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Mosca: USA in crisi di vita o di morte
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«Gli USA sono sull’orlo di una crisi di sopravvivenza, una crisi di massa»: così, secondo Interfax (1), si sarebbe espressa una «fonte al ministero degli Esteri russo». L’espressione, nella sua voluta vaghezza, indica probabilmente che la frase è stata usata dallo stesso ministro, Sergey Lavrov, in una conversazione informale con i giornalisti, che preferisce non vedersi attribuire ufficialmente certe valutazioni.

Dunque Mosca si aspetta una prossima, forse imminente, grave crisi interna americana. «Gli Stati Uniti sono sulla china di cambiamenti drastici e dolorosi; tanto per cominciare devono imparare a vivere all’altezza dei loro mezzi», ha detto la «fonte», aggiungendo che sarebbe utile «una minor interdipendenza»  nelle relazioni fra USA e Russia.

Osservazione ambigua. La fonte altissima si rincresce per il fatto che le grandi riserve monetarie russe, denominate in dollari, legano Mosca alla convenienza di aiutare gli USA a non precipitare nell’abisso? E rendono la politica russa non abbastanza libera e indipendente di fronte a Washington?

«Possiamo in futuro raggiungere il momento in cui saremo capaci di smettere di discutere solo gli argomenti che interessano la parte americana», ha detto la fonte. Ed ha aggiunto: «Non siamo nemici degli Stati uniti e purtroppo non siamo ancora amici, ma stiamo dipendendo sempre meno l’uno dall’altro».

Il fatto che l’agenzia Interfax abbia riportato una simile chiacchierata con giornalisti (è avvenuta martedì scorso) sembra indicare che si tratta ben più di una divagazione: che vi si leggono in filigrana riflessioni, da parte di dirigenti massimi russi, su come prepararsi al collasso economico americano, come limitarne i danni per la Russia e come approfittare delle opportunità offerte (2).

Nei giorni scorsi, in rapida successione, Mosca ha definitivamente sbattuto fuori la British Petroleum (BP) dalla joint-venture russa TNK, ritenuta troppo vantaggiosa per gli inglesi e troppo poco per gli interessi nazionali; il Servizio Federale Antimonopolio ha messo sotto inchiesta la Evraz Holding (una delle comproprietà del solito Roman Abramovic, l’oligarca) per abuso di posizione dominante nel settore del coke - metallurgico; e Putin in persona ha accusato la Mechel (l’altro gigante del carbone e siderurgico, che con Evraz controlla metà del mercato russo) di manipolazione dei prezzi e sovraffatturazione per scopi di evasione tributaria.

Tanto pesano le parole di Putin, anche se oggi è «solo» primo ministro, che le azioni della Mechel, quotata a New York, sono precipitate del 38%. Idem per la Evraz, quotata a Londra; e per la Borsa russa, scesa del 25%>. I capitali esteri, colti dal panico, si stanno liberando di azioni russe. Come mai Putin allontana deliberatamente gli «investitori» finanziari plurinazionali? Che sono così necessari nel mondo globalizzato?, si domanda il Telegraph (3).

Ecco appunto: il mondo sta diventando un po’ meno globalizzato, come ha dimostrato il fallimento della riunione del WTO a Ginevra, e forse lo diventerà sempre meno. Ciò significa molte cose, ma una in particolare: che la politica economica interna conterà più che quella globale, e l’autarchia più che la «interdipendenza».

Questa nuova tendenza è apparsa chiara a Ginevra: dove il ministro indiano al commercio Kamal Nath ha resistito come un leone - vittorioso alla fine - per non aprire le frontiere al «cibo» estero, insommma ai prodotti granari che USA, Europa, Argentina e Brasile sono disposte a vendere a prezzo «più conveniente» di quello a cui lo producono i contadini indiani. Quei contadini sono 600 milioni, e in India  pesano: politicamente, ed anche come problema sociale, perchè nessun governo può abbandonare 600 milioni dei suoi contadini alla miseria che il «libero mercato» fa cadere su chi non è «competitivo».

I dogmatici del liberismo globale hanno un bel gridare al protezionismo. Non si sono accorti che - segno di quanto sia cambiata la situazione  globale - questo nuovo protezionismo non si manifesta solo nè soprattutto in dazi elevati contro i prodotti esteri a basso prezzo, ma al contrario; tanti Stati oggi elevano barriere contro le esportazioni dei loro prodotti all’estero. Lo fa l’Argentina tassando i suoi esportatori di granaglie, lo fanno il Vietnam e l’India per il riso.

Il cambiamento è radicale, ed il motivo è ovvio: sta nella percezione che le merci, materie prime e derrate, hanno assunto un valore che la moneta non paga più. Specialmente il dollaro, svilito e degradato dalla crisi dei subprime e dalla «cura» che alla crisi ha portato la FED, consistente in ulteriore degrado. Il dollaro è la moneta di riserva su cui si basa la «interdipendenza globale degli scambi». Ma se la moneta con cui il mondo paga il riso indiano e vietnamita, o il ferro russo, è degradata, è meglio tenersi la merce.

È quello che fa chiaramente la Russia. Spaventa e fa scappare gli «investitori esteri»? Poco male, a scappare sono dollari e che presto varranno pochissimo, e la Russia ne ha già anche troppi. Evraz e Mechel sono due colossi del settore minerario-industriale,  del carbone e acciaio. Oggi valgono meno in Borsa a New York? Niente di male, il carbone e il minerale ferroso che le due aziende estraggono in Siberia, da miniere di loro proprietà, può restare sottoterra: mica deperisce. Il dollaro e le altre monete di conto, invece, deperiscono. Carbone-acciaio sono beni-rifugio, e sono beni strategici. In tempi di crisi globale, è meglio averli che averli venduti.

Probabilmente Mosca, spaventando i capitali esteri speculativi, pone le basi per scongiurare una replica del grande saccheggio dell’era Eltsin, quando giovanotti ebraico-russi, con denari a loro prestati dai Rotschild o dai Goldman Sachs, si accaparrarono interi patrimoni minerari, come la Yukos, per un centesimo del valore.

Anche quando  Putin si riprese la Yukos, sbattendo in galera il suo padroncino Khodorkovki, i «mercati» voltarono le spalle alla Russia che non rispettava i diritti di proprterà, e anche allora «gli investitori occidentali» minacciarono di far mancare i loro capitali al Paese. Quelli che lo fecero davvero si mordono ancora le mani: hanno mancato i rialzi del 300% della Borsa moscovita.

Quindi Putin ha ragione a non preoccuparsi. Il denaro va, il denaro viene e - soprattutto - il denaro si crea dal nulla, al contrario di petrolio, carbone, acciaio e granaglie.
È istruttiva la dichiarazione alla stampa con cui Putin ha fatto crollare il titolo della Mechel:

«Abbiamo una ditta rispettata qui... a proposito, abbiamo invitato il proprietario Igor Vladimirovic Zyusin (il socio di maggioranza della Mechel, miliardario) all’incontro di oggi, ma d’improvviso si è ammalato. Intanto, è noto che nel primo trimestre di quest’anno la ditta (Mechel) ha esportato materie prime all’estero ad un prezzo che è la metà di quello internazionale, e di quello che pratica all’interno. E dove sono finite le tasse di margine per lo Stato?».

Poi ha aggiunto: «Naturalmente  la malattia è malattia. Ma Igor Vladimirovic deve rimettersi il prima possibile, altrimenti gli dobbiamo mandare un dottore».

Detta da un ex colonnello del KGB fiero di esserlo, quest’ultima frase avrà fatto scendere lungo la schiena del miliardario Zyusin brividi più potenti di qualunque influenza. E' chiaro il sospetto di Putin: vendite a prezzo dimezzato di ferro e carbone, che sui mercati stanno rincarando, non sono solo evasione fiscale, può essere anche la nuova tattica per replicare il grande saccheggio degli anni '90.

Preoccupa il governo di Mosca anche l’inflazione interna, oggi al 15%, che minaccia la pace sociale e la popolarità del sistema. La JP Morgan, che s’è premurata di abbassare la sua valutazione sui titoli russi (fatto comico, visto come le grandi banche USA hanno valutato i titoli sub-prime), ha citato come ragione «il rischio che per controllare l’inflazione vengano usati sistemi non-convenzionali».

Come come? I metodi «convenzionali» per il controllo dell’inflazione sono il rialzo dei tassi d’interesse: così fa Trichet, la Banca Centrale Europea. Non riesce a contrastare nessuna inflazione; ma quello è il solo sistema che, secondo il dogma liberista, «non interferisce con le forze del mercato», con la mano invisibile.

Anzi no, c’è un altro sistema «convenzionale» ossia ammesso: la moderazione salariale. Impedire che i salari rincorrano l’inflazione, quindi riducendo il potere d’acquisto dei lavoratori.

I sistemi «non-convenzionali» sono quelli che interferiscono con le forze di mercato, e sono quindi eretici e intrinsecamente malvagi per JP Morgan. Putin li ha già usati, per esempio congelando i prezzi durante l’inverno (allora si può!). Al bisogno, quel malvagio potrebbe persino «mettere l’economia russa sotto il controllo diretto della Stato».

Eresia eresia. Ma magari, fra qualche mese, la Russia ci sarà ancora e JP Morgan sarà sparita nel gorgo.



1) «US is on brink of survival crisis, according to Moscow», Interfax, 29 luglio 2008.
2)  Si veda per esempio Fred Weir, «Russia’s plan to avert secondo cold war», Christian Science Monitor, 29 luglio 2008. Il riferimento è alla proposta di Dimitri Medvedev, il presidente, di ridisegnare il sistema di sicurezza euro-atlantico, sostituendo la NATO con un’alleanza a cui  parteciperebbe la Russia come partner fondatore, alla pari. Medvedev ha lamentato che alla Russia non sia lasciata alcuna parte nel contribuire a disegnare la sicurezza gobale.
3) Ambrose Evans-Pritchard, «Kremlin’s heavy hand  triggers foreign exodus», Telegraph, 31 luglio 2008.


 

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