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Basterebbero due leggi
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Se Berlusconi fosse davvero un duro, e volesse bloccare le periodiche adunate oceaniche della cosiddetta sinistra contro di lui, basterebbe che proponesse e facesse approvare (i numeri ce li ha) una legge. Anzi una leggina, di un solo articolo.

Press’appoco così: «Anche i sindacati hanno l’obbligo di presentare il bilancio consolidato».

Perché solo la CGIL risucchia dalle buste-paga e dalle pensioni un duemila miliardi (lo dico in vecchie lire) l’anno, e - non facendo il bilancio - nessuno sa come li spenda.

In un Paese dal fisco spoliatore per cittadini e imprese, si tratta di un enorme privilegio indebito, di una colossale esenzione fiscale, anzi peggio: della facoltà di disporre di enormi fondi neri. Per chi può spendere una dozzina di miliardi di lire in nero, è facilissimo organizzare una manifestazione con 200 mila, o 2 milioni di partecipanti. Basta pagare loro il viaggio a Roma, e il cestino-colazione, ai partecipanti, presi dagli elenchi degli iscritti.

La cosa è tanto più facile, in quanto  gli iscritti alla CGIL non sono più operai, ma sono in massima parte pensionati, e per il resto dipendenti pubblici: gente con molto tempo libero e una vita monotona, ben felice di avere una distrazione pagata, un viaggetto a Roma gratis, su pulmann e treni e navi noleggiate dagli organizzatori.

Se la CGIL dovesse rendere conto, come ogni altro ente che sollecita e riceve soldi dal pubblico, almeno nel suo bilancio apparirebbero le spese per le spontanee manifestazioni che organizza a Veltroni: quanto per i treni speciali, quanto per i pulmann, quanto per i traghetti («Sono venuti persino dalla Sardegna!», si estasiano i giornalisti), quanto per i 200 mila o 2 milioni di cestini con panini e frutta di stagione.

Così sarebbe più chiaro che la CGIL è ancora e sempre la cinghia di trasmissione del PD, come lo era del PCI, quando entrambi erano sovietici.

Se poi Berlusconi volesse davvero fare il cattivo, e mostrare le celebrate palle, potrebbe d’incanto terminare gli endemici «cortei di studenti e insegnanti» che scendono continuamente in piazza «contro la riforma», ogni riforma, qualsivoglia. Anche qui, basterebbe una legge. Anzi una leggina. Di una breve frase.

Questa: «E’ abolito il valore legale del titolo di studio».

Perchè qui è tutto il motivo per cui gli studenti scendono in piazza e fanno cortei «con» i docenti, anzichè sfilare «contro» di loro, come dovrebbero. Gli studenti sono infatti le prime vittime dei docenti italiani, che difendono il sistema scolastico e universitario italiano: è grazie a loro se escono dalla scuola in gran parte analfabeti, o con lacune immense, o con pseudo-specializzazioni che li rendono inadatti a qualsiasi occupazione seria, oltre quella offerta dai call-center, e a volte nemmeno a quella.

I docenti difendono i loro privilegi (miserabili gli insegnanti elementari), parecchio più grassi gli universitari, che per lo più hanno a loro disposizione miriadi di «ricercatori»alias precari a cui fanno fare, per 800 euro, il lavoro per cui loro sono pagati 3.500 e che non fanno.

Gli insegnanti fanno finta di insegnare, e gli studenti sanno benissimo che non imparano niente. L’unica cosa che fa credere alle vittime di essere nella stessa barca coi loro carnefici e sfruttatori, la casta che rovina  le loro vite e pregiudica il loro futuro, è il valore legale del titolo di studio.

Questi studenti, essendo italioti ossia furbi, vivono nella speranza di poter passare un concorso pubblico per titoli - e dunque sistemarsi magari con modesta paga, ma a vita, in un posto fisso in cui nessuno gli chiederà di mostrare la loro competenza - esibendo come «legalmente valida» una laurea in «Scienze della toelettatura del cane e del gatto», o magari una specializzazione in «Mediazione culturale e cooperazione euromediterranea» come quella che rilascia la celebre università Kore di Enna (Enna!? Avete mai visto Enna?), o una laurea triennale rilasciata dalla famosissima Tel.Ma, l’università telematica romana (ossia per corrispondenza).

Faccio questa banale osservazione dopo lettura dell’articolo di Gian Antonio Stella sul «busineess dei laureati precoci». Da cui risulta che il numero degli studenti che riescono a prendere la laurea «rapida» ancor prima dei tre anni è cresciuta in modo sbalorditivo, del 57% dal 2006 al 2007. Il bello è che quasi la metà di questi laureati-lampo sono sfornati da due sole università: quella di Siena e quella di Chieti (Chieti!). Seguite a qualche distanza dall’università della Tuscia di Viterbo, dalla San Pio V di Roma, dal celebre ateneo di Palermo.

Abbiamo quasi 12 mila nuovi laureati che si sono laureati prima del triennio, bruciando le tappe. E’ una consolazione, visto l’enorme numero di fuoricorso che battono la fiacca per anni in tante altre università. Ma Stella spiega il trucco.

Per attrarre più iscritti (quindi più rette) le università peggiori - ma più svelte e italiote - hanno addirittura stilato convenzioni con intere categorie. Siete finanzieri iscritti alla UIL, desiderosi di un «pezzo di carta» senza cui non si può avanzare nella carriera? O marescialli dei carabinieri che nessuno ha mai chiamato «dottore»? O dipendenti dell’ACI?

Ecco: le suddette università vi offrono il corso-breve riconoscendovi come crediti formativi la vostra esperienza professionale, conquistata sul campo del lavoro o almeno, del posto. Solo che certe università, come quella di Enna, riconoscono 124 crediti sui 148 richiesti per dare la laurea. Benchè l’ex ministro Mussi avesse sancito che no, che i crediti da riconoscere non devono essere più di 60.

Insomma, un enorme inghippo, con cui le università sfornano laureati che non hanno imparato niente, tranne quel che hanno già appreso sul lavoro; ma che fornisce il pezzo di carta di «valore legale», utile per gli avanzamenti in cui si richiede «un titolo».

I giovani studenti che scendono in piazza, è per questo che combattono accanto ai loro professori. «Per la ricerca», hanno pure la faccia tosta di dire.

Ma quale ricerca. Bisognerebbe metterli in galera, tutti quei rettori e professori, per falso in atto pubblico, esercizio abusivo di professione, ed un’altra dozzina di reati.

Ma riconosco che i tempi non sono maturi. Basterebbe abolire il valore legale del titolo di studio. D’incanto, questa alleanza furbesca e malata fra sfruttatori e sfruttati cesserebbe di colpo. Perchè, al momento del colloquio o del concorso per trovare lavoro, i laureati si sentirebbero dire: «Ah, lei è laureato in mediazione euromediterranea alla Kore di Enna? Non me ne frega niente, caro giovin signore. Vediamo cosa sa fare: mi traduca in arabo-tunisino la seguente frase...».

«Laurea a Chieti? Lasci perdere; mi risolva piuttosto questo calcolo usando la tavola dei logaritmi, o mi parli del diritto brevettuale».

Persino alle Poste, persino alla Pubblica Istruzione (ed è tutto dire) ci si rifiuterebbe di riconoscere come titolo valido una laurea in «scienza del cane e del gatto».

Se il titolo di studio non avesse più valore legale, gli studenti pretenderebbero dai professori che gli insegnassero qualcosa di utile. Qualcosa che gli consenta di passare esami veri su posti di lavoro vero. Certe università chiuderebbero (i tempi non sono maturi per chiudere in cella anche i loro rettori, tutti messi lì da qualche partito o cosca, e dunque appoggiati dalla piazza-CGIL-Vcisl-UILe UGL), e certe altre diverrebbero mete ambite: le ditte assumono gente laureata al Politecnico di X! Andiamo ad iscriverci!

Altre università, magari, finalmente si collegherebbero con le imprese che fanno davvero innovazione (ce ne sono) e che non trovano specializzati e devono assumerli dalla Croazia, chiedendo umilmente che trasmettano saperi veri ai loro studenti.

Magari, persino gli studenti chiederebbero di fare degli stages in fonderie, in aziende chimiche; conosco di persona un caso, un perito quasi settantenne che non riesce ad andare in pensione perchè molte aziende chiedono il suo sapere, acquisito con la pratica e con l’intelligenza, e diventato ormai raro perchè le università non trasmettono competenze analoghe (potrebbe, anzi dovrebbe essere chiamato costui a fare il docente, mica il figlio di Napolitano alla Tuscia University); e quando le aziende gli affidano giovani laureati in chimica industriale da formare per affiancamento, questo perito sapiente scopre che questi non sanno di chimica nemmeno quanto un bambino che ha trafficato col Piccolo Chimico, e soprattutto - per lacune di ragionamento, di testa, di voglia - sono incapaci di capire e di imparare anche «vedendo fare».

Questo fa la scuola, salvo eccezioni: rende i giovani incapaci anche di imparare «vedendo fare». Li rende ermetici persino all’esperienza vissuta (non è un caso che siano sempre annoiati, tranne che in discoteca). Li rende, da quanto posso giudicare (ho presenti vari casi) come separati dalla realtà, gli avvolge la testa in una specie di filtro spesso attraverso cui non passa niente, nessun interesse, nessuna curiosità, nessuna flessibilità; nemmeno la capacità elementare di collegare due ragionamenti o due nozioni.

Gente incapace di fissare l’attenzione per più di qualche istante. E che, per di più, pretende non un lavoro, ma un impiego alla scrivania (e non sa scrivere).

I nostri giovani hanno un bisogno disperato di contatto con la realtà: con la terra, la fabbrica, le macchine utensili, con i capi che ti insegnano qualcosa ad urli. Hanno bisogno di essere mandati coi Sikh che mungono le mucche nelle grasse fattorie lombarde e sanno come si fà, o con i senegalesi che lavorano nella metallurgia del Nord-Est, o almeno con i panettieri egiziani che infornano alle 4 del mattino. O anche coi neri raccoglitori di pomodori in Puglia. Siamo al punto che i nostri giovani, devono imparare da questi.

Lo dico perchè l’altro giorno, qui alla scuola elementare di Bagnaia, una maestra ha sbattuto con violenza contro il muro un bambino romeno di 8 anni. Il bambino è in Italia da due mesi, e non sa ovviamente l’italiano.

Le maestre scendono in piazza contro la proposta di scuole (momentaneamente) separate per bambini immigrati di questo tipo; perchè sono contro la «discriminazione», il «razzismo», eccetera. Salvo poi a sbattere il bambino contro il muro.

Ma cosa volete: magari, la maestra è laureata alla celebre Università Kore di Enna, in «mediazione culturale e cooperazione euro-mediterranea». E la Romania mica sta sul Mediterraneo.

Perchè, avete notato? Le maestre elementari si sono specializzate. Nella scuola di qui, hanno detto alle mamme: se passa il maestro unico, peggio per voi: perchè io insegno la mia materia - che è la matematica - e le altre le insegnerò così così...

Qui c’è qualcosa che non va. Alle elementari, non si insegna matematica. Si insegna aritmetica. Le quattro operazioni. Le tabelline.

Via da questa scuola! I bambini mandiamoli dai Sikh mungitori, dai raccoglitori di olive marocchini, dai metallurgici senegalesi.

Basterebbe l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Ma Berlusconi non lo farà. Questo coraggio, non ce l’ha. Soprattutto, non ha la voglia di rifare un’Italia onesta, che impara onestamente e onestamente pretende un giusto compenso per quel che sa fare, non per titoli, ma per esami non truccati.

Altrimenti, lui stesso non esisterebbe con tutti i suoi miliardi.


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