Risorgimento?! (parte IV)
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Il «brigantaggio antiunitario» come seconda insorgenza

La resistenza antipiemontese, ossia il cosiddetto brigantaggio, è strettamente connessa, sotto il profilo storico ed ideale, all’insorgenza popolare antigiacobina ed antifrancese del 1798-99 (nel resto d’Italia, settentrionale e centrale, nel quale i francesi giunsero prima, l’insorgenza compare sin dal 1796).

Abbiamo detto che queste insorgenze furono la culla di un diverso senso di identità nazionale unitaria che purtroppo non trovò nessuno capace di dare ad esso uno sbocco militare e politico. L’insorgenza si organizzò intorno a personaggi carismatici e indubbiamente dotati di capacità da guerrigliero. Ma nessuno di essi, salvo come si è visto il Ruffo e lo sfortunato La Hoz, avevano un chiaro progetto politico.

Il brigantaggio, in età immediatamente post-unitaria, ripropone la medesima epopea delle insorgenza ma anche purtroppo gli stessi limiti politici. Si trattò di una spontanea rivolta popolare contro gli invasori piemontesi ed in difesa di una monarchia amata perché, seppur paternalisticamente, difendeva i ceti subalterni dalle angherie nobiliari e borghesi. Una rivolta endemica tra i cui moventi immediati ci fu l’introduzione della dura leva obbligatoria e l’imposizione dell’imposta generale (per colmare il deficit delle casse piemontesi) sull’entrata di ogni bene di consumo (in pratica sul pane della povera gente), vere angherie di Stato in precedenza ignote alle popolazioni meridionali. La rivolta interessò tutto il Meridione ex borbonico, dall’Abruzzo fino alla Calabria. Ne restò fuori solo la Sicilia, perché in tale regione il patto fra i nuovi governanti ed i galantuomini, che con l’arrivo dei garibaldini avevano accresciuto, a danno dei contadini, i privilegi feudali senza più la contropartita dei diritti comunitari, fu particolarmente forte, come dimostra lo scellerato massacro di Bronte, località nella quale gli uomini in camicia rossa di Nino Bixio - pare su ordine dello stesso Garibaldi - repressero nel sangue una rivolta popolare antibaronale per non alienare all’impresa, in corso, dei Mille le simpatie dei possidenti liberali che andavano tradendo la corona borbonica (1).

Certamente non mancò neanche il fenomeno del cosiddetto manutengolismo ossia del doppiogioco dei galantuomini quando si trovavano alla mercé dei popolani o dei briganti. Infatti nei momenti nei quali l’insorgenza riusciva momentaneamente a prevalere e a cacciare, da questo o quel paese, questo o quel territorio, i garibaldini oppure, più tardi, l’esercito piemontese, ecco che i galantuomini, temendo per la propria vita e le proprietà, fingevano di passare dalla parte dei ribelli e tornavano, dopo aver issato il tricolore sabaudo, a gridare Viva Francesco II. Spesso, poi, quelli tra di essi che passavano dalla parte degli insorgenti ne approfittavano per fare le proprie vendette private contro altri galantuomini, per essere a loro volta vittime di vendette al ritorno dei piemontesi o per ripassare dalla parte dei Savoia con la scusa di essere stati costretti dai briganti ad aiutarli. La documentazione giudiziaria dell’epoca è piena di atti processuali a carico di briganti e galantuomini relativa a processi che finivano immancabilmente con la condanna ai lavori forzati o a morte dei primi e l’assoluzione dei secondi, secondo la tipica prassi giuridica liberale che puniva severamente i delitti contro la proprietà: e chi poteva attentare alla sacralità dei beni privati? Non certo i galantuomini!

I poveri popolani spesso, per ingenuità, credevano al ravvedimento dei galantuomini, distinguendo tra quelli liberali e quelli che in apparenza sembravano fedeli ai Borboni. In tal modo gli insorgenti finirono per non comprendere a pieno che tutto il ceto dei nuovi padroni era loro nemico, sia in termini sociali che politici. Solo alcuni tra i cosiddetti briganti se ne resero conto.

Ad esempio Carmine Crocco che nel 1903, nelle sue memorie, scriveva: «Fra le poche soddisfazioni chio pure provai nellavventurosa mia vita, io ricordo con viva compiacenza la maggiore, la più splendida, quella cioè che accompagnò il mio ingresso nella città di Melfi, capoluogo di circondario (…). I nemici della reazione furono proscritti, le loro case saccheggiate, i loro beni confiscati» (2).

La rivolta post-unitaria non riuscì a diventare proposta politica alternativa nonostante da parte della Corona borbonica si tentasse di organizzarla mediante il comando di alcuni valenti uomini d’arme legittimisti come José Borjes, che finì fucilato dai piemontesi dopo essere stato tradito da un latifondista liberale presso cui si era trovato a sostare durante le operazioni di guerriglia. Il problema stava, probabilmente, nel fatto che qualsiasi tentativo di dare una efficace organizzazione politico-militare alla rivolta popolare cozzava con la situazione internazionale assolutamente sfavorevole a Francesco II, che nel frattempo, dopo la resa di Gaeta, aveva trovato momentaneo rifugio, insieme alla consorte Maria Sofia, prima di andare in esilio in Austria, presso Pio IX a Roma, dove continuò ad operare un pur morente governo borbonico.

Napoleone III aveva messo il giovane Francesco II in mezzo ai guai, benché, come si è visto, il suo intento era quello di contribuire a realizzare una confederazione italiana nella quale la monarchia borbonica avrebbe avuto un suo ruolo. Ma l’imperatore dei francesi non aveva compreso il machiavellismo ed il doppiogiochismo di Cavour. Vi era poi l’Inghilterra che aveva deciso, per via dei tentativi di indipendenza economica del Regno messi in atto da Ferdinando II di Borbone, la fine delle Due Sicilie. Per non parlare della massoneria europea e della sinistra repubblicana mazziniana che da tempo avevano decretato la fine dei Borboni e, soprattutto la prima, avevano un notevole peso lobbistico presso le cancelleria di tutt’Europa.

In questo contesto, l’Austria asburgica, tra l’altro alle prese con l’astro nascente di Bismarck ed il vento pangermanista che iniziava a soffiare da Berlino, ben poco poteva fare per impedire che questa vera e propria congiura contro le Due Sicilie (e poi contro la Roma pontificia) fosse messa in atto. Nel 1866, durante la Terza Guerra di Indipendenza (che si concluse con la vittoria della Prussia sull’Austria e la sostanziale sconfitta, sia in terra che in mare, dell’Italia, pur dichiarata vincitrice solo perché alleata con la Prussia, tanto che l’Austria non cedette direttamente ai Savoia il Veneto ma lo passò a Napoleone III che si incaricò di cederlo, dopo un anno, ai Sabaudi) non si approfittò, da parte austriaca, con l’invio di aiuti, di quanto stava avvenendo nel Meridione italiano, sia allo scopo di rimettere in discussione sul piano internazionale la conquista del Sud, che era stata giuridicamente un’operazione illecita, sia per creare difficoltà interne al nemico italiano, costringendolo ad aumentare l’impegno nel Meridione distogliendo truppe dal fronte nord-orientale.

Dal momento che nessuna rivolta popolare, per quanto eroica, ha mai sconfitto un esercito regolare, soprattutto in mancanza di appoggi internazionali, è evidente che il destino ultimo dell’insorgenza post-unitaria era segnato. Nonostante il coraggio, ed anche la bellicosità e la ferocia, di molti cosiddetti briganti. La repressione, infatti, fu altrettanto, se non ancora più, cruenta, anche se le ragioni morali e sociali di giustizia e quelle giuridiche in base al diritto internazionale erano certamente tutte dalla parte dei briganti insorgenti.

«Di fronte al dilagare della rivolta - scrive uno storico onesto - il neo Parlamento italiano, sentito il parere di una commissione dinchiesta composta da Bixio, Saffi, Sirtori, Massari e Castagnola, approvò la Legge Pica, che istituì nel Meridione consigli e tribunali di guerra, inviandovi 120.000 armati (quasi la metà dellesercito italiano, assai più di tutti i soldati che avevano combattuto contro lAustria nel 1859). Alla fine la repressione auspicata dalla Commissione fu realizzata (almeno sulla carta), ma il prezzo fu altissimo: i generali Pallavicino e Pinelli, posti a capo delle operazioni, non badarono ai mezzi utilizzati, inclusi lincendio dei villaggi, le decimazioni, le fucilazioni sul posto dietro semplice sospetto, lincarcerazione dei familiari senza rispetto per le donne, le detenzioni senza processo, il perdurare delle incarcerazioni di imputati assolti. Solo con questi metodi da guerra coloniale i piemontesi’, come venivano chiamati dagli abitanti, riuscirono, da Matera al Melfese, dallAbruzzo alle Murge di Minervino, dal Crotonese al Cosentino fino allAvellinese, al Beneventano ed a Isernia, a decimare e distruggere il brigantaggio, comprese le bande Crocco e Romano. La borghesia emergente e la nobiltà, che già avevano tradito i Borboni nel 1799, si allearono con i nuovi occupanti: il risultato fu la resa dei conti di odi antichi, che i piemontesi favorirono e sfruttarono. Vi furono centinaia di procedimenti sbrigativi e sommari, che si cumularono a disposizioni arbitrarie e indegne già allepoca di un paese civile, che portarono alla condanna di moltissimi innocenti, mentre lodio politico condusse a fabbricare falsi documenti a carico e alluso massiccio di falsi testimoni. Nella sola Basilicata dal 1861 al 1863 furono fucilate 1.038 persone, uccise negli scontri 2.413, incarcerate 2.768 e condannate al confino forzoso 525 di cui 140 donne, a conferma del ruolo che aveva avuto lelemento femminile nella diffusione del brigantaggio. Nel Napoletano, secondo la relazione di Cialdini, vi furono 8.968 fucilati, fra i quali 66 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri deportati a nord; 918 case bruciate; 6 paesi incendiati per rappresaglia; 2.905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate. In ogni comune fu lasciato un presidio armato, che normalmente costituiva lunica presenza organizzata del nuovo Stato unitario: solo a cavallo del 1900 il presidio militare fu sostituito gradualmente dalla stazione dei Carabinieri. Con la scomparsa del brigantaggio nasce il patto fra la classe politica dominante del nord, sostituita poi da quella romana, e i ceti parassitari del sud, che è allorigine delle sciagure del Meridione dItalia a tuttoggi irrisolte» (3).

Il saccheggio post-unitario

Per comprendere, a fondo, il trattamento da colonia che il Meridione d’Italia subì da parte dell’aggressore sabaudo-liberale, bisogna lasciare la parola allo storico Gigi Di Fiore che ne ha tratteggiato con estrema precisione e realismo storico la portata in queste pagine che è necessario conoscere integralmente.

«LItalia unita partì subito - egli scrive - con il suo bel deficit di bilancio. Era leredità dello Stato piemontese che, in quindici anni di guerre, aveva investito tantissimo per armamenti e soldati (le guerre del Piemonte)... Furono possibili solo con prestiti bancari francesi e inglesi. Naturale che, subito dopo le annessioni, la preoccupazione del governo di Cavour fosse quella di assicurare vantaggi a che aveva economicamente aiutato il Piemonte. Dal 1848 al 1859… il regno sardo aveva maturato un disavanzo totale di 369.308.006 lire. Il debito pubblico era invece di 58.611.470 lire. Nel marzo 1861… si partiva con un ulteriore debito di 500 milioni di lire. La guerra tra italiani nel 1860-61 era costata altri 150 milioni di debiti al Piemonte e 13 milioni di ducati, pari a 55.248.618 lire, alle Due Sicilie (…). Nel 1862, il bilancio di previsione stimava un disavanzo di 308.846.372 lire. La riunificazione del debito pubblico (quello più consistente del Piemonte assorbiva quello inferiore delle Due Sicilie) portò allestensione delle tasse sarde nelle nuove province. Fu un trauma per il Sud, abituato a sole cinque imposte applicate nel regno borbonico. Ventidue erano state invece le tasse introdotte in Piemonte dal 1850. Cerano anche le imposte sulle successioni e le donazioni, sullassistenza sanitaria, le pensioni, i mutui, sconosciute al Sud. Per estinguere i suoi debiti, il governo piemontese era stato costretto a vendere molti gioielli di famiglia: proprietà statali, come lo stabilimento metallurgico di San Pier dArena, ceduto ai privati (…). Nulla sarebbe stato inventato 147 anni dopo. Era stato già tutto sperimentato nel regno piemontese, che travasò le sue leggi, abitudini e finanze nello Stato italiano (…). Nel gennaio 1861, fu chiuso un contratto con i Rothschild di Parigi in cambio della vendita della rendita napoletana (…). Per conquistare più consensi possibili… i governi luogotenenziali ricorsero alla pratica della clientela. Favoritismi, impieghi, sovvenzioni a liberali vecchi e di ultimo conio (…). Lintegrazione tra Nord e Sud era difficile. Problemi di ordine pubblico, sollevazioni sociali dei contadini, la classe dei latifondisti meridionali assetati di sicurezza. E in più, incomprensioni culturali tra i funzionari che arrivavano dal Piemonte e la classe dei burocrati meridionali, preoccupati di perdere impiego e denari (…). Napoli viveva la crisi della ex capitale, cuore pulsante di un regno, da sola in grado di assicurare pane e lavoro a burocrati, impiegati e ad attività legate alla presenza di uffici pubblici in una grande città. In tre anni la realtà era mutata. Erano entrate in crisi le aziende intorno alla capitale, che vivevano soprattutto di commesse pubbliche. Cominciò lo stillicidio dei licenziamenti di impiegati e operai alla Stamperia nazionale, alla Zecca, al Lotto, allArsenale, ai Cantieri navali di Castellammare. Aumentava il peso fiscale e diminuivano le commesse. Tempi duri anche per il grande stabilimento ferroviario di Pietrarsa, ceduto a un privato, Jacopo Bozza, proprietario del giornale Patria’. Il lavoro si era ridotto, a favore delle aziende del Nord. Degli oltre 800 operai di Pietrarsa, Bozza ne riassunse solo 400, rinviò ogni decisione sugli altri costretti a vivere con mezza paga. Agli annunci dei licenziamenti definitivi esplosero tumulti, repressi dai bersaglieri che caricarono i dimostranti. Pesante il bilancio: quattro morti e molti feriti. Bozza passò la mano, ma lo stabilimento, abituato a lavorare in regime di monopolio nellex regno, non poteva reggere alla concorrenza delle fabbriche del Nord gestite con criteri flessibili e favorite dalle commesse statali. Il risultato finale furono gli annunci di altri 150 licenziamenti. Allalba dellunità dItalia la strada dei licenziamenti al Sud era ormai spianata: 1.000 operai armieri allarsenale di Napoli e Torre del Greco; altre centinaia nei cantieri di Castellammare e nella società concessionaria delle ferrovie. Lo stabilimento manifatturiero di Salvatore Sava, che aveva lappalto esclusivo per la fornitura di divise alle truppe borboniche, fallì. A nulla valsero le cause in tribunale dellimprenditore contro lo Stato italiano, che non solo non gli riconosceva i contratti di fornitura già siglati, ma gli proibì di utilizzare manodopera di carcerati come gli consentiva il governo borbonico. Lex capitale era piombata in piena crisi economica, il mercato libero si era rivelato una condanna per lindustria meridionale. Aboliti gli alti dazi borbonici era venuto meno il protezionismo economico che tanto aveva aiutato lindustria delle Due Sicilie (…). La eccessiva rapidità del processo di unificazione produceva… vittime economiche. In più, con le tasse e con la vendita dei beni demaniali nel Mezzogiorno, consistenti risorse finanziarie prendevano la strada del Nord (…). E non era finita. (…) il governo liberale consentì alla Banca Nazionale del Regno dItalia, che aveva sede in Piemonte, di aprire filiali nel Sud, mentre negò al Banco di Napoli di allargarsi al Nord (…). Cavour annunciava poi che alla Banca nazionale si sarebbero aggiunte con filiali al Sud, le Casse di sconto e le Banche agrarie. Lunificazione era a senso unico: il Mezzogiorno si rivelava mercato utile per gli ingrandimenti delle istituzioni economiche settentrionali. Soprattutto del Piemonte (…). Di fatto, nei primi anni dellunità, fu favorito il trasferimento di capitali dal Mezzogiorno al Nord, ostacolando il contrario. Era ancora in vigore la piena convertibilità della moneta con loro. E la Banca Nazionale studiò una speculazione in grande: vendeva al Sud titoli di credito pubblici, ricevendo in cambio moneta del Banco di Napoli che poi convertiva in oro agli sportelli dellIstituto di credito meridionale. In questo modo cominciarono a diminuire le riserve auree del Banco: da 78 milioni nel 1863 a 41 milioni nel 1866. Al contrario, come era logico, le riserve auree della Banca Nazionale del Regno dItalia aumentarono di 6 milioni. A coronamento di tutto ci fu la famosa legge del 1° maggio 1866 sul corso forzoso: la moneta del Banco di Napoli poteva essere convertita con loro dei depositi della banca meridionale, mentre si dichiaravainconvertibile la moneta emessa dalla Banca Nazionale. Loro piemontese veniva messo in salvo, mentre quello custodito al Sud fu sostituito da moneta di carta straccia, deprezzata dalla continua inflazione. Il tanto vituperato Banco di Napoli finì per salvare dal fallimento listituto di credito piemontese, garantito dalla non conversionedelle monete di sua emissione. Nel 1898 si mise fine alla pluralità delle banche che potevano emettere moneta. Nacque la Banca dItalia: al Mezzogiorno ne furono concesse 20.000 azioni contro le 280.000 del Centro Nord. La sola Liguria ne possedeva 120.000. Le ex Due Sicilie continuavano a essere considerate terra di conquista. Non solo militare, ma anche e soprattutto economica» (4).

Le pagine storico-economiche del Di Fiore ci portano ad amare riflessioni circa il fatto che in fondo nulla è cambiato. La descrizione dell’accelerato processo di unificazione economica tra Nord e Sud nel periodo post-unitario, tutto proteso a massimizzare i profitti privati a discapito di ogni scrupolo umano, sociale e nazionale, potrebbe essere usata, solo mutandone i soggetti, per descrivere quanto sta oggi accadendo con il processo di globalizzazione planetaria che mette allo scoperto le industrie occidentali, sottoposte, come giusto che sia, ai costi di civiltà del Welfare, sfavorendole rispetto alla concorrenza dei Paesi emergenti, entrati nel WTO, come Cina ed India, che non conoscono Welfare e che anzi praticano il lavoro schiavistico.

Chi ha letto il libro di Giulio Tremonti, La paura e la speranza, sa bene che è proprio alla velocità della globalizzazione, che è stata, volontaristicamente, imposta, abbattendo senza alcuno scrupolo di giustizia o di equità frontiere e protezioni doganali ed innescando una rivoluzione che in soli vent’anni ha unificato in malo modo economie del tutto diverse, per standard sociali, laddove una dinamica più naturale avrebbe consentito tale unificazione in parecchi decenni o secoli ma con minor drammi, che l’autore ìmputa i disastri che stiamo oggi vivendo a seguito della crisi innescata dalla speculazione finanziaria. Altra vecchia conoscenza, quest’ultima, sin, come si è visto, dai tempi del Risorgimento.

Il regno borbonico proteggeva le proprie industrie come fa ogni nazione all’inizio del proprio processo di decollo industriale, quando il capitale indigeno è ancora troppo debole per concorrere con quello estero. L’alternativa sarebbe stata la colonizzazione da parte del capitale straniero. Tuttavia, a parziale rettifica di quanto dice il Di Fiore, bisogna osservare che non è del tutto vero che le industrie borboniche vivevano di sole commesse statali. Le locomotive prodotte a Pietrarsa erano esportate in tutti gli altri Stati italiani e financo in Europa, in quanto la loro avanzata qualità tecnica ne faceva ottimi beni da esportazione, richieste come erano all’estero.

(fine quarta parte di cinque)

Luigi Copertino


Risorgimento?! (parte I)
Risorgimento?! (parte II)
Risorgimento?! (parte III)
Risorgimento?! (parte V)





1) Nel suo citato romanzo, Tommasi di Lampedusa fa dire al Principe di Salina:«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacaletti, le iene». Nel contesto dell’opera, questa frase del Salina è riferita al suo ambizioso fattore, Calogero Sedara, che rappresenta il tipo dell’uomo nuovo liberale, dell’uomo che dalla rivoluzione sa trarre il proprio vantaggio. Una storia, questa, che è un po’ la storia di tutte le rivoluzioni, perché l’uomo è sempre lo stesso anche nel cambiamento dei poteri. Il cristiano sa che l’unica vera rivoluzione, la cui reale efficacia è stata ampiamente dimostrata da una miriade di santi e di sante, è quella della conversione del cuore, della Grazia.
2) Citato in G. Di Fiore, Controstoria dellUnità dItalia …, opera citata, pagina 190.
3) Confronta AA.VV., a cura di F.M. Agnoli, Un tempo da riscrivere: il Risorgimento italiano, Itaca, 2000, pagine 26 e 27. Il fatto che l’occupazione militare del territorio nel Sud durò fino agli inizi del XX secolo, la dice molto lunga sulla realtà di guerra di conquista coloniale che caratterizzò la cosiddetta Unità d’Italia.
4) Confronta G. Di Fiore, Controstoria dellUnità dItalia …, opera citata, pagine 184-189.


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