Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (7)
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Settima parte
Mussolini l’eretico

Nel discorso parlamentare del 21 giugno 1921, Mussolini si era così espresso: «… c’è un problema … sul quale richiamo l’attenzione del P.P.I. ed è il problema storico dei rapporti che possono intercorrere non soltanto tra fascisti e Partito Popolare ma tra Italia e Vaticano (…). Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal cattolicesimo …» (1).

Mussolini, nella sua infanzia, sotto la guida della mamma e della nonna, aveva ricevuto un’educazione cattolica. Poi affascinato e conquistato dalle idee rivoluzionarie del padre anarco-socialista era approdato ad un ateismo politico ed intellettuale. Politico ed intellettuale perché, in realtà, il cattolicesimo della sua prima età in qualche modo gli rimase sempre nell’intimo, soffocato, misconosciuto, ma pronto a riemergere, nel segreto del cuore che solo Dio conosce. Ed infatti esso riaffiorò durante gli anni della maturità e, soprattutto, durante quelli della sconfitta politica.

L’opera migliore sulla religiosità e la conversione di Mussolini è stata scritta da Ennio Innocenti ed ad essa rimandiamo i lettori per approfondimenti (2).

Il fascismo ha origini giacobine, mazziniane e socialiste. In esso, sin dall’inizio, confluì, per trovarvi una strutturazione, la magmatica corrente culturale della sinistra interventista, “eretica” rispetto alla casa madre del PSI. Il fascismo era animato, sin dal suo sorgere, nel 1919, da un forte atteggiamento non solo anticlericale, che si manifestava ad esempio in quel punto del programma dei Fasci di combattimento che chiedeva la soppressione, perché privilegio di pochi, di tutte le “mense vescovili”, ma palesemente anticristiano ed ateo.

Mussolini non era da meno. Esule nel Trentino, accolto dal socialista poi interventista Cesare Battisti, Mussolini aveva scritto, a puntate sul giornale socialista “Il Popolo”, uno squallido romanzetto, che oggi definiremmo degno dei rotocalchi scandalistici, e che lui stesso più tardi riconobbe, anche letterariamente, “orribile”, intitolato “Claudia Particella, l’amante del cardinale”. La vicenda, del tentativo letterario mussoliniano, si sviluppava sulle imprese erotiche di un cardinale rinascimentale con il chiaro intento di presentare il clero come la fonte di ogni corruzione umana e, dal momento che l’Italia era sede del Vaticano, dello stesso sentire comune nazionale. Marinetti, coetaneo di Mussolini, nello stesso periodo scriveva discorsi infuocati per la “svaticanizzazione dell’Italia”: qui come si vede tutto il retaggio giacobino, massonico e liberal-risorgimentale tornava anche in movimenti che pur polemizzavano con l’“Italietta liberale”. Mussolini, per mettere in mostra il suo anticattolicesimo, in questo periodo della sua vita si firmava con lo pseudonimo di “Vero Eretico” con riferimento a Giovanni Huss, il fondatore nel XVI secolo del movimento protestante hussita, al quale dedicò anche un’opera “Giovanni Huss il veridico”.

Mussolini, in questa fase, condivideva l’idea, molto comune anche oggi, che il “vero cristianesimo” lo si deve cercare fuori dal dogma e fuori dalla Chiesa e che, di conseguenza, gli eretici ed i pauperistici sono stati nella storia i rappresentati di questo vero cristianesimo che il corrotto potere clericale, alleato con il potere politico ed economico, ha sempre represso. Certamente il “clericalismo”, ossia il vizio di barattare l’appoggio ecclesiastico con favori temporali – un vizio che denota mancanza di fiducia nella Provvidenza e che è stato spesso denunciato, sin dai tempi di Dante, innanzitutto dai cattolici, anche da prelati, del tutto però fedeli a Cristo ed alla Chiesa –, è sempre stato una “piaga” di Santa Romana Chiesa, sicché più di una volta le generazioni successive del clero e del laicato hanno dovuto rimediare agli errori di quelle precedenti (3). Ma il clericalismo non è né il Cattolicesimo né la Chiesa.

Il 24 dicembre 1910, Mussolini scrive: «Il Natale cattolico è una mistificazione. Cristo è morto e la su dottrina agonizza. Ma v’è un Cristo vivo, lo schiavo, che attraverso i millenni ha portato e porta la croce della miseria. Questo schiavo non può celebrare il Natale cristiano. Vive nella preparazione e nell’attesa. Aspetta l’Anticristo, prepara la rivoluzione. Il Natale umano verrà» (4).

Un chiaro linguaggio messianicamente rivoluzionario e persino gioachimita, nel senso che fu proprio anche di un Lèon Bloy, ma innervato di niccianesimo: il Mussolini socialista aveva scoperto, per la mediazione del sindacalismo rivoluzionario di George Sorel, le opere di Nietzsche. In questa prospettiva gioachimita e nicciana l’Anticristo è simbolo del radioso avvenire dell’umanità. Eppure, come nota l’Innocenti, l’insistenza mussoliniana sull’identificazione dell’uomo sofferente con Cristo era tuttavia un potenziale veicolo, se provvidenzialmente lasciato operare, di ritorno alla fede.

Sempre in quegli anni, del primo anteguerra, Mussolini, mano a mano che iniziava ad estraniarsi dal socialismo ufficiale, prendeva, con feroce atteggiamento polemico, le distanze dalla massoneria che definiva «istituzione anacronistica … (alla quale) i socialisti non possono aderir(e)(perché si tratta di) … una universale associazione di camorristi». Giunse persino ad accusare pubblicamente i dirigenti socialisti di «amplessi infecondi» con la massoneria e di stare «nelle logge a contatto immediato e solidale con banchieri, funzionari, giornalisti, alti poliziotti della borghesia» (5).

Il 22 giugno 1912 sul quotidiano all’epoca da lui diretto, “La Lotta di Classe”, scriveva: «Massoneria e socialismo sono assolutamente incompatibili ed è tempo di troncare questo deplorevole equivoco» (6). Tuttavia ciò non gli impedì, nel 1914, di assistere come giornalista al congresso massonico di Napoli appositamente indetto per alimentare, in nome degli ideali del Risorgimento liberal-massonico, il clima interventista ed anti-asburgico che iniziava a manifestarsi nel Paese.

Il Mussolini irredentista, in rotta con il socialismo ufficiale, persiste nella sua polemica anticristiana e, nel primo anniversario della morte di Cesare Battisti, confondendo universalismo cristiano ed internazionalismo socialista (inseguendo un simile ragionamento, oggi Mussolini avrebbe confuso, come del resto fanno moltissimi cristiani e in pratica tutti i neopagani, l’universalismo cristiano con il globalismo liberista), scrive:

«Il cristianesimo che ha visto in questa guerra il fallimento del precetto evangelico della fraternità fra tutti gli uomini, non ha dato al mondo nessuno dei suoi adepti che abbia avuto il coraggio di un gesto di negazione e di rivolta. Il socialismo meno ancora. Queste idee non hanno spinto nessuno al sacrificio. Hanno subito la tempesta in istato di rassegnazione e di impotenza. (…). Una idea è al tramonto, quando non trova più nessuno capace di difenderla anche a prezzo della vita. Cesare Battisti non è morto in nome del cristianesimo o in nome del socialismo qual è comunemente inteso e praticato: è morto in nome della Patria» (7).

Mussolini il “cristianista”

Il programma dei Fasci di combattimento, che vide la luce nella fatidica riunione (a dire il vero alquanto poco numerosa) del 23 marzo 1919 a Milano in piazza San Sepolcro, riprendeva tutti i motivi della polemica anticlericale ed anticristiana del socialismo interventista aggiungendovi quelli tratti dal futurismo di Marinetti. Quel programma, infatti, prevedeva la confisca del beni ecclesiali. Eppure, il realismo politico di Mussolini lo aveva indotto, già il 24 gennaio 1919 ossia prima della nascita dei Fasci, a scrivere: «Nessuno in Italia, nemmeno noi che passiamo per giacobini, pensa di attentare alla libertà della Chiesa» (8). Mussolini, del resto, dava però già mostra di ritenere buffonate i propositi di Marinetti, ereditati dall’anima mazziniana e giacobina del Risorgimento, di quel Risorgimento che per Marinetti era solo “anticaglia” cui opporre la “Nuova Italia”, di “svaticanizzare” la nazione, cacciando Pietro da Roma. Più tardi anche il fondatore del futurismo subirà una evoluzione spirituale che, nel 1944, come testimonia il suo “Aereopoema di Cristo”, lo riconciliò con Gesù e la Chiesa.

Il percorso di avvicinamento di Mussolini verso il Cattolicesimo era in atto già prima del 1922 anche se, al momento, solo per evidenti motivi strumentali. Il 13 giugno 1920 il futuro duce prendeva pubblicamente le distanze dall’anticlericalismo affermando che: «non intendiamo fare dell’anticlericalesimo idiota, vecchio stile» ed il successivo 20 agosto: «Non sono anticlericale di professione … meno ancora voglio che siamo anticattolici …» (9). Nel discorso parlamentare, già ricordato, del giugno 1921, affermò – per solleticare il “clericalismo” della gerarchia cui faceva intravvedere, a fronte della rinunzia ai sogni temporalisti su Roma, aiuti materiali – che lui si era certamente abbeverato, come molti, alla letteratura carducciana, quella della “vecchia vaticana lupa cruenta” e del “pontefice fosco”, ma di ritenere ora tutto ciò assolutamente anacronistico (10).

Il 7 settembre 1920, in un altro discorso a Montecitorio, aggiungeva: «La religione è un fenomeno collettivo e fatto storico, psicologico e morale della più alta importanza. La religione dominante in Italia è il cattolicesimo. I fascisti non possono e non debbono fare dell’anticattolicesimo. Essi, lo sappiano o no, se ne rendano conto o no, sono imbevuti di dottrina spiritualistica … la fatica di combattere la manifestazione religiosa e di bandire Dio dall’universo è grottesca e inane. Noi siamo andati oltre queste posizioni filosofiche di trent’anni fa, quando imperava la pseudofilosofia del positivismo» (11).

L’approccio mussoliniano al cattolicesimo, come si vede, è ancora tattico, politico. Per Mussolini la religione riveste importanza solo perché fatto storico, di identità nazionale. In Italia la religione è cattolica, quindi bisogna essere “cattolici”, pur essendo filosoficamente “spiritualisti”, ossia “idealisti”. Se la religione dominante fosse stato il buddismo, i fascisti sarebbero stati buddisti. E’, questa del Mussolini del 1920, una posizione da teocon, da “cristianista”, per usare una terminologia attuale. Tuttavia, per quanto inserita in un quadro concettualmente strumentale, nell’affermazione mussoliniana dell’inutilità dello sforzo umano di cancellare Dio dall’orizzonte dell’uomo può già scorgersi una apertura di sincerità.

La conversione di Mussolini

In effetti negli anni successivi Mussolini mostra una più meditata attenzione verso il Cattolicesimo nella quale all’interesse politico si va mescolando un sincero interesse esistenziale. Nel 1924 spiega il suo inginocchiarsi davanti ad un altare a Vicenza, in occasione della inaugurazione del Piazzale della Vittoria, come un gesto che non denotava solo ossequio alla religione dello Stato ma un intimo convincimento determinato dalla consapevolezza che «… un popolo non può divenire grande e potente … se non si accosta alla religione e non la considera come un elemento essenziale della sua vita privata e pubblica» (12). Dove l’accenno è certamente ancora alla “grandezza” nazionale cui la religione è essenziale ma anche è reclamata legittima, a differenza dell’indifferentismo liberale che aveva guidato il Risorgimento, la presenza pubblica, e non solo privata, delle fede.

Mano a mano che le trattative che avrebbero portato alla Conciliazione andavano avanti, in Mussolini affiora una sensibilità, che è difficile dire solo strumentale, verso il “mistero” insito nella storia che aveva fatto incontrare Roma con Cristo.

Nel 1924, celebrando le sorti di Roma, in occasione del conferimento che gli fu elargito della cittadinanza onoraria, Mussolini si esibì in un ragionamento “storico-teologico” non privo di una certa profondità:

«Sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita (…). Roma! La semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi … sovente mi accadde di meditare sul mistero di Roma, sul mistero della continuità di Roma. Mistero è l’origine. La cosiddetta critica storica può industriarsi a sfrondare la leggenda ma sempre una zona d’ombra rimane, dove la leggenda … torna superbamente a fiorire. La critica non può dirci per quali doti segrete, o per quale disegno di una intelligenza suprema, un piccolo popolo di contadini e di pastori poté grado a grado assurgere a potenza imperiale e tramutare, nel corso di pochi secoli, l’oscuro villaggio di capanne sulle rive del Tevere in una città gigantesca che contava i suoi cittadini a milioni e dominava il mondo con le sue leggi» (13).

Qui Mussolini avrebbe potuto anche fare un paragone, se in lui la fede fosse già attecchita e giunta ad un grado di maturazione profonda. Nell’antichità, mentre il popolo di contadini e pastori accampato sulle rive del Tevere si apprestava, secondo imperscrutabili disegni superiori, a fondare un impero universale rimasto unico nel suo genere prefigurativo di una universalità trascendente ancora di là dal comparire compiutamente sulla scena della storia, un altro popolo, anch’esso di pastori nomadi e contadini, stanziatosi nella fascia di terra compresa tra Mediterraneo e Giordano, veniva a maturare il convincimento di essere depositario di una Rivelazione che lo chiamava ad una missione universale, quella di portare a tutte le genti il Dio unico.

Ed in effetti è inevitabile lo scorgere, nell’incontro tra mondo ellenistico-romano e fede di Israele, un disegno che ha del provvidenziale, benché la missione universale del popolo ebreo non si è adempiuta affatto secondo le credenze, meramente umane, che nel frattempo si erano formate nel suo seno – e che avrebbero trovato continuazione sotto forma di aspirazione all’egemonia spirituale mondiale anche nel giudaismo postbiblico, portando spesso gli ebrei a prendere, in termini di messianismo, lucciole per lanterne fino al più recente equivoco di identificare il Messia con il popolo d’Israele medesimo, e sionisticamente con lo Stato d’Israele – ma si è adempiuta in modo imprevisto dai “dottori della Legge”, tuttavia profeticamente annunciato, in Cristo, Dio-Uomo, il Quale ha aperto l’Alleanza con il Dio, rivelatosi ad Abramo, a tutte le genti senza distinzioni.

Mussolini, nelle sue considerazioni, non giunge a tanto ma, sintomatico del farsi strada nel suo intimo di una fede sincera, sente che nella storia umana è presente il mistero e, a quanto aveva detto in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria romana, aggiunse: «Altro elemento di mistero, nella storia di Roma, la tragedia di Cristo, che a Roma trova la sua consacrazione, nuovamente universale e imperiale» (14).

Ennio Innocenti si chiede, in proposito, se, in questa fase, Gesù che era entrato solo nell’idea mussoliniana di Roma oppure se Egli era già nel cuore del duce del fascismo. Secondo l’Innocenti la risposta dovrebbe essere a favore dell’ultima delle due ipotesi, perché, sottolinea, proprio nello stesso periodo prestando aiuto, per opere di carattere caritativo, a padre Semeria, un religioso barnabita impegnato in opere di misericordia, Mussolini scriveva: «La bontà non può essere scettica, dev’essere credente».

Tuttavia, pur riconoscendo che la grazia fosse in lui certamente già all’opera, riteniamo che, nel 1924, non siamo ancora ad una convinta adesione di Mussolini alla fede cristiana. Infatti, egli continua a risolvere il “mistero storico” in termini che risentono ancora troppo dell’atmosfera storicistica di un Renan.

Nel discorso effettuato, il 14 maggio 1929, durante l’acceso dibattito parlamentare circa i Patti Lateranensi – si ricordi che non tutti i parlamentari fascisti, ad iniziare da Giovanni Gentile, erano favorevoli alla Conciliazione, che anzi criticavano ferocemente, e che in senato sedevano vecchi liberali come Benedetto Croce altrettanto critici e severi verso il Concordato – Mussolini, onde fugare tali critiche, in particolare quelle di parte fascista intransigente, riaffermò il primato assoluto dello Stato, “etico” ma “laico”, su ogni fede religiosa e che quanto, con il Concordato, il regime riconosceva alla Chiesa era solo l’esercizio della sua opera in ambito strettamente religioso, nient’affatto politico.

Qui c’erano già tutti i prodromi del conflitto che di lì a poco sarebbe scoppiato tra il regime e la Chiesa, a proposito dell’interpretazione da dare ai Patti concordatari circa l’Azione Cattolica che da parte fascista era accusata di fare politica nell’educazione dei giovani sotto mentite spoglie religiose (ed in effetti nell’Azione Cattolica, in quegli anni, sotto la guida di Montini, lettore del secondo Maritain, si andavano formando i quadri della futura democrazia cristiana, in particolare di quella di sinistra).

Nel dibattito parlamentare relativo alla Conciliazione, Mussolini, per fugare ogni dubbio sulla sua “laicità”, giungeva a fare affermazioni storiche alquanto azzardate e spiegabili solo con reminiscenze renaniane: «Se il cristianesimo fosse rimasto nella Palestina e non fosse venuto a Roma, molto probabilmente sarebbe stato una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato, come ad esempio quelle degli Esseni e dei Terapeuti; e molto probabilmente si sarebbe spento, senza lasciare traccia di sé».

Stando alla testimonianza della sorella Edvige, raccolta nelle sue memorie documentate, in realtà, in quell’occasione, Mussolini dissimulava, innanzitutto con sé stesso, un cambiamento, nel suo intimo verso il Cristianesimo, che egli però già avvertiva ma non ancora ammetteva apertamente. Ora, ogni storico sa che delle testimonianze e della memorialistica è sempre necessario diffidare. Non è possibile storicamente accreditare acriticamente certo genere di documentazione. Però sarebbe un errore eguale e contrario, per lo storico, voler negare ad essa ogni attendibilità. Ecco perché, pur dichiarando che è necessario prendere la testimonianza di Edvige Mussolini con ogni possibile prudenza e cautela, riteniamo comunque interessante riportarla:

«Molti anni dopo … nel tempo della Repubblica Sociale, fra i ricordi cui più volentieri Mussolini tornava … i più frequenti … riguardavano l’evento del 1929, la Conciliazione con la Santa Sede. Egli ricordava che in quell’occasione … un coro di laudatores aveva inneggiato al Capo del Governo, al Duce del Fascismo (…). “Quei laudatores – diceva Mussolini ricordando – trascuravano di guardare quanto io fossi stato conciliato alla Chiesa e ai suoi misteri, e anche alla sua liturgia, e quanto io ne fossi sedotto. (…) Penso davvero che allora non mi rendessi pieno conto di quello che accadeva in me. Volevo nientemeno dimostrare che, nella formazione del Cristianesimo, Roma era stata più importante del Vangelo; o, più modestamente, che in Roma il Cristianesimo aveva trovato i presupposti fondamentali, gli impulsi supremi al suo splendido trionfo: e mi avrà spinto il subconscio a fare, come feci, di Roma in quel tempo un quadro squallido e orrendo, con le famiglie consolari stanche, grasse e sterili e col brulicante formicaio dell’umanità levantina nel sottosuolo; mi avrà spinto il subconscio ad affermare con un certo sussiego che il Cristianesimo nei primi tre secoli fu a Roma la religione di una minoranza mal conosciuta, dapprima,e mal tollerata, e finalmente nonché intermittentemente perseguitata dagli Imperatori, così da rendere lo stesso incredibile, assurda, la mia tesi che in quella Roma finita e feroce la miserabile minoranza cristiana avesse trovato il lievito per crescere a religione e Chiesa dominante. Quel lievito la minoranza cristiana lo recava con sé. Quando pronunciai il mio discorso alla Camera avevo da poco firmato i Patti del Laterano, e da tale circostanza veniva forse al mio animo l’oscuro fermento che ho detto, sia pure sotto la forma dell’invidia. Infatti in quei prelati coi quali ero stato a contatto, così soavi e solenni e anche ipocriti, di una superiore ipocrisia, c’erano pure ben presenti, operanti, vorrei dire visibili, le figure dei pescatori e degli artigiani di Palestina e l’immagine della rivoluzione universale da essi iniziata. Questo era il miracolo … ”». (15)

Nel dibattito parlamentare Mussolini sapeva bene che doveva affrontare alle radici l’anticlericalismo originario del fascismo e che, in Senato, i cui membri continuavano ad essere di nomina regia, sedevano parecchi massoni. Nino Tripodi ricorda, comunque, che, riaffermato, per placare le critiche, il carattere laico e risorgimentale del regime, nella replica parlamentare del 23 maggio 1929, Mussolini cambiò parzialmente il tono usato una settimana prima, forse questa volta per accontentare l’opinione pubblica cattolica ed i “catto-fascisti”, e mostrò persino di conoscere, citandolo, il primo Maritain, quello di “Primato dello spirituale” (16).

È umanamente difficile pensare che il Mussolini dell’apoteosi, quello degli anni ’30 mitizzato dagli italiani e nel pieno del suo momento di maggior potere e consenso, quindi quello che stava tentando la radicalizzazione del regime per trasformarlo in un regime pienamente totalitario, da meramente autoritario di massa che era fino ad allora stato, e che pertanto era più fortemente tentato dal prometeico orgoglio insito, a causa del peccato, nel cuore umano, fino a ritenersi egli stesso infallibile nelle sue decisioni politiche, potesse, nello stesso momento storico, percorrere nell’intimo, magari misconoscendolo persino a sé stesso, un itinerario che lo stava gradualmente avvicinando alla fede cristiana. Tuttavia, come ben sanno i direttori spirituali di anime, la Grazia sovrabbonda dove un tempo abbondava il peccato e che Essa opera, silenziosamente, nelle più intime fibre dell’anima spesso senza neanche che l’uomo se ne accorga per poi all’improvviso presentare i frutti di un sapiente lavoro proponendo all’essere umano la scelta decisiva, contro o a favore di Dio.

Ora, appunto, solo Dio sa come andarono e come stanno le cose. Tuttavia ci sono inequivocabili testimonianze circa un comportamento di Mussolini che sarebbe inspiegabile se non si ammette una sua conversione. Come spesso accade la conversione cosciente matura nei momenti tragici e difficili della vita dell’uomo. La “pedagogia” misteriosa di Dio è tale che dal dolore Egli sa trarre l’avvicinamento alla fede e con essa alla speranza eterna. Così, sembra, sia accaduto anche a Mussolini, dopo il 25 luglio 1943, durante le lunghe settimane della sua prigionia, prima della liberazione a Campo Imperatore.

In cattività a Ponza, Mussolini riuscì a far avere un biglietto, con sue notizie, alla moglie Rachele, la quale con lo stesso emissario gli fece arrivare, insieme a del denaro, ad un po’ di biancheria e ad una foto del figlio Bruno, alcuni libri tra i quali quel grande classico degli studi storici su Gesù che è “Vita di Gesù Cristo” dell’abate Giuseppe Ricciotti (17). Il 5 agosto 1943 Mussolini scrive una lettera al parroco di Ponza, don Luigi Maria Dies, allegandogli la copia del libro del Ricciotti che la moglie Rachele gli aveva fatto pervenire.

Questo il testo della lettera: «Ponza, 5 agosto 1943. Molto Reverendo, sabato 7 ricorre il secondo annuale della morte di mio figlio Bruno, caduto nel cielo di Pisa. Vi prego di celebrare una Messa in suffragio della sua anima. Vi accludo mille lire di cui disporrete nel modo più conveniente. Desidero farvi dono del libro di Giuseppe Ricciotti, che ho finito di leggere in questi giorni: Vita di Gesù Cristo. E’ un libro esaltante che si legge veramente tutto d’un fiato. E’ un libro dove scienza storica, religione, poesia sono fusi mirabilmente insieme. Coll’opera del Ricciotti, l’Italia raggiunge, forse, un altro primato. Vi mando il mio cordiale saluto. Mussolini» (18).

Più tardi lo stesso Mussolini, ne “I pensieri pontini e sardi”, scritti durante i mesi della RSI, ricordò: «Due libri mi hanno molto interessato in questi ultimi tempi: la “Vita di Gesù Cristo” di G. Ricciotti e “Giacomo Leopardi” di Saponaro. Anche Leopardi è stato un po’ crocifisso!» (19).

Il parroco di Ponza, don Dies, nel dopoguerra testimoniò: «Alla fine della lettura (del libro del Ricciotti, nda) sentì il bisogno di rivolgersi al Sacerdote, al custode della Fede. Avrebbe voluto parlarmi. La crisi dello spirito era fortissima. Lo seppi. Sollecitai il Colonnello dei Carabinieri al quale avevo chiesto di far visita al relegato, ma non mi fu concesso» (20).

La domanda che è necessario porsi – e che l’Innocenti dalla cui opera stiamo traendo si pone – è perché mai Mussolini donò il libro del Ricciotti al parroco di Ponza. Bastava solo fargli sapere di aver trovato “esaltante” la sua lettura. Don Dies ha raccontato che nella copia ricevuta da Mussolini vi erano poche, ma significative, sottolineature e che tra queste quella che appariva più rimarchevole si trovava a pagina 561 dove era descritta la cattura di Gesù nel Getsemani e dove Mussolini aveva sottolineato la frase “E Gesù uscì solo, non gli era dappresso neppure un amico”. Il duce aveva voluto far sapere al parroco di Ponza che egli identificava la sua personale recente vicenda, il tradimento dei suoi e del re, con la vicenda di Cristo.

Si potrà dire che il momento di difficoltà psicologica vissuto da Mussolini basta da solo a spiegare l’avvenimento. Ma chi può dire per quali vie e con quali mezzi la Grazia di Dio – di quel Dio al Quale basta un sospiro di pentimento nell’ultimo istante di vita per salvare un uomo per l’eternità – opera nel cuore dell’uomo? Escludere, a priori, questo aspetto della questione con il pretesto che il metodo storico non ammette certe indagini è rendere un cattivissimo servizio alla stessa ricerca storica.

Giustamente Ennio Innocenti commenta:

«Non appaia singolare l’immedesimazione che Mussolini fa di sé con Cristo. Anche Tommaso Moro, già cancelliere d’Inghilterra con Enrico VIII, dopo essere stato rinchiuso nella Torre di Londra per essersi opposto al divorzio del Re da Caterina d’Aragona e, soprattutto, alla rottura scismatica con il Papa, meditò sul passo del Vangelo di Marco che descrive la cattura di Cristo nel Getsemani. Nel suo “De Tristitia Christi”, redatto in cella, mentre attendeva l’esecuzione capitale, egli commentò:“… dopo che tutti gli apostoli erano fuggiti, dopo che il ragazzo, afferrato, ma non catturato, si salvò per la sua agile nudità … solo allora furono per la prima volta messe la mani addosso a Gesù”. Nello scritto Moro si soffermava molto sulla figura dell’innominato ragazzo, rimasto accanto a Gesù, quando quelli che gli si erano proclamati più fedeli avevano già abbandonato il campo: evidentemente lo aiutava a sopportare la sua solitudine, misurando quella del Cristo, dopo l’impatto che aveva fatto fuggire persino i più intimi» (21).

Con questo si vuol dire che, al di là del momento di difficoltà psicologica, ed anzi forse proprio per questo, l’identificazione di sé con Cristo, la propria personale “imitazione di Cristo”, è sicuro indizio di conversione o di itinerario alla conversione. Siamo più che d’accordo. Tanto più che dalla prigionia di Ponza fino a Piazzale Loreto tutta una serie di altri indizi circa la conversione di Mussolini sono stati raccolti dall’Innocenti, ad iniziare dalle testimonianze di diversi sacerdoti che assicurano che il duce del fascismo, su sua richiesta poco prima del 25 aprile, è morto confessato e comunicato.

Del resto la conversione di Mussolini traspare anche da certi suoi atteggiamenti nei mesi della RSI. E’ vero che egli anche in precedenza si dimostrò capace di gesti di generosità verso gli avversari ma è altrettanto vero che sapeva anche essere cinico ed interessato quando voleva o quando dalla generosità intendeva trarre benefici politici. Nei mesi successivi alla conversione invece Mussolini cercò di adoperarsi verso tutti in modo confacente con la misericordia cristiana. E se è vero che non riuscì a salvare gli imputati del processo di Verona, tra cui il genero Galeazzo Ciano, tanto erano forti le implicazioni politiche e simboliche del caso e tanto erano forti le pressioni dei fascisti radicali, in cerca di vendetta, e dei tedeschi, è altrettanto vero che non ci fu occasione – dal suo intervento in favore di Nenni alle sue azioni a tutela di ebrei che gli venivano “raccomandati” fino alla stessa formazione di un governo fascista repubblicano che, come afferma De Felice, uno stanco Mussolini, il quale dopo Campo Imperatore avrebbe voluto solo ritirarsi a vita privata a Rocca delle Caminate, fu costretto a mettere in piedi quale scudo difensivo per l’Italia dalla vendetta nazista – nella quale Mussolini non si adoperasse per placare la ferocia della guerra civile.

Una scelta condivisa

Ma Mussolini non fu l’unico tra gli esponenti del regime fascista a convertirsi. Già abbiamo accennato a Marinetti. Lo spazio non ci consente che di ricordarne uno solo, per la sua grande e riconosciuta, anche in partibus infidelium, caratura di uomo di cultura, che con le sue riviste allevò l’intera generazione di quei giovani intellettuali fascisti, molti dei quali nel dopoguerra, per coerenza antiborghese maturata grazie al fascismo, diventarono comunisti e che egli difendeva, con l’appoggio dello stesso Mussolini, il quale sperava, negli anni trenta, di vedere uscire da quella gioventù, desiderosa di tornare alle origini socialiste del fascismo, l’auspicato “uomo nuovo fascista”.

Parliamo di Giuseppe Bottai, il più a sinistra dei gerarchi del regime, l’uomo del “corporativismo integrale” che avrebbe voluto democratizzare il sindacalismo fascista, mediante elezioni dal basso, ed introdurlo nelle fabbriche in forme cogestionarie o anche autogestionarie.

A Bottai si rimprovera la sua troppo accondiscende arrendevolezza, quale ministro delle pubblica istruzione, all’infamia delle leggi razziali, ma si dimentica quanto egli poi fece, privatamente, per difendere ed aiutare, con la collaborazione di Giovanni Gentile, note personalità ebraiche della cultura italiana.

Bottai era nato in una famiglia di mazziniani ed atei (sarebbe meglio dire, mazzinianamente, di “panteisti”). Educato all’idea di una “nazione sociale”, secondo la tradizione della sinistra nazionale mazziniana, era approdato, nel primo dopoguerra, al fascismo per stringente coerenza con queste sue idee. In un saggio pubblicato, anni fa, dalla storica Stefania Boscato sulla rivista “Studium” (22), la vicenda personale, politica ed esistenziale di Bottai è stata ricostruita con particolare attenzione al suo riavvicinamento alla Chiesa cattolica.

Da ministro del regime egli si era prefissato l’obiettivo di formare una classe dirigente “integralmente fascista” allo scopo di assicurare una continuità al fascismo che fosse anche un recupero delle più genuine radici sociali dell’ideologia fascista. Ma, inseguendo questo suo sogno politico, poco alla volta, Bottai si ritrovò, anche lui inizialmente in una prospettiva soltanto o principalmente politica, a guardare con attenzione sincera alla Chiesa. Già nel 1922 scriveva che la Chiesa era «un fattore della vita nazionale non trascurabile da parte di chi della vita nazionale voglia farsi rigeneratore». Il linguaggio, “rigeneratore”, è evidentemente ancora mazziniano, giacobino, messianico secolare. Eppure, dopo aver attraversato le fasi dell’arditismo, del futurismo e dell’idealismo gentiliano, anche Bottai un po’ alla volta trasformò questa attenzione politica in qualcosa di più, fino alla, nel suo caso dichiarata apertamente, conversione.

L’incontro che gli aprì la via alla riconsiderazione del Cattolicesimo era già avvenuto nel corso della prima guerra mondiale ed era stato quello con un sacerdote calabrese, don Gaetano Mauro, della cui amicizia Bottai non volle mai privarsi anche in seguito. Tuttavia la conversione fu definitivamente favorita dall’incontro con un altro sacerdote nonché grande esponente della cultura italiana del tempo, che nel dopoguerra sarebbe stato, da cattolico, l’interlocutore di tutta l’intellighenzia di sinistra: don Giuseppe De Luca.

Bottai chiamò don De Luca a collaborare alla sua rivista “Critica fascista” insieme ad altri cattolici tra i quali anche il modernista e scomunicato Romolo Murri il quale, anche per questa via, morì, sì fascista, ma anche riconciliato, sebbene solo in punto di morte e senza formali ossia solenni e pubbliche ritrattazioni, con la Chiesa.

Ricorda, in proposito, l’Airò che:

«Proprio su “Critica fascista” nei mesi precedenti il Concordato, si svolse “una seria discussione” sul tema dei rapporti tra fascismo e cattolicesimo. La rivista ospitò anche un intervento di Julius Evola nel quale si affermava che “il fascismo stesso doveva farsi Chiesa attraverso la “restaurazione dello Stato” provocando l’infuocata reazione de “L’Osservatore romano” (…). L’attenzione alla Chiesa e al mondo cattolico … diventò effettiva collaborazione, pur con non pochi distinguo, quando Bottai divenne ministro dell’Educazione Nazionale. (…). Bottai si sforzò di ritagliarsi degli spazi di autonomia riaffermando “la supremazia pedagogica della scuola sul partito”. Di qui il notevole consenso espresso da tutto il mondo cattolico. Consenso che andò anche al modo con il quale il ministro affrontò il tema della famiglia. Paradossalmente, proprio questa strategia di Bottai, tesa ad un concreto inserimento del cattolicesimo e dei suoi valori nel fascismo, consentì al mondo cattolico “di porre le basi di un’egemonia culturale realizzatasi poi solo con il dopoguerra”. (…). Con la guerra, poi, il suo rapporto personale con il Duce (che era stato per certi versi ed in certi momenti di “adorazione, nda) s’incrinò. La sua strategia di cattolico sempre più convinto e sempre meno fascista, guardava già al dopo Mussolini. “Di fronte alla catastrofe la Chiesa rappresentava l’unica struttura in grado di tenere unito il Paese”. Finiva un regime nel quale aveva creduto. Si completava il suo travagliato e sincero percorso verso la fede» (23).

Due ultime considerazione devono essere aggiunte alla ricostruzione dell’itinerario di Bottai verso la fede.

Innanzitutto, quel che Bottai apprezzò massimamente in don Giuseppe De Luca fu la sua convinta critica “antimoderna” alla borghesia intesa come classe della modernità atea ed antipopolare. Questo antimodernismo che ben si accoppiava con certe suggestioni fasciste sospese tra tradizionalismo e rivoluzionarismo, tra romanità atavica e futurismo dissacrante, tra “strapaese” e “stracittà” – tutte anime, in apparenza contraddittorie, che vissero in seno al fascismo regime ed alla sua cultura movimentista – avrebbe reso possibile a molti dei giovani allevati nelle riviste di Bottai – non solo “Critica fascista” ma anche “Primato” – di passare, mediante l’antiborghesismo antimoderno, all’antiborghesismo di sinistra fino ad approdare al comunismo visto come continuazione più radicale della stessa lotta alla borghesia ingaggiata dal fascismo ma con troppa prudenza tattica.

In secondo luogo, è emblematico l’incidente tra la rivista di Bottai e l’Osservatore romano a seguito dell’articolo di Julius Evola. Oltre a denotare che il tradizionalista gnostico Evola, nonostante tutto il suo tradizionalismo spurio, ma a ben rifletterci – date le connessioni che segretamente legano la gnosi spuria antica di tipo mistico alla gnosi spuria moderna di tipo politico – proprio per questo, invocava uno Stato totalitario in forma di religione civile immanente, ossia chiedeva che il fascismo manifestasse la propria vera natura di religione politica alternativa e concorrente al Cattolicesimo, quella polemica degli anni trenta ci consente di passare all’esame delle cause che, nonostante le conversioni dei suoi esponenti e tutte le possibili convergenze che pur all’epoca si registrarono, non hanno alla fine consentito il “battesimo” del fascismo, né come regime né come movimento.

Quelle cause, infatti, sono tutte compendiate, appunto, nella natura di religione politica, di ascendenze giacobine, del fascismo, con tanto di liturgie di massa parareligiose, che lo ponevano – e si vide chiaramente, subito dopo la Conciliazione, con lo scontro sull’Azione Cattolica – in una inevitabile rotta di collisione con la Chiesa.

Nonostante che, come vedremo, negli anni trenta, ossia negli stessi anni nei quali la sua caratteristica di religione politica andava viepiù accentuandosi anche in conseguenza dell’auspicata “seconda fase della Rivoluzione” che avrebbe dovuto radicalizzare lo scontro contro le forze conservatrici fiancheggiatrici, un esito diverso del fascismo era all’epoca possibile e, dal momento che non esiste alcuna ragione immanente alla storia e qualsiasi evento o fenomeno storico è sempre aperto a tutti i suoi potenziali esiti o conseguenze, concretamente attuabile.

Luigi Copertino


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1
) Cfr. B. Mussolini discorso parlamentare del 21.06.1921 ora in T. Buron – P. Gauchon “I Fascismi”, akropolis, Napoli, 1984, p. 40. Nello stesso discorso, rivolto ai popolari, Mussolini aveva anche affermato: «Siamo d’accordo con i popolari per ciò che concerne la libertà di studio; siamo molto vicini alle loro posizioni circa il problema agrario, per il quale crediamo che, là dove esiste la piccola proprietà è inutile sabotarla, che dove ciò è possibile si deve crearla e che dove non si deve crearla perché sarebbe antiproducente, allora si possono adottare forme diverse, senza escludere la cooperazione più o meno collettivista. Siamo d’accordo anche sul decentramento amministrativo ma con le solite riserve; che non si parli di federalismo o di autonomismo, perché da un federalismo provinciale, poco a poco in una catena senza fine, l’Italia tornerebbe ad essere quella di cento anni fa».
2
) Cfr. Ennio Innocenti, “La conversione religiosa di Benito Mussolini”, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2001. L’autore, mediante le testimonianze di fra Ginepro e di altri cappellani militari dell’esercito della RSI, porta la prova storica che Mussolini si è confessato e comunicato più volte, anche se non pubblicamente, durante gli ultimi due anni di vita. Segno dell’esito di un lungo processo di riavvicinamento a Dio, che l’autore cerca di ricostruire anche attraverso il senso di alcuni atti della vita politica del duce. Un processo iniziato, forse, strumentalmente in vista della Conciliazione ma che poi lo ha avviato un po’ alla volta verso una sincera, anche se non pubblicamente manifesta, conversione. Tra i diversi documenti probanti di questo itinerario spirituale vi è anche un autografo, del 2 giugno 1924, dello stesso Mussolini a san Pio da Pietrelcina nella quale il duce dichiara «Ella mi ha riportato a Dio. La sua fede è oggetto proprio per me di preparazione alla riconciliazione». Quel “proprio per me” e quella “riconciliazione” (che non poteva ancora, nel 1924, anche se segrete trattative erano già in corso, indicare la Conciliazione tra Chiesa e Stato italiano, della quale, oltretutto, il frate di San Giovanni Rotondo non poteva nulla immaginare) denotano per una espressione sincera, pur nella circostanza di una corrispondenza in qualche modo formale. Lo stigmatizzato del Gargano non fu l’unica figura di mistico con la quale Mussolini ebbe a che fare. Un’altra stigmatizzata, suor Elena Aiello, ha dichiarato di aver avuto direttamente dal Cielo l’incarico tra il 1939 ed il 1940 – nello stesso periodo nel quale Pio XII si sforzava in tutti i modi, tramite pressioni sul re e tramite il gesuita padre Tacchi Ventura, che era in rapporti di cordiale confidenza con il duce, di mantenere l’Italia fuori dalla guerra – di far pervenire a Mussolini un chiaro avvertimento affinché rimanesse neutrale, perché in tal modo avrebbe salvato l’Italia e sé stesso da sicura rovina. Vi è in proposito la testimonianza della sorella del duce, Edvige. La quale, propiziato da un influente monsignore di curia, ebbe, , nella primavera del 1940, un incontro con questa mistica durante il quale la religiosa le consegnò una nota scritta da far pervenire al fratello contenente l’avvertimento celeste. Mussolini, pare, ebbe per questa via la nota in questione e che, dopo averla letta, pur turbato, rivolto alla sorella, affermò che, al punto in cui erano le cose, non gli era più possibile – siamo nel maggio 1940 – tornare indietro. Secondo la testimonianza resa dall’Aiello nel dopoguerra, sulla base della rivelazione celeste della quale era stata depositaria, nel 1919-1922 Mussolini sarebbe stato aiutato dalla Provvidenza al fine di evitare una rivoluzione bolscevica in Italia e che, se, dopo l’otto settembre, si fosse diretto verso sud, avrebbe potuto avere salva la vita laddove. Certamente, queste ultime “rivelazioni” risentono abbastanza del senno del poi e di un certo clima fortemente anticomunista della Chiesa italiana degli anni ‘50. Del resto che una rivoluzione comunista fosse possibile nell’Italia del primo dopoguerra è, da un punto di vista storico, molto discutibile. Tuttavia il fatto che nell’intera vicenda di Mussolini vi sia stata anche la presenza dell’Imponderabile ci trova concordi. Pur volendo rimanere sul solo piano umano, il retaggio dell’educazione cattolica materna, ravvivato in età matura dagli influssi del fratello Arnaldo e della sorella Edvige, che quel retaggio mai abbandonarono, nonché dallo scavare della grazia mediante il dolore seguito alla morte dell’amato figlio Bruno, non si spense mai del tutto in Mussolini. Non dispiace, cristianamente, neanche la rivelazione, sempre dell’Aiello, secondo la quale Mussolini, per la Misericordia Divina, sarebbe salvo in purgatorio. Piuttosto, da un punto di vista strettamente storico, bisogna approfondire le motivazioni del rifiuto di Mussolini, a fronte dell’avvertimento celeste, a fermarsi in tempo. Se, nella primavera del 1940, le cose erano, secondo il giudizio del duce, ad un punto che non era più possibile tornare indietro, per comprendere la situazione del momento bisogna tenere presente il tentativo del regime, messo in atto nella seconda parte degli anni ’30, per accentuare, pur senza mai giungere a completarlo, il proprio carattere totalitario. Un tentativo che aveva fatto riemergere la natura di “religione politica” del fascismo. Lo stesso Mussolini, a partire dal momento di maggior consenso popolare ottenuto dal regime con la proclamazione dell’impero, sperò nella “seconda fase della Rivoluzione”, auspicata proprio dalla componente più di sinistra e più rivoluzionaria del fascismo, che egli vedeva in atto nell’educazione della gioventù, la quale da parte sua era entusiasta della politica del regime, finalizzata alla nascita dell’“uomo nuovo” e della “nuova civiltà”. Tratti della politica del regime, questi, che, insieme ad altri come ad esempio la mania di cambiare il calendario per far iniziare la storia dall’anno della Rivoluzione (per cui accanto all’anno cristiano si doveva mettere l’indicazione dell’anno della nuova “era”, fascista, al quale corrispondeva), denotano le mai sopite radici giacobine del fascismo. Di questa svolta “totalitaria” furono espressione sia la battaglia antiborghese (quella che, buffonescamente, vietò il “lei” per sostituirlo con il “voi” e che imponeva a panciuti gerarchi, “panciafichisti” secondo la terminologia dell’epoca, di esibirsi in acrobatici salti in cerchi di fuoco, ma sulla cui scorta, d’altro canto, facevano pressione le correnti di sinistra del fascismo per una interpretazione più sociale, se non addirittura socialista, del corporativismo) sia le leggi razziali del 1938. Come annota Renzo De Felice, se è in parte vero che nella svolta razzista del regime ebbe un certo influsso lo spirito di emulazione verso il più “rivoluzionario” nazismo – spirito di emulazione che però era anche spirito di timore mano a mano che la potenza tedesca si palesava sullo scenario europeo –, è d’altro canto vero che per Mussolini la svolta razzista, come la stessa polemica antiborghese della quale essa faceva parte, era solo uno strumento di propaganda politica per radicalizzare il carattere totalitario del regime, in Italia frenato dalla presenza della monarchia ma soprattutto della Chiesa che costituivano luoghi non fagocitabili dalla politica totalitaria. Questo se da un lato significa, come troppo retoricamente e con troppa faciloneria hanno dichiarato persino storici accademici solo per polemizzare contro il recente apprezzamento berlusconiano verso Mussolini in occasione del 27 gennaio 2013 (Berlusconi è il solito gaffeur anche quando tratta di cose storiche!), che in effetti Mussolini maturò la svolta razzista in una qualche autonomia da qualsiasi pressione o condizionamento ufficiale del nazismo (anche con l’idea di preservare la “stirpe italica e latina” dalla contaminazione con le popolazioni etiopiche appena sottomesse: in questo agiva il retroterra tutto ottocentesco di lombrosiana e darwiniana eredità, del resto comune anche alle democrazie inglese, francese ed americana), dall’altro lato, però, significa che il condizionamento se non era esterno, ossia politico, era appunto psicologico, ossia un auto-condizionamento, verso l’alleato che dimostrava maggiore dinamismo e risolutezza antiborghese, ovvero “totalitaria”, e significa, soprattutto, che, salvo alcune frange minoritarie come quelle che facevano riferimento ad Interlandi, Preziosi e Farinacci, Mussolini ed il fascismo non furono mai realmente antisemiti, in senso razziale, come il nazismo. La polemica antiebraica, nonostante le idiozie ufficiali e pseudo-scientifiche del “manifesto della razza”, era piuttosto intrisa dei tradizionali luoghi comuni giudeofobici che vedevano nell’ebreo l’usuraio, il borghese, il capitalista, il portatore della civiltà liberale ed americana. Non senza anche la strumentalizzazione dell’antigiudaismo teologico della Chiesa che, come troppo spesso era già accaduto nel corso dei secoli, era ancora una volta illegittimamente usato per scopi diversi da quelli connessi al problema squisitamente teologico, il quale, invece, l’autentico magistero, pur nella prudente difesa della fede dei semplici contro l’esegesi rabbinica delle Scritture, risolveva nel senso della preghiera per la conversione degli ebrei “increduli” (questo – e non altro! – nella liturgia antica era il vero significato dell’aggettivo “perfidis”) e dell’uso della carità verso gli ebrei medesimi, benché dai cristiani non sempre rispettata. Quanto abbiamo detto circa la genesi politicamente strumentale delle leggi razziali, e quindi circa l’antisemitismo assolutamente posticcio del regime fascista, spiega, dunque, perché Mussolini, se da un lato utilizzava pericolosamente il razzismo come elemento di propaganda per una maggiore mobilitazione politica delle masse e per rivitalizzare un regime “imborghesito”, dall’altro abbia, in diverse occasioni storicamente dimostrate, fatto in modo di contenere i zelanti della razza (“discriminare non perseguitare” scriveva nelle direttive segrete inviate ai suoi ministri, adducendo in proposito proprio l’esempio della Chiesa che non aveva mai perseguitato razzisticamente gli ebrei benché li avesse tenuti lontani dalle cariche pubbliche) e di sabotare i piani nazisti di deportazione degli israeliti, anche durante la Repubblica Sociale. E’ un fatto che gli ebrei del ghetto di Roma furono, in parte, deportati, nonostante ogni sforzo di Pio XII che comunque, riuscendo a fermarla, evitò il completamento della deportazione, solo dopo la caduta del regime di Mussolini e che, a regime saldo, non furono mai neanche minacciati di essere consegnati all’alleato tedesco. Come è un fatto che nei territori occupati dall’esercito italiano, prima del 25 luglio 1943, non ci fu alcuna deportazione di ebrei verso la Germania, nonostante le proteste dell’alleato. Anzi, molti ebrei in fuga dalla Germania e dai Paesi occupati dai nazisti si rifugiavano, magari per poi transitare verso l’Inghilterra, gli Stati Uniti o verso la Palestina, proprio nell’Italia di Mussolini, ritenuta certamente più sicura ed accogliente.
3) L’ultima manifestazione del “clericalismo” è, in ordine di tempo, l’appoggio che la curia vaticana e la Cei, proprio mentre Benedetto XVI condanna la “finanza speculatrice senza regole”, hanno ufficialmente dato, mediante l’Osservatore Romana e L’Avvenire, all’agenda Monti. Seguite, in questo, dal quel mondo cattolico, quello della nota assise di Todi (Bonanni della Cisl, Riccardi della Comunità di Sant’Egidio, Oliviero delle Acli, etc.), che vive del mito manicheo della “società civile”, pura, contrapposta alla, corrotta, “società politica” (come se la società politica non fosse espressione, in democrazia, della società civile, sicché se è corrotta la prima questo vuol dire, fuori da ogni illusione “clericale”, che è corrotta, e profondamente, anche la seconda!). Un mito che porta acqua solo al primato dell’economia ed – ecco il baratto – alle iniziative economiche di certo mondo cattolico troppo affaccendato in strategie di mercato, anche di quelle del “mercato solidale”, piuttosto che nella preghiera e nella autentica carità. Tuttavia, per fortuna, l’essenza della Chiesa non è nel clericalismo: se così fosse stato Essa non avrebbe resistito per duemila anni.
4) Citato in E. Innocenti op. cit., p. 32.
5
) Citato in E. Innocenti, op. cit. pp. 31-32.
6
) Citato in E. Innocenti, op. cit. p. 33.
7
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 43.
8
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 46.
9
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 49.
10
) Sia chiaro che non stiamo affermando, da parte nostra, che il Concordato del 1929 è stato un baratto clericale. Esso era assolutamente necessario – e pertanto provvidenziale – sia per riparare a quello che anche onesti laici intelligenti sapevano essere stato, storicamente, un furto, sia per risolvere il problema – che tuttavia è rimasto poi irrisolto lo stesso – della fragile identificazione nazionale degli italiani con uno Stato che aveva preteso di porsi contro l’identità religiosa degli italiani stessi, contribuendo alla nascita di un popolo di bassissimi sentimenti nazionali e di bassissima cultura civica.
11
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 51.
12
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 70.
13
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 70.
14
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 70.
15
) Citato in E. Innocenti, op. cit., pp. 86-88.
16
) Cfr. Nino Tripodi “I Patti Lateranensi e il fascismo”, ed. Cappelli, Rocca San Casciano, 1959. Ora in E. Innocenti, op. cit., p. 88.
17
) Questo libro era una risposta, che si muoveva sullo steso piano storico, alla critica demitizzante dell’esegesi storico-critica dell’epoca. Si tratta di un testo, ormai classico,tuttora, benché in parte datato, ancora attuale per affrontare, da cattolici, il terreno dello storicismo critico, di radici protestanti.
18
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 203.
19
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 207.
20
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 203.
21
) Citato in E. Innocenti, op. cit., p. 207.
22
) Se ne veda anche la recensione di Antonio Airò su Avvenire, “Bottai, il gerarca che si lasciò sedurre dalla Chiesa”.
23
) Cfr. A. Airò, op. cit.



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