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Pakistan talebano: la nuova menzogna
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«Pakistan, i talebani a 96 chilometri dall’atomica!», strilla La Stampa (29 aprile). «Il Pakistan non è una polveriera, è un’atomica», grida Guido Rampoldi su Repubblica (25 aprile). Insomma è cominciata in grande la propaganda, la guerra psicologica, che serve a preparare all’inevitabile: un colpo di mano di commando USA (e israeliani) per sequestrare le testate nucleari pakistane, che possono cadare da un momento all’altro in mano ai talebani; anzi meglio, ad «Al Qaeda».

Come i lettori più attenti ricorderanno, il 22 aprile abbiamo riportato che Avigdor Lieberman, il razzista ministro degli Esteri ebraico, in un’intervista a un giornale russo aveva decretato:

«L’Iran non è la peggiore minaccia strategica per Israele; adesso lo sono il Pakistan e l’Afghanistan. Il Pakistan è nucleare e instabile, può cadere in mano ai talebani con l’Afghanistan, creando un’area di estremismo dominata dallo spirito di Bin Laden».

Insomma Lieberman ha dato il via alla campagna per rubare le testate pakistane, e tutti stanno obbedendo con la solita prontezza. A cominciare, si capisce, da Barak Obama, da Hillary Clinton: che ha evocato «l’impensabile; se I talebani, appoggiati da Al Qaeda, rovesciano il governo pakistano, essi avranno le chiavi dell’arsenale nucleare». E da lì, tutti i media a descrivere il Pakistan come uno Stato in disintegrazione, una specie di Somalia - con l’atomica.

Il presidente Zardari, il vedovo della Bhutto, è stato costretto a dichiarare: «Assicuro il mondo che l’arsenale nucleare è in mani sicure». Invano, naturalmente, per i nostri cosiddetti giornalisti.

Invece un vero inviato internazionale, Pepe Escobar che lavora per Asia Times e scrive dal Pakistan, ha un diverso parere. Il suo ultimo articolo si chiama «Il mito del Talibanistan». E spiega perchè Islamabad non sta per cadere sotto una rivoluzione dei turbanti, come Teheran nel 1978 (1).

Anzitutto per ragioni etniche. I talebani sono pashtun. Dei 170 milioni di pakistani, il 55% sono punjiabis, «essenzialmente sciiti, sufi o un mix di questi». E circa 50 milioni sono sindhi, fedelissimi di Benazir Bhutto, ed ora del suo vedovo, Zardari. L’uomo è corrotto, ma il partito della Bhutto è di centro, secolare e laico, come la sua potente base elettorale, base elettorale sindhi. Nell’insieme, l’85% della popolazione è del Punjab o del Sindh, è composta in gran parte da una classe media urbana, e ben poco attratta dal fondamentismo talebano pashtun, che significa anche «arretrato» e marginale.

I guerriglieri talebani in Pakistan sono, secondo le valutazioni più pessimistiche, circa diecimila, divisi per di più in tre fazioni.

Una minoranza infinitesima. Sono concentrati nella cosiddetta area tribale (Pashtun), in certe parti della North-West Frontier Province (la zona del Kyber, autonoma o poco controllata da Islamabad) e in certe piccole aree molto localizzate del Punjab. Sono buoni guerrieri; ma non hanno forza aerea, nemmeno un «Predator», non carri armati, non armamento pesante; e se volessero prendere il potere nel Paese, dovrebbero vedersela con l’esercito regolare pakistano: 550 mila uomini, la sesta forza militare del mondo, che si è sperimentata in una guerra reale, quella contro l’India, condotta spesso in alta montagna.

E se poi, per una incredibile circostanza, penetrassero nei bunker super-sorvegliati dove riposano le testate nucleari, dovrebbero ancora decifrare i codici di innesco, e armare i missili; cosa più complicata di quanto credano alla Stampa o a Repubblica, tanto più per guerriglieri semi-analfabeti.

Vero è che nei giorni scorsi il governo Zardari ha dovuto mandare truppe e aerei a contrastare una puntata di talebani a Buner (quei 96 chilometri che hanno fatto strillare La Stampa), nel distretto di Malakand nella North-Wester Frontier Province; il territorio confina con la provincia del Kunar in Afghanistan; gli autori della puntata sono meno di 500 guerriglieri.

Ritenere che possano semplicemente avvicinarsi alle bombe atomiche, è un esempio di paranoia delirante.

Nulla giustifica realmente l’isteria. Se non l’isteria israeliana che vuol privare l’unica potenza nucleare islamica delle sue armi, e per questo deve ridurre il Pakistan ad uno «Stato fallito» (failed state). Una sanguinosa strategia della tensione è in atto a questo scopo da mesi.

Nel novembre 2008 ci fu l’attentato a Mumbai, condotto, secondo i media, da elementi venuti dal Pakistan. Il generale Hamid Gul, ex capo dell’ISI (i servizi pakistani: fu lui a «creare» i talebani su indicazione di Washington, per scatenarli contro i sovietici) dichiarò  allora a una TV locale:

«L’incidente di Mumbai è una trama internazionale per strappare al Pakistan la sua forza nucleare. Certe forze vogliono dichiarare il Pakistan uno «Stato fallito» (failed state), in quanto è diventato in certo modo necessario mettere in ginocchio il Pakistan onde sfilargli via il suo potere atomico» (2).

Poco dopo, ci fu la sparatoria a Lahore, Pakistan, contro la nazionale di cricket dello Sri Lanka: terroristi «di al Qaeda», secondo la propaganda che ci ostiniamo a chiamare informazione.

Il governo indiano, che si crede alleato degli americani, gongolò. Il Times of India aveva del resto scritto:

«Gli Stati uniti stanno riconsiderando una vecchia idea a lungo accantonata: dichiarare il Pakistan uno Stato-sponsor del terrorismo (proprio come Hamas, Siria, Iran e Iraq di Saddam, ndr)... Gli ambienti dell’intelligence USA stanno riconsiderando il contributo del Pakistan nella guerra al terrorismo... La Casa Bianca stessa ha perso fiducia nella buona fede dell’esercito pakistano molti mesi fa; ciò ha portato Washington a ritirare il suo sostegno al dittatore militare Pervez Musharraf e a mettere al potere (in Pakistan) un governo civile (...). La decisione di scaricare Musharraf è stata presa del vice-presidente Dick Cheney, perchè aveva le prove che il Pakistan stava continuando a sostenere gli elementi talebani che attaccano le forze NATO (in Afghanistan)... Siccome la presente amministrazione è ormai in carica solo per le sue ultime settimane, la decisione al riguardo (cioè se dichiarare il Pakistan uno ‘Stato terrorista’, Stato-canaglia, ‘failed state’, eccetera) è lasciata al governo Obama». («Pakistan on track to being named terrorist state», Times of India, 7 dicembre 2008).

E’ la prova che l’amministrazione Obama fa una politica «parlata» diversa da quella di Bush, mentre la politica «agita» prosegue il  solito progetto - dettato dalla lobby israeliana; probabilmente non può fare altro.

E’ stato Obama «dal volto umano» ad intensificare i bombardamenti con droni Predator («hell from above», inferno dall’alto) sui poveri pashtun, sospetti di sostenere i talebani; con ciò aggravando una campagna di destabilizzazione  che già prima - per responsabilità americana - ha creato al Pakistan una catastrofe sociale: tra le FATA (Federally Administered Tribal Areas) e la Frontiera del nord-ovest, almeno un milione di persone sono oggi sfollate e profughe interne, spesso
bisognose di urgente aiuto alimentare, come risultato della guerra contro «al Qaeda». La FATA conta 3,5 milioni di abitanti in tutto. E l’«inferno dall’alto» ovviamente aliena quella popolazione dal governo, e contamina con la sua insicurezza Peshawar, la capitale della Frontiera del nord-ovest.

E’ in questa strategia che si situa la «fabbricazione» del terribile leader talebano che sostituisce bin Laden, il famigerato Beitullah Mehsud. Un caporione locale, indisturbato fino al giorno in cui, a marzo, si disse che aveva giurato fedeltà al mullah Omar (l’altro introvabile, che vive  tranquillo a Quetta in Baluchistan). Da allora i Predator hanno martellato il territorio della famiglia Mehsud, nel sud Waziristan, ammazzando una quantità di povera gente. Ma, ci informa Escobar, «stranamente, non una ma due volte l’ISI ha passsato un rapporto dettagliato sulla localizzzione di Beitullah alla CIA; e nessun drone si è levato in volo».  Beitullah il terribile è meglio vivo - come Bin Laden - perchè dà la scusa della continua escalation «contro i talebani», ma in realtà contro i pakistani e il loro governo. Basta ricordare che un giorno Bush disse: la cattura di Bin Laden «non è una mia priorità». Ora, è lo stesso con Mehsud il Terribile.

E’ vero che nell’ISI restano elementi che si sentono traditi dagli «alleati» americani, e avendo creato i talebani, li stanno probabilmente usando e armando e istigando per aggravare i problemi degli occupanti USA e NATO in Afghanistan. Ma che le spie pakistane siano pronte a consegnare ai loro strumenti le atomiche nazionali, è semplicemente impensabile. E’ vero che negli alti gradi militari, dopo che il generale Musharraf  ha perso il potere (per elezioni a cui è stato costretto da Bush), c’è disprezzo per il governo civile di Zardari (con la Bhutto viva, sarebbe stata altra cosa) e odio per Washington.

E’ possibile che ci sia un golpe militare, questo sì: lo caldeggiano ambienti neocon, come l’ebreo John Bolton, che recentemente ha detto: per scongiurare che le testate cadano in mano ai talebani, «dobbiamo rafforzare gli elementi filo-americani nell’esercito del Pakistan... ciò può significare reprimere la nostra delicatezza democratica, ed accettare una presa di potere militare in Pakistan, se il governo civile si squaglia davanti alla pressione fondamentalista» (3).

Insomma, gli americani rifaranno quello che hanno disfatto? I golpe in Pakistan li hanno sempre fatti i capi di Stato Maggiore con il placet USA. Oggi, il capo di Stato Maggiore è il generale Ashfaq Kiani, un ex ministro della Bhutto, di cui Escobar fa notare «la intimità con l’ammiraglio Mike Mullen», il capo supremo delle operazioni del teatro.

E’ possibile; ma forse la dichiarazione di Bolton è solo una minaccia al governo Zardari («Ti facciamo fuori se non obbedisci»). Con un generale al comando, sarebbe difficile sostenere che le bombe atomiche pakistane sono in pericolo, e dunque che bisogna andare a sequestrarle.

Propaganda, propaganda.

Contro l’Iran è in atto una ancor più immotivata propaganda sui nostri mezzi d’informazione.

Angelo Panebianco, grande firma del Corriere (4), deplora l’esecuzione di Delara Darabi, «una giovane pittrice». Tutti i media la descrivono come «una giovane pittrice», anche se nulla risulta della sua attività d’artista; risulta invece che ha confessato di essere colpevole di un omicidio all’età di 17 anni, di cui poi si è dichiarata innocente dicendo di aver mentito per coprire il suo fidanzato, il vero colpevole. Storia alquanto improbabile, direi.

Intendiamoci: la pena capitale è bruttissima. Ma non risulta che Panebianco abbia mai dedicato un articolo alle pene di morte extragiudiziali che Israele compie in gran numero, chiamandole più francamente «assassinii mirati». Nè commuovono Panebianco le iniezioni letali dispensate ai negri minorenni in USA, nè quella fabbrica di esecuzioni capitali che è la Cina; per nessuno di questi omcidi di Stato ha mai usato il titolo utilizzato per l’esecuzione iraniana: «La sfida crudele di un regime». Forse nessuno dei condannati da Pechino è una «giovane pittrice».

Panebianco lacrima anche, manco a dirlo, per «la giornalista americano-iraniana Roxana Saberi», condannata ad otto anni in Iran «per spionaggio». Per questa Roxana c’è tutta una campagna mondiale in corso. Dei giornalisti di Reporters sans Frontières hanno annunciato lo sciopero della fame per liberarla; si esibisce molto il volto della ragazza: è così carina, non può essere colpevole.

Viva la libertà di stampa repressa dal regime crudele!

Veramente, Teheran sostiene che Roxana, carina com’è, è stata colta in flagrante mentre cercava di comprare informazioni sul nucleare iraniano. Può essere una menzogna di un «regime crudele», ovvio. Ma i liberissimi media USA, nel 2007 e nel 2008, hanno spesso ripetuto che Bush aveva ordinato operazioni clandestine nel territorio iraniano, per destabilizzare il Paese e per spionaggio; fatto confermato anche da Seymour Hersh. Una certa sospettosità del regime di Teheran si può capire o no?

Del resto, si potrebbe anche notare che Teheran i giornalisti li lascia entrare alle sue frontiere, girare a loro piacimento nel Paese, e magari li arresta dopo. Israele li arresta prima, negando loro il visto o la libertà di movimento.

Non è un’ipotesi. Durante l’annuale assemblea generale dei corrispondenti esteri a Gerusalemme (5), i giornalisti stranieri hanno denunciato di subire interrogatori simili ad angherie al loro arrivo all’aeroporto Ben Gurion, dove sono trattenuti per ore. Altri hanno denunciato la difficoltà a rinnovare i visti, anche se operano nel Paese da anni; alcuni hanno detto di essere stati minacciati di espulsione.

Tutti hanno lamentato di essersi visti negare l’ingresso alla Striscia di Gaza, e ciò «fin da diversi giorni prima che iniziasse l’operazione Piombo colato», col relativo massacro.

Significativa la risposta di Daniel Seaman, il direttore dei rapporti coi media del governo sionista: «I servizi di sicurezza all’aeroporto hanno l’ordine di assicurarsi che i giornalisti stranieri non siano, intenzionalmente o no, usati per spiare».

Ha aggiunto che i giornalisti che scrivono articoli contrari ad Israele «non possono sperare di non pagare un prezzo», insomma confermando che l’unica democrazia del medio oriente rende la vita difficile ai giornalisti in base a come questi informano sullo Stato giudaico (evidentemente, le quinte colonne nei Paesi esteri segnalano i «cattivi»).

Infine, Seaman ha concluso: «Il mio solo dovere è verso lo Stato d’Israele, e non sono disposto a tollerare che si infanghi la reputazione del mio Paese».

Non si può definire anche questa «la sfida di un regime crudele»? Ma Panebianco non ha ritenuto degna la notizia di un fondo sul Corriere, sulla repressione della libertà di stampa in Giuda. Nè quelli di Reporters sans Frontières hanno annunciato alcuno sciopero della fame.




1) Pepe Escobar, «The myth of  Talibanistan», Asia Times, 1 maggio 2009.
2) Maurizio Blondet, «Trattamento Gaza per il Pakistan», Effedieffe, 8 dicembre 2008.
3) Muriel Kane, «John-Bolton: -we-may-have-to-acquiesce-in-a-pakistani-military-takeover», Raw Story, 1 maggio 2009.
4) Angelo Panebianco, «La sfida crudele di un regime», Il Corriere della Sera, 3 maggio 2009.
5) «Harcèlement Et Discrimination Des Journalistes Etrangers En Israël - RSF Ferme Les Yeux, Préfère Cibler L’Iran Et La Corée Du Nord. Un Reporter Israélien Sur Une Chaîne Publique Iranienne», Planète non-violence, 3 maggio 2009.


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