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Partorirai con dolore
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Il bellissimo pezzo di Blondet sulle «femmine e donne», mi spinge ad approfondire la tematica da un altro punto di vista.
Partiamo da Genesi.
La lettura del sacro testo, di profondissima introspezione, ci illumina su alcune verità fondamentali.
La volontà di Dio sulla vocazione intima della creatura «donna» è infatti rivelatrice della sua missione e della sua altissima dignità.
La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, e accanto al cuore per essere amata (W.Shakespeare).
Potremmo aggiungere che la costola è situata vicino al cuore, il centro dell’uomo, la sede della persona: la donna, quindi, appartiene per essenza alla stessa ragion d’essere dell’uomo; si colloca proprio lì, dove l’uomo vive la dimensione interiore della sua totalità.
Questo comporta che non possa esistere uomo senza donna e viceversa: l’uomo ritrova se stesso nella piena corrispondenza di sé nell’aiuto a lui simile e la donna, tratta dall’uomo, vive solo per lui: carne dalla sua carne ed ossa dalle sue ossa.
Non c’è unione più intima che questa reciproca, viscerale e totalizzante appartenenza.

Il peccato originale spezza questa melodiosa armonia dell’essere e precipita nella dispersione l’unità primigenia.
La causa di tale dissolvimento risiede nella sopravvenuta carenza del baricentro portante tale nucleo vitale: lo Spirito divino dimorante nell’essere umano, cacciato letteralmente dall’intimità della persona a causa della trasgressione dei progenitori.
Il peccato lacera la relazione spirituale e coabitante con la Santissima Trinità e precipita nel «non senso» la creatura «uomo» (uomo e donna insieme e relativa discendenza).
Le conseguenze sono devastanti: il rapporto d’amore, meraviglioso ed unico, dell’uomo e della donna, si frantuma e si logora fino alla separazione radicale.
I segni sono evidenti: reciproche accuse, sentimenti di vergogna e paura, apertura dell’occhio del male.

La sentenza inevitabile sarà questa: fatica e sudore per l’uomo, dolore e sofferenza nella donna.
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».
All'uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!» (Genesi 3, 16-19).
Notate bene: la moltiplicazione delle gravidanze è conseguenza del peccato, come lo è il dolore per il parto e l’istinto verso un uomo «dominante».
Cosa può significare (tra le altre cose)?

La donna, con il peccato, non è più tale: diviene «femmina» (moltiplica le gravidanze) e si sottomette ad un uomo che, abbrutito a sua volta, non la tratterà più da «simile», da pari («da ossa dalle ossa»), ma si imporrà su di lei con la forza bruta del «maschio».
Il dolore del parto ha origine dalla effrazione dell’integrità personale: la perdita della verginità non doveva essere prevista nella volontà del Creatore: per amare ed essere amata, la donna deve rendersi parziale (come l’uomo del resto).
Prima del peccato d’origine l’uomo e la donna potevano amare senza disperdersi e senza dover sottomettere il proprio amore alle condizioni del limite corporale.
Gesù e la donazione eucaristica ci rivelano tale altissima chiamata.
Cristo, anche in misura maggiore e non paragonabile rispetto al primo uomo, si dona ed ama, senza dover diminuire la portata del suo amore: è tutto per ognuno.
Ogni individuo che Lo incontra nell’Eucaristia, trova tutto Cristo, non diviso e frammentato.
I santi, a seconda della loro intensità di «cristificazione» vivono tale medesima realtà; questo è il segreto dell’eroica carità, che solo il cristianesimo conosce.
L’amore umano, dopo il peccato, soffre invece questa mutilazione nella sua «capacità di contagio e di donazione»; la rottura dell’integrità verginale ne è un esempio.
Maria santissima non soffrì il dolore del parto, perchè restò sempre vergine.

Sappiamo infatti che il peccato lacera e ferisce la natura umana, ma non può annientarla irrimediabilmente; le capacità buone create da Dio, vengono distorte a fini diversi da quelli voluti eternamente dal Creatore: è il disordine della concupiscenza.
La donna - che è stata fatta per essere tutta dell’uomo, in un abbandono totale della sua persona al marito, chiamato a sua volta a proteggerla, custodirla ed amarla come parte di sé; che è vocato ad essere datore della sua vita per lei - manterrà intatta la propria propensione verso la sua totale realizzazione affettiva, coincidente con la consegna incondizionata della sua persona.
Tale «istinto», descritto dalla sacra Scrittura, rende la donna debole e schiava ad un tempo.
La ricerca spasmodica dell’amore vero ed unico che riempie la vita di senso non cessa mai di inquietare la sua vita: «Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni»
(Ct 1, 7).
Il vagabondaggio dell’anima è infatti segno di questo interiore tormento che le proviene dalla necessità di colmare la propria vocazione eterna: essere amata dall’uomo, amando a sua volta in consegna radicale di tutta la propria persona.

L’essere amata, più che l’amare è proprio della donna.
San Paolo mentre imporrà ai mariti un amore radicale come quello di Cristo, fino al sangue per la sua sposa, chiederà invece alle mogli soltanto di essere rispettose e sottomesse ai mariti, ma non di amarli!
Paradossale?
Si, ma non proprio.
L’apostolo sa benissimo infatti che la donna non può non amare, ma deve saper incanalare questa sua effusione nativa in una ricezione autentica di vera essenza totalizzante: essere come la Chiesa con Cristo, ossia non avere altra ragion d’essere che il marito.
Ma la «femmina» nascosta nelle pieghe della concupiscenza spinge la donna ad essere un magnete improprio della sua medesima femminilità; la vanità, il peccato della donna (mentre la lussuria lo è dell’uomo, e non a caso), farà di lei un centro d’attenzione nevralgico dell’universo; il mondo dovrà ruotare intorno a lei e l’uomo (ogni uomo, nel disordine del peccato; in questo latente desiderio trova ragion d’essere lo svestimento tipico dei periodi estivi: è una carenza affettiva inconscia, che chiede di essere colmata), al quale necessariamente dovrà sottomettere se stessa (perché gli consentirà di avere tutto della sua corporeità, fino a lacerarne l’integrità personale), deve avere «occhi solo per lei» «perché io sono malata d’amore. La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia» (Ct 2, 5-6).
Ma il «maschio», che invece è chiamato ad amare fino a dare la vita, tenderà a fare di questa sua giusta e buona pulsione, una questione di «possesso», di dominio; la conquista di più «femmine»
lo farà, in apparenza, sentire più «maschio», più realizzato («ogni lasciata è persa» per il latin lover di turno).

Questo disordine che viene dal peccato, ci lascia intravedere un rapporto falsato dall’egoismo, dall’affermazione di sé, a scapito dell’altro membro della coppia; in un modo o nell’altro siamo di fronte ad una sorta di occulta infedeltà, che inizia il suo percorso ascendente già dall’intenzione del cuore.
L’adulterio desiderato, di cui parla Gesù, sarà l’incipit gravissimo di un tradimento effettivo anche se non consumato ancora.
Quello che infatti si svende è proprio l’interiorità della persona, chiamata ad essere tutta per l’altro o per l’altra.
Radicalità che non ammette eccezioni: «il mio diletto è per me e io per lui» (Ct 2, 16).
Per la sacra Scrittura non esistono «femmine», ma soltanto «donne».
Gesù utilizzerà tale termine più di una volta: «donna perché piangi?»; «donna, nessuno ti ha condannata?»; «donna, ecco tuo figlio».
Meravigliosa dignità della persona al femminile, la donna, in Cristo ritrova tutto il suo splendore virgineo.

Il movimento femminista, lungi dal rappresentare una conquista per la dignità della donna, è un aspetto della sua peggiore degradazione: l’urlo di possesso del proprio «utero» è indice sintomatico di una «cosificazione esistenziale»: la donna si identifica con una cosa che possiede, dimenticando la sacralità di quello che invece è: santuario della vita.
Un santuario non si ribella a se stesso, pensando di avere una ragion d’essere diversa da quella del culto che gli è proprio; nel momento in cui questo dovesse accadere, avrebbe «oggettivato», appropriandosene, un elemento estraneo alla sua vera essenza.
Il «maschio» e la «femmina» resteranno tali se non lasceranno vivere in sè lo Spirito vivificante, l’unico che davvero consenta di essere unici ed esclusivi oggetti d’amore, l’uno per l’altra; l’unico che potrà trasformare la ferinità maschile in un adulto sentimento d’amore, consegna e dedizione, in spirito di sacrificio.
La donna, rivestita del candore della sua bellezza, potrà così risplendere regina nel suo impero di affettività e di attenzioni, che cerca e che merita.

Le ragazze (le adolescenti in particolare) dovrebbero imparare questo culto per il vero e per il bello, che le salverebbe da tante illusorie esperienze e da tante frequenti e cocenti delusioni; dovrebbero apprendere a vivere della «purezza del cuore», della «castità del corpo», il pudore e la verecondia, per comprendere appieno il valore sacro di quel che vivono e portano in sè.
L’uomo, da parte sua, deve imparare a dominarsi totalmente (non è utopico), offrendo al Signore Gesù ogni pulsione disordinata del cuore, affinché la purifichi e la sublimi in una verità che rende davvero liberi e felici.

Stefano Maria Chiari


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