Palestina presto Stato indipendente. Salvo guerra
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Alla vigilia di Natale, anche l’Equador ha riconosciuto lo Stato palestinese «libero e indipendente entro i confini del 1967». E’ il sesto Paese sudamericano ad aver fatto questo passo, dopo Cuba e Venezuela, Argentina, Bolivia e Brasile – il cui governo ha anche donato un terreno per la costruzione dell’ambasciata di Palestina. L’Uruguay ha promesso di fare altrettanto. La Norvegia, unico in Europa, ha avviato il riconoscimento. Ma anche Londra ha fatto sapere di aver l’intenzione di «elevare il livello» dei rapporti diplomatici con l’Autorità Palestinese.

Benchè simbolici, questi atti rivelano la crescente irritazione delle cancellerie davanti ai traccheggi del governo Netanyahu sul cosiddetto processo di pace: pretestuosi ostacoli alle trattative, rifiuto di prolungare il congelamento degli insediamenti illegali nei Territori Occupati, con ripresa accelerata delle costruzioni, assassinii di palestinesi, ed altri atti unilaterali intesi chiaramente a liquidare i negoziati con l’OLP.

Come si ricorderà, Obama aveva voluto riavviare il cosiddetto processo di pace a settembre; per rabbonire Israele, aveva dato incentivi come 3 miliardi di dollari di armamenti (oltre ai soliti aiuti militari) allo Stato più armato del Mediterraneo, e in più l’impegno americano a proteggere lo Stato ebraico da ogni risoluzione di condanna o di sanzioni che potessero esser prese in sede ONU.

Niente: Netanyahu aveva chiesto anche la liberazione della spia Pollard (all’ergastolo in USA per spionaggio a favore di Sion), e nello stesso momento aveva fatto finta di nemmeno sentire le ripetute richieste – meglio sarebbe dire implorazioni – del presidente Obama di smettere, anzi no, almeno di rallentare, la costruzione di insediamenti di coloni fanatici nei territori del futuro Stato di Palestina. Da ultimo, Israele ha offerto di tornare a colloqui indiretti con l’Autorità Palestinese. Intanto, ha varato il progetto di costruire 1.300 abitazioni per soli ebrei a Gerusalemme Est, palestinese. L’evidenza che Israele non vuol continuare ad altro che a tergiversare con pretesti per completare l’occupazione illegale con gli insediamenti, è stata ammessa persino dagli europei, come vedremo.

A questo punto, i dirigenti palestinesi hanno minacciato di dichiararsi Stato in modo unilaterale; e il riconoscimento degli Stati sudamericani – che va in questa direzione – prova che la diplomazia palestinese, attivissima in queste settimane, trova orecchie pronte all’ascolto; il che può avere un peso in future risoluzioni in sede ONU.

E’ una prospettiva che chiaramente ha gettato nel panico il regime sionista: dal 1988 ad oggi, sono cento gli Stati che hanno riconosciuto il diritto dei palestinesi alla loro sovranità. Lo prova la risoluzione che la Israeli Lobby in USA ha strappato al servile Congresso: una mozione che testualmente «afferma che gli Stati Uniti rifiuteranno ogni riconoscimento dichiarato unilateralmente di uno Stato palestinese e porranno il veto ad ogni risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU di riconoscere uno Stato palestinese al di fuori di un accordo fra le due parti».

Proposto da parlamentari di nome Berman, Poe, Ros-Lehtinen, Ackerman, Burton (quasi tutti ebrei), questa mozione è stata approvata alla voce, ossia senza nemmeno un voto, ma per acclamazione. Però – ed è un altro indizio della perdita di prestigio della Casa Bianca a livello globale – è stata proprio questa mozione, unita all’offensiva impudenza israeliana, ad accrescere il numero degli Stati che hanno riconosciuto la Palestina. Come ha detto Abu Abbas in Brasile (dove ha posto la prima pietra dell’ambasciata), «finirà che a non riconoscerci saranno solo USA e Israele».

Quella americana è una pietosa dichiarazione preventiva – i palestinesi non hanno presentato all’ONU alcuna richiesta formale fino ad oggi – che è in sè una dimostrazione di debolezza. Come lo è la infuocata dichiarazione del ministero degli Esteri israeliano (Avigdor Lieberman) secondo cui il riconoscimento della Palestina come Stato «viola gli accordi provvisori firmati da Israele e lAutorità Palestinese nel 1995, che stabilivano che lo status dei territori sarebbe stato discusso e risolto per negoziato», con l’aggiunta che si tratterebbe di «una violazione degli accordi di Oslo»: accordi che proprio Israele ha violato costantemente e fin da principio.

Dove sta l’Europa? A dicembre, un gruppo di ex-uomini di Stato europei (evidentemente hanno meno ragione di temere le ritorsioni della lobby) hanno fatto appello ai capi di governi e ministeri degli Esteri della UE, al presidente europeo Van Rompuy, a lady Catherine Astor (ministra degli Esteri, o quasi, della UE). Un appello dove si legge: «Crediamo che la UE debba (...) stabilire una data oltre la quale prenderà ulteriori iniziative. Se non ci sono progressi nel prossimo incontro fissato per aprile 2011, il Consiglio dEuropa non avrà altra alternativa che portare la questione davanti alla comunità internazionale per consentire a questa di definire una strategia per la risoluzione del conflitto». Insomma, è l’invito europeo a portare il problema dello Stato palestinese davanti all’ONU; proprio ciò che spaventa Israele.

Il comunicato dei vecchi statisti ricorda che «Israele ha continuato gli insediamenti nei Territori Palestinesi, e rifiutato di negoziare seriamente la fine delloccupazione», e consiglia sanzioni contro la continua violazione isrealiana, come arma di pressione, e ciò «nei più forti termini». Esempio: l’Europa «riconsiderti la legalità degli accordi con Israele» riguardanti l’import di beni prodotti in realtà dai coloni negli insediamenti illegali ed etichettati come «Made in Israel», «in contraddizione con le norme europee sulle etichettatura di origine». Infatti «è semplicemente inspiegabile che tali prodotti ancora godano dei benefici previsti dagli accordi preferenziali fra EU ed Israele».

Il documento chiede anche la fine del blocco di Gaza. Insiste sul fatto che «importanti esponenti negli Stati Uniti», oltre che «israeliani di alto livello ci hanno segnalato che il miglior modo di aiutare il presidente Obama nei suoi sforzi (in Palestina) è di far pagare un prezzo agli atteggiamenti che vanno in direzione contraria alla posizione che il presidente in persona ha preso», insomma insistono sull’imposizione di sanzioni allo Stato ebraico. La mozione è firmata da Chris Patten, Hubert Vedrine, Giuliano Amato, Roland Dumas, Lionel Jospin, Romano Prodi, Helmut Schmidt, Clare Short, Javier Solana e Richard von Weizsaecker (Palestinian statehood on the agenda).

Il 2011 ci dirà se e fino a che punto i governi europei accoglieranno le proposte degli statisti. In ogni caso, questa presa di posizione pubblica indica che la pressione monta su Israele, e da molti lati. Una pressione apparentemente concertata. Per esempio, a dicembre, mentre Ehud Barak era all’ONU dove contava di trovare alleati per più dure sanzioni contro l’Iran, il ministro degli Esteri australiano Kevin Rudd ha dichiarato di volere che Israele aderisca «come tutti gli Stati dellarea» al Trattato di Non-Proliferazione, e apra i suoi impianti atomici alle ispezioni della AIEA.

Dunque è possibile che, se i palestinesi portano davanti all’ONU, all’assemblea generale e al Consiglio di Sicurezza, la loro richiesta essere riconosciuti come Stato indipendente, raccolgano davvero una maggioranzas di voti – schiacciante all’Assemblea Generale, e al Consiglio di Sicurezza, con l’opposizione e il veto dei soli Stati Uniti. Con in più il concretarsi reale di vere e proprie sanzioni economiche contro lo Stato ebraico da parte dell’Europa, un pericolo che mai prima s’è realizzato.

Questa evenienza rende isterico lo Stato Maggiore israeliano, che si produce in dichiarazioni demenziali: «I palestinesi non sono pronti ad avanzare verso la pace, sicchè lintero Paese è paralizzato», ha dichiarato Netanyahu. E il suo ministro degli Esteri Lieberman: «Gli insediamenti non hanno mai costituito un ostacolo alla pace e al ritiro territoriale». Sic. In più, Lieberman ha minacciato, con la consueta arroganza, che se la UE proporrà sanzioni, «non farà che ridurre la capacità dellEuropa di giocare un ruolo nella promozione della pace nella regione», insomma Israele espellerà gli europei.

La realtà, ha scritto lo storico e saggista Zeev Sternhell su Haaretz, è che Israele ad isolarsi dal mondo. Il governo Netanyahu «sta trascinando Israele al fondo della lista dei Paesi civili».

Il regime israeliano reagisce al pericolo al solito modo: accelera gli insediamenti, intensifica gli attacchi contro Gaza, arresta famiglie intere nei territori occupati, lascia che i coloni si scatenino con angherie e violenze contro i vicini arabi, e – per la prima volta – picchia e arresta gli attivisti pacifisti ebrei che provano a tenere manifestazioni per la pace. Inoltre, Lieberman ha mobilitato i suoi sayanim in Europa – attraverso le sue ambasciate – perchè inscenino più vaste campagne «contro lantisemitismo» e «contro la delegittimazione di Israele». Uno studio di un certo Reut Institute di Tel Aviv (la centrale a cui fanno capo gli osservatori contro lantisemitismo sparsi per l’Europa) ha anzi pubblicato un rapporto di 66 pagine in cui sostiene che esiste un complotto mondiale per delegittimare Israele (Building a Political Firewall against the Assault on Israel's Legitimacy).

Altre iniziative possono essere solo sospettate. Ad esempio gli attentati contro chiese cristiane in Iraq, Nigeria ed Egitto sono troppo ravvicinati, e troppo sterminatori, per non far sospettare l’intervento di una mano esperta. Certo, nel mondo islamico non mancano mai fanatici da dirigere contro le minoranze cristiane, specie dove le frizioni inter-religiose sono la norma; ma nella città di Jos, in Nigeria, che è appunto uno di questi luoghi di frizione permanenti, gli osservatori hanno notato che per la prima volta i militanti musulmani non hanno usato coltelli e machete o bastoni, bensì esplosivo ad alto potenziale: elemento inedito oltre che tragico, che implica il sostegno di un’organizzazione militare; quel che per convenzione si usa chiamare Al Qaeda.

Anche il premier egiziano Hosni Mubarak, di fronte ad una rivendicazione dell’attentato alla chiesa copta Al –Qidissin da parte del gruppo terrorista interno Al-Tawid al-Jihad, s’è detto certo che «lazione reca i segni di una mano straniera che vuol trasformare lEgitto in un altro scenario di terrorismo come altrove nella regione»: trasparente allusione alla convinzione sua (o meglio, dei suoi servizi) che gli attentati in Iraq e Nigeria ed Egitto (ma si aggiunga il recente attentato alla bomba in Svezia) siano parte di uno stesso operatore e di una stessa strategia.

In altre parole, Al Qaeda. Quella stessa Al Qaeda che, in questi giorni, ha pubblicato sul web un manuale per la fabbricazione di esplosivi (in inglese, non in arabo), in un sito – guarda caso – scoperto dal MEMRI, Middle East Media Research Institute, un centro informativo fondato dal colonnello israeliano Ygal Carmon con il neocon Meyrav Wurmser.

Certo è che la serie di attentati islamici contro cristiani è assai utile per rompere il fronte che all’ONU si sta concretizzando per sanzionare Israele.



(Al-Qaeda bomb manual published on internet)




Ma c’è forse di peggio in vista. Il regime israeliano può ricorrere all’estremo rimedio a cui sempre ricorre quando è messo alle strette, per far saltare i tavoli di negoziato a cui non intende sedersi e imporre il fatto compiuto: un’altra guerra.

E’ molto significativo che a sottolineare questa possibilità – in modo indiretto, con interviste ad esponenti dell’OLP e di Hamas – sia la Xinhua, l’agenzia ufficiosa cinese in lingua inglese. Anche Pechino, che dall’operazione Piombo Fuso osserva Israele con crescente allarme, fa sapere di aver mangiato la foglia: ed è membro permanente del Consiglio di Sicurezza (Israel Hardens Repression - Palestinian Recognition Increases).

Ma anche il commentatore israeliano Aluf Benn, su Haaretz, ha paventato lo stesso rischio, ed ha richiamato l’urgenza di azioni internazionali per scongiurarlo: «Invece di nutrire false speranze di un accordo di pace, gli sforzi internazionali devono dirigersi a scongiurare una guerra. Esolo questione di tempo».



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