i princìpi qui esposti sarà quello dell'esaltazione dello Stato come realtà suprema e ultima. Forse non sarebbe lui, in ultima analisi, a giudicare le esigenze dell' 'ordine pubblico', in nome del quale esso sarebbe  abilitato a regolamentare 'la libertà religiosa'? E' vero, si parla di un 'ordine morale oggettivo' per fondare questi diritti del potere civile, ma su cosa si fonderà questo stesso ordine se non si riconosce più allo Stato alcun dovere verso la religione in quanto tale e verso la religione rivelata in particolare?».

La filosofia conciliare, ispirata dal monismo ed evoluzionismo che riduce tutto al principio terreno per servire il fine che si
prefiggeva: la pace secondo un «ordine nuovo» del mondo, doveva fornire il suo contributo specifico, «religioso».
Scartate le «vie filosofiche razionali», anche dell'idealismo di Croce (che espone al ridicolo il modernismo), essa andava elaborata in un ambito prettamente clericale, come utopia religiosa, onde evitare i rischi di una incongruenza filosofica.
Ecco perciò l'applicazione conciliare della tesi di Karl Rahner S.J.: del «cristiano anonimo»; modello centrale di «uomo nuovo»
universale, dell'antropocentrismo «cristiano», creativo e conciliante. Su tale idea che, come si vedrà, è la distorsione di un concetto vero, poggia il processo di unificazione del Vaticano II nella sua ricerca del «nuovo ordine religioso».
Essa è anche la base di una «nuova coscienza incosciente» di redenzione universale («Redemptor hominis») che, ispirata in un
«secondo Cenacolo Apostolico», da una «nuova Pentecoste», farebbe tacere i dubbi sull'ispirazione, saggezza e bontà dei suoi autori.
Siamo davanti a «ispirazioni», «intuizioni», proiezioni di un misticismo alla rovescia che dovrebbero scalzare i fondamenti della fede cattolica, che non ignora né prescinde dei termini di ragione.
A Dio è dovuto «un culto razionale», come insegna l'Apostolo (Romano 12, 1) e ribadisce il Concilio Vaticano I (Costituzione «Dei Filius»).
Si vorrebbe, invece, limitare la natura dell'omaggio dovuto dall'uomo a Dio a un vago sentimento, anche incosciente, mentre la ragione umana rimarebbe concentrata sulle faccende ed utopie terrene.

L'elementare sofisma del roncalpensiero

Giovanni XXIII, aprendo il Vaticano II, ha pronunciato quello strano discorso che molti hanno capito essere farina di Montini.
Ma l'idea di aprire alle venture del mondo moderno, dominato dal naturalismo umanistico, padre dell'ecumenismo massonico e del materialismo socialista, era anche sua.
Anzi, l'idea di farlo bloccando i «profeti di sventure», non balzava fuori in quel momento tanto luminoso per lui, ma era una
convinzione portata avanti nella sua lunga militanza modernista, che irrideva degli allarmi riguardo ai pericoli crescenti ribaditi dai
Pontefici.
Basta sentire i Papi degli ultimi secoli per capire che quest'inversione era una meschina rottura, non solo con la totale
visione biblica, dalla Genesi all'Apocalisse, ma con tutti i Profeti, i Padri e i Santi della Chiesa.
Essi sempre ammonirono, non solo contro le mosse anticristiane del mondo in generale, ma sui pericoli di un nuovo modo di pensare e di vivere moderno.
Quindi secondo il «delirio» delle libertà e dell'indifferentismo in materia di religione (Enciclica «Mirari vos», 15 agosto 1832); sulla tentazione di conciliazioni impossibili con gli errori moderni (Enciclica «Quanta cura» e «Sillabo», 1864); sul pericolo delle false libertà del liberalismo (Enciclica «Libertas», 1888) e della Massoneria («Inimica vis», 1894); sulle insidie del modernismo e del suo agnosticismo, collettore d'ogni eresia e sofisma («Pascendi», 1908).
Bloccando queste «profezie di sventura», Giovanni XXIII censurava anche il segreto di Fatima, col quale la Madre di Dio ricordava che la causa delle guerre sta nella ribellione umana, che antepone errori umanistici alla parola di Dio.
C'è perciò da chiedersi: per il «roncalpensiero» la causa delle due grandi guerre era da ritrovare nel pensiero umanistico moderno, forgia delle grandi rivoluzioni, o nel cristianesimo di sempre, che tali movimenti intendevano distruggere?
La domanda è d'obbligo perché ogni ragionamento serio indica che riguardo alle disgrazie non c'è da bloccare chi accusa le loro cause, ma chi le promuove.
Al contrario, Giovanni XXIII e Paolo VI prendevano le distanze dai «profeti di disgrazie», per aprire con «immensa simpatia» ai suoi fautori. Potevano cadere in un sofisma così bieco in rappresentanza dell'infallibile autorità divina, che contraddicevano?

L'eresia, fulcro di ogni complotto

«L'anello è chiuso. Muovendo dal soggettivismo, l'eresia modernista vi ritorna detronizzando Dio e mettendo al suo posto l'Uomo. E' perciò che il Papa (san Pio X), nello stile preciso dell'epoca, del quale il linguaggio babelico di questa seconda metà del secolo XX ha perduto il ricordo, chiama l'immanentismo. Poiché la coscienza umana non è collegata a nulla che la oltrepassi, essa non potrà attingere Dio se non in se stessa: 'Esso si trova nell'uomo stesso'. 'Quindi - rileva il Papa - l'equivalenza fra coscienza e Rivelazione'. Tutte le verità della fede sono già contenute nella coscienza dell'uomo - afferma il Tyrrel in 'Through Scylla and Charybdis'.
Dio non comunica più all'uomo le verità sovrannaturali per mezzo della Rivelazione. E' l'uomo, che le scopre in sé medesimo» (Marcel de Corte, «La grande Eresia», Volpe, 1970).
I profeti del Vaticano II erano consapevoli del bisogno di un «ordine morale oggettivo» per fondare i diritti umani da loro attribuiti al potere civile, ma tacevano su cosa doveva fondare questo stesso ordine perché si vergognavano di dire che ogni ordine e giustizia si fonda sulla verità che trascende l'uomo.
Invece, essi non volevano che si riconoscesse più allo Stato alcun dovere verso la religione in quanto tale e verso la religione rivelata in particolare.
L'uomo che segue la religione dell'uomo che si fa dio, avrebbe il diritto non solo di scegliere le sue verità, ma di coltivarle e insegnarle nel mondo civile e anche religioso; di fare delle proprie opinioni materia di fede.
Ecco, secondo Paolo VI, «l'uomo quale oggi in realtà si presenta: l'uomo vivo, l'uomo tutto occupato di sé, l'uomo che si fa non soltanto centro di ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione di ogni realtà». [...]
Tale «nuovo umanesimo», fondato sui «valori del mondo rinunciatario alla trascendenza, deve poter fare delle proprie
opinioni un diritto da onorare, sostenere e benedire
».
Oggi quest'umanesimo, che con l'animazione dei gran sacerdoti del conciliarismo ecumenista, pretende guidare ad un «ammirabile mondo nuovo», materializza soltanto un mondo edonista e abortista, demolitore del cristianesimo.
Ma non sembra che i suoi umanisti si siano ancora accorti che esso è in via di distruzione, se non per opera dell'Islam, dei germi d'auto corruzione che si porta dentro.

Sarà necessario arrivare ad uno stato d'angoscia estrema perché la gente capisca che, col cristianesimo, sono state demolite anche le naturali e uniche difese del mondo ordinato alla pace nella giustizia?
Che l'Europa, l'America, il mondo, son gravemente mutilati, non da membri e organi ingenerati da un'utopica democrazia mondiale, ma dall'idea stessa di chi sia l'uomo, la sua origine, la sua condizione nel mondo, il suo fine ultimo.
E poiché tutta la storia umana, dalla caduta originale alla rivoluzione conciliare, è scritta sulla falsariga dell'alienazione della parola
divina, oggi siamo al frutto terminale di tanto «progresso», ossia un'umanità mutilata dal suo cuore, che non può sentirsi che
naturalmente cristiano.
Finché imperverserà questa nefasta volontà di trapianto del cuore umano naturale con un adulterato cuore umanistico, mondialista e conciliarecumenista, che infetta ogni sano pensiero e impulso umano, prevarrà per l'umanità il pericolo di una sorda propensione all'autosterminio.

Daniele Araì



Note
1)
«Col nome di coscienza intendiamo il giudizio immediato pratico sul valore morale delle azioni che siamo per compiere. Non è coscienza il giudizio generale in astratto sul valore morale di un'azione. Questo giudizio si suppone, ma, perché si abbia la coscienza, si richiede l'altro giudizio circa il valore morale dell'azione propria, concreta, imminiente. E' dunque un confronto tra il principio generale e l'azione che si è per fare», cardinale
Massimo Massimi, «La Nostra Legge», Libreria Editrice Vaticana, Roma, 1961, pagina 55.
2) «La coscienza (antecedente) è l'araldo della Legge, non solo della legge naturale, ma anche della legge positiva, divina e umana. Essa dice come dobbiamo regolare la nostra condotta… E' la guida che ci mostra il cammino, comandando e proibendo, e anche permettendo e consigliando. Il giudizio di questa guida non è infallibile, come non è infallibile la nostra mente. Quindi è necessario distinguere dalla coscienza vera o retta una coscienza erronea o falsa», cardinale Massimo Massimi, opera citata pagina 59.
3) Papa Gregorio XVI  lo chiama «deliramentum». (vedi enciclica «Mirari vos»).