Fracking: un’altra «bolla» USA?
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«I sentimenti anti-fracking stanno crescendo fra i texani», gongola Russia Today. E ne hanno ben donde, i texani. Sia o no colpa della tecnica di fratturazione per estrarre a viva forza gas dagli scisti bituminosi (come credono gli ecologisti-cospirazionisti), il Texas è stato visitato da ben 16 terremoti negli ultimi tre mesi, il più forte di magnitudine 3,6 nei pressi della cittadina di Azle. «Quell’odore di sostanze chimiche ha preceduto i terremoti», giura Rebecca Williams, residente e messasi subito a capo di un movimento cittadino.

È un bel guaio per gli investitori, ossia la finanza che sullo shale gas ha puntato miliardi di dollari. Tanto più che, causa i piccoli terremoti texani, la Commissione Ambiente del Massachusetts ha approvato una legge che impone una sospensione per 10 anni del fracking sotto il territorio dello Stato, per allarmi legati all’acqua potabile. Per diventare cogente, la proposta deve essere votata dal locale Senato; si possono appena immaginare gli operosi ronzii lobbistici all’opera su quei senatori di Boston.

Questo intoppo rischia di infrangere l’ultimo American Dream rimasto che si venda veramente bene a Wall Street: l’alba dell US-Saudita, del tutto autosufficiente sul piano energetico anzi esportatrice di gas, che così prolungherà la sua durata come ultima superpotenza rimasta. «Mai più la necessità per presidenti americani di allearsi con sceicchi autocratici, lanciare guerre lontane, spedire flotte militari per assicurare le rotte marittime onde tenere aperti i rubinetti del petrolio... la Russia vedrà la sua potenza tramontare quando gli europei troveranno fonti alternative (fra cui promettente) Cipro nel Mediterraneo, Mozambico in Africa e Colombia in Sudamerica che hanno belle riserve di scisti». Non sono parole nostre. Stiamo citando un esaltato articolo dell’americano McClatchy.

Lo stesso sito cita con ferma fede «il rapporto di febbraio di Citigroup, intitolato Energy 2020: Independence Day, secondo cui gli Stati Uniti vedranno il loro ruolo come singola superpotenza globale accresciuto e prolungato». Un rapporto forse non del tutto disinteressato, dato che Citigroup è una megabanca zombie, che dal 2008 è sostenuta da centinaia di miliardi di dollari della Federal Reserve per volontà di Obama, messi a carico del contribuente USA; e tra le forze aeree che la tengono in piedi ben gonfia (come tutto il sistema bancario americano e internazionale, in fondo) c’è il valore degli investimenti nel gas di scisti. E dal balenio di speranze che suscita negli investitori.

Nulla importa al mondo degli «investitori» che prosperano a Wall Street, la possibilità di distruzione profonda dell’ambiente, l’America è vasta e poco abitata, e in fondo tutta la nuova tecnica è coerente con la hubrys che appare intrinseca all’americanismo terminale: in politica estera dove la mera forza ha sostituito ogni diplomazia, la forzatura ogni flessibilità, e in agricoltura con le sementi brevettate che sottraggono la gratuità e la bio-diversità alla produzione degli alimenti «dono di Dio», mettendoci tutti in pericolo, per i profitti di quattro mega-ditte; una realtà psichica apocalittica, che il sito Dedefensa chiama «scatenamento della Materia».

Certo, sarebbe un guaio se Greenpeace, la benemerita ed indipendentissima organizzazione ecologista, dovesse distrarsi dai suoi attacchi alle piattaforme russe nel mare Artico tanto attivamente seguite da BBC e networks americani, per manifestare contro il fracking in USA; ma quello, ritengo, preoccupa meno. Sarebbe solo una piccola tacca sui profitti, un «costo» già contabilizzato (alla voce: «Placare ecologisti»). C’è una prospettiva peggiore. Se l’attenzione eccessiva sul fracking richiamasse l’attenzione sulla dimensione vera, reale e concreta di quell’ultimo American Dream?

Perché mica è una novità, il fracking. È dal 2003 che produttori indipendenti americani hanno cominciato a generare gas da scisti grazie a questa tecnica esplosiva e ad alta pressione. Hanno vantato rendimenti (EUR, Estimeted Ultimate Recovery in sigla) eccezionali, che nessuno ha potuto contestare per il semplice fatto che, essendo una tecnica nuova, non erano disponibili dati di produzione anteriori. Grazie ai rendimenti così auto-certificati, questi produttori indipendenti hanno visto aumentare i valori dei loro attivi – i campi di sfruttamento – accrescersi fantasticamente. Eldorado! Come tante volte avvenuto nella storia americana, la crescita dei «valori» ha attratto i cosiddetti investitori, sempre ghiotti di qualunque «crescita» di qualunque «valore» ; questi hanno riempito di capitali caldi i produttori: fateci ricchi, ragazzi! Forate! I produttori, subito indebitati fino al collo, hanno moltiplicato i foraggi, aumentando enormemente la produzione.

Se e quanto la produzione venisse aumentata in perdita , cioè investendoci più soldi di quanti se ne ricavavano, non importava a nessuno dalle parti di Wall Street, quella Wall Street dove andavano alle stelle i crediti subprime, ossia basati su mutui fatti firmare a debitori insolventi; l’importante era che il valore delle imprese foratrici cresceva e che il denaro pioveva. Anzi, quando la bolla dei sub-prime è scoppiata (lasciandoci tutti in brache di tutti in brache di tela tranne l’1%), nel nuovo business si sono buttate le mega-banche d’affari tipo Goldman Sachs.

No, non in proprio. Come al solito, invitando investitori e risparmiatori creduloni, appena scottati dai subprime, sul nuovo campo da gioco: investite nel gas di scisti! Recuperate le perdite! Rendimenti favolosi, venghino siori e siore!

È incredibile, ma ci ricascano sempre. Del resto gli investitori hanno un bisogno sfrenato e disperato di «investire», specie se sono fondi d’investimento pensionistici americani, che ogni mese devono staccare milioni di pensioni...

Piccolo particolare: nel frattempo i dati sui rendimenti precedenti si sono accumulati, e adesso si dispone di statistiche sul vero rendimento dei campi di scisti: è la metà di quello vantato dai produttori.

La metà.

Ne consegue che le riserve risultano sovrastimate, il tasso di deplezione dei giacimenti molto accorciato, i capitali investiti più grossi di quanto scritto ai bilanci, eccetera.

Dunque, è ben prevedibile il rischio che attende questo ultimo American Dream. E una china già vista più volte:

• Essendo i rendimenti più bassi del previsto, i «valori» relativi al business si deprezzeranno sui «mercati», cosiddetti.

• Gli investitori usciranno in massa dal business.

• Le imprese del settore – sovra-indebitate e con i profitti ulteriormente smagriti dai bassi corsi del gas mondiali) – non avranno più i fondi per i foraggi ulteriori, anzi nemmeno per «servire» i loro debiti.

• Il settore crollerà, manifestandosi per quella che è: un’altra bolla, forse l’ultima e più distruttiva.

Intendiamoci, gli USA produrranno i gas dagli scisti anche in futuro, come il Texas produce ancora greggio coi pozzi: saranno le solite Sorelle ad accaparrarsi il settore, rilevando gli «indipendenti» falliti, e il gas da scisto non sarà che una componente del mix energetico americano; ma molto, molto difficilmente l’asso nella manica che re-industrializzerà l’America, ne prolungherà il dominio, e farà sparire dal commercio la Russia, l’Arabia Saudita e gli altri produttori dalla scena mondiale.

La bolla «shale gas» promette di essere più rovinosa della bolla «sub-prime», perché questa ha un risvolto politico-strategico di cui quella era priva: da cinque anni la politica energetica di Washington è stata concepita sul presupposto di forniture di gas «economiche e abbondanti» (cheap and abundant). Adesso il gas si rivela molto meno «cheap» , essendo prodotto generalmente in perdita da imprese sotto trasfusione di capitali finché possono sovraprodurre infischiandosene delle leggi di mercato. Quanto all’abbondanza, le «proved reserves», ossia le riserve accertate, commercialmente recuperabili, sono sufficienti per 11 anni al ritmo di consumo attuale.

Il guaio per Obama è che ha già spacciato ai concittadini lo slogan «Cento anni di riserve», mettendo insieme tutto: le «probable reserves», le «possible reserves» e le «speculative reserves», ossia le ipotetiche. Dunque, l’implosione della bolla degli scisti rischia di far esplodere la «bolla» politica, quella del potere americano globale gonfiato a dismisura. Da qui le energie e le infusioni con cui la bolla viene gonfiata di aria calda e calde speranze , per ritardare il tragico momento. Che tuttavia si avvicina inesorabile.

Circolano studi precisi che ridimensionano le speranze
. Ne ha parlato persino l’ufficialissimo US Geological Survey, il servizio geologico federale, fatto di veri competenti che non vengono dai mercati finanziari.  Dello scetticismo degli esperti sulla questione, ha educatamente parlato persino il New York Times.

Ciò può spiegare certe accelerazioni della politica americana, cose da fare in fretta prima che la verità venga alla luce del sole: una bella rivoluzione anti-russa in Ucraina («Un pogrom», per Putin) con ampi interventi di euro-deputati in piazza a Kiev – pensate solo se fosse avvenuto il contrario, se fossero apparsi deputati della Duma a dar man forte ai filorussi, cosa avrebbe detto la nostra stampa. (EuroMaidan: une visite non autorisée d'une responsable lituanienne)

La comparsa delle solite Femen seminude che orinano sulla faccia dell’ucraino Yanukovitch



Ma soprattutto, va segnalato l’accentuato interesse del Pentagono per l’Artico, ultimo gran catino petrolifero, che deve assolutamente – pare – contestare alla Russia.

Il capo del Pentgono Chuck Hagel, ha segnalato «gli interessi della sicurezza nazionale USA nell’Artico», comprendenti (parole sue) «temi come la difesa antimissile e l’allerta avanzata, lo spiegamento di mezzi aereo-marittimi per il trasporto strategico via mare, la dissuasione nucleare eccetera»… Linguaggio da guerra fredda, anzi da guerra calda. A che pro, se gli USA traboccassero davvero di gas di scisti? Parole che, in ogni caso, abbiano indotto Mosca a mandare lassù una forza navale della Flotta del Nord ad un giro dimostrativo, una crociera di oltre tremila chilometri che ha toccato le isole della Nuova Siberia, il punto più a Nord mai raggiunto da una flotta bellica. E ad annunciare, per bocca del suo ministro della Difesa, un grande programma di «rafforzamento militare nell’Artico per difendere i suoi interessi nazionali». Fra l’altro, per la protezione delle navi-cisterna a chiglia rinforzata antighiaccio, di cui la Russia conta di costruirne 2 mila da qui al 2030 per il trasporto di idrocarburi dall’Artico.

In questa accelerazione si è situata l’azione dimostrativa di Greenpeace contro la piattaforma russa artica, per far sapere a tutto il mondo che Mosca «inquina», mica come il fracking americano. Guarda la coincidenza.



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