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Tra noi e loro la pietra angolare, non il negazionismo (prima parte)
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Premessa

Non c’è che dire, questo 2009 si è aperto con eventi che, pur importanti nella loro immediatezza cronachistica, travalicano senza alcun dubbio il momento contingente proiettandosi verso una prospettiva teologica della storia, dunque verso l’Eternità. Dapprima, sul finire dell’anno passato, le accuse da Fini lanciate alla Chiesa circa il presunto silenzio sulle leggi razziali, poi lo sterminio genocidario dei palestinesi di Gaza ad opera dei criminali che sono al governo in Israele, quindi tutta la vicenda della povera Eluana Englaro (un tribunale che sulla base di un «sentito dire», tra l’altro smentito da successive contrarie dichiarazioni, decreta la condanna a morte di una innocente per fame e sete esattamente come sessanta anni fa, in un lager, allo stesso tipo di morte fu condannato San Massimiliano Maria Kolbe, sacerdote polacco), una vicenda che ha posto definitivamente la parola fine sull’Italia quale presunta patria del diritto. Ma il centro di tutti questi avvenimenti, che a chi ben conosce il modus operandi dell’Iniquo si appalesano come tra loro evidentemente collegati, è stato il non ancora del tutto chiuso caso Williamson, il vescovo lefreviano negazionista cui insieme ai suoi confratelli il Santo Padre, in un gesto di paterna misericordia, ha revocato la scomunica con l’obiettivo, come rilevava Maurizio Blondet su questo sito, di porre fine al più presto ad uno scisma doloroso per la Chiesa.

Gesto che ha trovato un notevole ostracismo intraecclesiale. I detrattori del Papa però non hanno affatto spiegato cosa diamine avrebbe dovuto fare un Pontefice di fronte ad alcuni dei suoi figli in difficoltà che chiedevano di essere riammessi alla comunione con lui (1). E’ ormai chiaro a tutti che è stata ordita una trappola ai danni del Papa da parte di quei nemici, interni ed esterni alla Chiesa, che a tutti i costi vogliono perpetuare quel doloroso scisma con l’intenzione di squalificare l’opera, ormai avviata da Benedetto XVI, di chiarificazione esegetica del magistero, soltanto pastorale, del Vaticano II (2).

Queste consorterie nemiche della Chiesa usano, e non da oggi, la trappola dell’«affermazionismo/negazionismo», facendovi cadere più d’uno. Una dicotomia, questa dell’«affermazionismo/negazionismo» che, come tutte le false dicotomie, fanno perdere il senso concreto delle questioni poste sul tavolo. Questioni che, per i cattolici, sono e devono rimanere essenzialmente e squisitamente teologiche.

Maurizio Blondet più di una volta ha giustamente ricordato che è non solo pericoloso ma persino inutile stare a disquisire sulla questione «negazionista». Soprattutto se non si hanno le necessarie competenze storiche ossia se non si è storici professionisti ovvero assegnatari di una riconosciuta autorità accademica. autorità accademica che, del resto, non è sempre sufficiente ad evitare proscrizioni: figuriamoci se non se ne dispone.

Si tratta di una vecchia storia. Ogni epoca e società ha i suoi «idola tribus» destinati a passare con il cambiare dei tempi. Ora, evidentemente, è la volta dell’olocausto. In quanto cattolici - lo ribadiamo - non dobbiamo prenderci pena alcuna: tutto passa, solo Dio resta. Piuttosto quel che dobbiamo denunciare sono le strumentalizzazioni intese a inculcare nell’opinione pubblica ecclesiale la silente ammissione di un nuovo dogma di fede, quello appunto dell’«olocausto».

Una questione questa inevitabilmente intrecciata con quel «fumo di Satana», ossia la cattiva teologia ed esegesi, che è penetrato nella Chiesa approfittando del linguaggio poco chiaro usato dai documenti conciliari e dell’opera distruttiva di tanti neo-teologi invocanti lo «spirito del Concilio», che è poi soltanto quello delle loro elucubrazioni del tutto avulse dai documenti conciliari stessi, letti, però, nella luce della Tradizione. L’importanza della questione che si cela dietro il caso Williamson, che è questione, come si vedrà, del tutto teologica, ci ha costretti a metter giù questa riflessione in merito. Chiediamo scusa per l’ampiezza di certi concetti che si andranno ad esporre ma l’importanza fondamentale dell’argomento sotteso a quanto è successo in questi giorni è tale da non lasciare risparmiare le forze né in lunghezza né, memori dell’antico adagio «repetita juvant», in continue riaffermazioni di alcuni inderogabili contenuti della Fede cattolica.

L’esegesi storico-teologica di Gad Lerner

Uno dei «fabbricatori di opinione» più noti, Gad Lerner, ha rimarcato di recente la tesi della connessione tra l’«antigiudaismo cattolico» e l’«antisemitismo nazista». Una tesi propagandata ad arte proprio per inchiodare i cattolici ad un senso di colpa che non ha, sul piano storico, vere ragioni di essere. Le argomentazioni di Lerner sono state demolite da Franco Cardini il quale ha ricordato che tra antigiudaismo, da «rivedere criticamente» fin quanto si vuole e che comunque si pone sempre e solo su un piano teologico, ed antisemitismo, che invece nasce nel XIX secolo sull’onda della teosofia massonica e del darwinismo, dunque sull’onda di ideologie tipiche della modernità anticristiana, vi è una essenziale diversità che ne impedisce, sotto il profilo sia ideale che storico, la reductio ad unum (3).

E’ necessario leggere attentamente quanto scrive Gad Lerner a proposito dell’esegesi di parte ebraica di quel che egli definisce «il mistero della secolare persistenza ebraica» (4). Perché solo in tal modo trasparirà in tutta la sua chiarezza quale è la vera posta in gioco di tutta la querelle nata intorno al patetico caso Williamson. Scrive dunque Lerner : «Nel dire nuova, Dio ha reso antiquata la prima alleanza. Ma ciò che diventa antiquato e che invecchia è prossimo alla scomparsa (Lettera agli ebrei 8, 13). La profezia contenuta in questo testo apostolico tuttora inserito a pieno titolo fra le lettere di Paolo (benché l’attribuzione sia controversa) [facciamo incidentalmente notare che qui Lerner, che vorrebbe l’espulsione di quella Lettera dal canone proprio perché essa inchioda le false pretese del giudaismo post-biblico, mente sapendo di mentire: sull’attribuzione a San Paolo delle Lettere Paoline, o comunque, come nel caso della Lettera in questione, a discepoli di Paolo che ne hanno riportato fedelmente l’insegnamento, l’accordo tra gli studiosi è ormai oggi quasi unanime, ndr] ha subìto la smentita di diciannove secoli di storia. Sopravvissuti a innumerevoli persecuzioni e tentativi di sterminio, nel Novecento gli ebrei hanno rifondato uno Stato nella loro terra d’origine e sono tornati in milioni a parlare una lingua che pareva morta, a lungo rinchiusa nelle sole funzioni liturgiche. Un enigma, un miracolo, un accidente fastidioso?
Il mondo fatica a rispondere, e con esso la Chiesa che si era concepita come Nuova Israele. ‘Se infatti la prima alleanza fosse stata irreprensibile, non se ne sarebbe cercata una seconda’ (8, 7), minacciava ancora gli ebrei quella Lettera contenuta nel Nuovo Testamento. Riecheggiando il celebre passo paolino della Lettera ai Romani in cui ‘l’indurimento’ della parte d’Israele restia a inchinarsi di fronte al Messia, comporterebbe la sua conversione come passaggio necessario alla salvezza universale».

Lerner gioca spudoratamente con la grande ignoranza dei cattolici, in genere poco esperti di cose esegetico-teologiche. Ciò che Paolo indicava come prossimo a scomparire non era il popolo ebraico in sé, che anzi, ai suoi tempi, si era già irreggimentato nel giudaismo post-biblico, ma il sacerdozio levitico che, in quella «Lettera agli Ebrei», Paolo ricorda essere inferiore al Sacerdozio Universale al modo di Melchisedeq rivendicato da Cristo in Persona con l’istituzione della Eucarestia, rito la cui materia è il Pane ed il  Vino che l’antico Sacerdote dell’Altissimo, e Re di Salem, offrì ad Abramo che gli si sottomise pagando la decima (Genesi 14, 18-20). Ed anche l’Alleanza antica, diventata vecchia, è in effetti scomparsa riassorbita nella Nuova, come succede con il contratto preliminare, che proprio per essere soltanto preliminare non è «irreprensibile», ossia non è completo, e viene sempre riassorbito, mica negato o contraddetto, dal successivo contratto, quello per l’appunto definitivo. Piuttosto, se fossimo nei panni di Lerner, in tema di smentite storiche, ci preoccuperemmo molto di più della grandiosa smentita che la mal riposta speranza messianica dell’Israele post-biblico (il ritorno degli ebrei in Terra Santa quale «avveramento» dell’«era messianica» della Pace Universale) sta subendo. Una smentita epocale testimoniata dalla cronaca quotidiana appalesa ogni giorno di più, proprio a partire dal 1948, ossia da quando è iniziata la fase più acuta di quegli eventi che, con tutta probabilità, ci porteranno tutt’altro che la Pace Globale delle nazioni sotto il Regno del Dio di Israele.

Lerner porta la sua sottile e truffaldina strategia sul piano ecclesiale mediante quell’uso strumentale della storia che Cardini gli ha rimproverato: «La crisi del dialogo ebraico-cristiano decisa ieri dal rabbinato d’Israele - continua il nostro - in seguito alla mancata sanzione del vescovo Richard Williamson, scaturisce certo da un comportamento maldestro del Vaticano, ma evidenzia la difficoltà di Benedetto XVI nel trovare risposta al mistero della persistenza ebraica. Egli fa i conti con un vuoto di dottrina o, se si vuole, un’inadempienza teologica dentro cui i tradizionalisti lefebvriani hanno buon gioco a inserirsi, esprimendo un umore diffuso ben oltre il loro minuscolo drappello. Basti pensare alla potente voce antisemita di Radio Maria in Polonia. In coerenza con insigni dottori della Chiesa, come Ambrogio e Agostino, riconoscendosi in secoli di predicazione del disprezzo nei confronti dell’imperfezione e della colpevolezza ebraica legittimata da quella ‘teologia sostitutiva’ (la Nuova Israele che soppianta la vecchia), costoro approfittano della mancata trasposizione teologica dei deliberati conciliari. Negli ultimi quarant’anni i pontefici hanno revocato l’accusa di deicidio, hanno compiuto importanti gesti d’amicizia verso gli ebrei, hanno perfino riconosciuto (solo nei discorsi, mai in un documento teologico) la validità dell’alleanza contratta da Abramo e ribadita sul Sinai. Ma qui, sull’orlo dell’incognito, si sono fermati».

Dobbiamo certamente dare atto a Lerner che egli ha buon gioco nel suo argomentare proprio a causa di quel «vuoto dottrinale» che egli, giustamente, individua come la debolezza attuale della Chiesa e la forza del tradizionalismo lefreviano. Infatti è innegabile che il linguaggio non inequivoco di un Concilio che si è voluto solo pastorale, e che invece ha indirettamente toccato anche il piano dottrinale, ha portato, nella fase post-conciliare, al crearsi di quel «vuoto» che se i documenti conciliari, e la stessa riforma liturgica, avessero avuto immediatamente una corretta esegesi e ricezione, la quale per essere corretta doveva essere quella che ne imponeva una lettura in continuità con tutta la precedente Tradizione Apostolica, non si sarebbe manifestato. Questo Lerner ma anche, benché da posizioni contrapposte, i neo-modernisti ed i sedevacantisti lo sanno benissimo. Ed è per questo che il fuoco incrociato su Benedetto XVI è iniziato subito all’indomani della sua elezione, conoscendosi da tempo le sue idee circa l’«ermeneutica della continuità» (al di là di ogni sofisma che pur si potrebbe fare, e si è fatto, sull’ambiguità di significato dello stesso, moderno, termine «ermeneutica»: una cosa è certa se per scrivere questo articolo usassimo il linguaggio e lo stile dell’italiano del XVIII secolo non credo che ciò gioverebbe al fine della comprensione di quanto andiamo dicendo da parte dei lettori).

Infatti Lerner, dopo aver spiegato a noi poveri cattolici che credevamo di aver tutto capito ma che nulla invece avevamo compreso fino a che la «luce giudaica» non è venuta ad illuminarci, giunge al fine a sparare sul regnante Pontefice: «E’ stato il cardinale Ratzinger nell’agosto 2000, con la ‘Dominus Jesus’, a delimitare la portata della richiesta di perdono agli ebrei voluta da Giovanni Paolo II; precisando che non vi è salvezza possibile senza il riconoscimento del Cristo. La reintrodotta preghiera latina del venerdì santo per ‘l’illuminazione’ degli ebrei, cioè per la loro conversione, è stato il passo successivo che ha indotto i rabbini italiani a sospendere il dialogo. Nel frattempo il Vaticano ha sposato una vulgata storica che separa nettamente l’antigiudaismo cattolico dall’antisemitismo nazifascista, con ciò escludendo - a dispetto di ogni evidenza - che vi sia stata anche una responsabilità cristiana nel concimare il terreno su cui hanno agito gli sterminatori. Basti pensare, solo un mese fa, alla reazione stizzita dell’‘Osservatore Romano’ nei confronti del presidente della Camera riguardo alle leggi razziali».

L’attacco ebraico frontale a Joseph Ratzinger, è bene ricordarlo, partì sin da quando nelle sue vesti di Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede preparò, di comune accordo, ma questo Lerner lo tace, con Giovanni Paolo II, la «Dominus Iesus». La comunità ebraica già a quel tempo, l’anno 2000, individuò in Ratzinger il suo nemico, benché da parte del cardinale non vi era sicuramente nessuna ostilità antiebraica ma solo l’intenzione di iniziare il cammino di  quell’ermeneutica della continuità che, è bene rimarcarlo, anche Papa Wojtila approvava avendo proprio lui scelto per l’incarico all’ex Sant’Uffizio quel teologo tedesco inviso ai suoi ex amici progressisti che lo ritenevano un traditore del fantomatico «spirito del Concilio».

Ma continuiamo l’esame della «dotta» esegesi di Gad Lerner. Il quale, spalleggiando l’operazione dicembrina alla quale si è prestato Gianfranco Fini, l’utile idiota noachico della comunità ebraica romana, attacca quella che lui chiama la «vulgata storica che separa nettamente antigiudaismo ed antisemitismo». Peccato per Lerner che quella «vulgata» è suffragata da una mole di documentazione storica e da ampie ricerche filosofiche e politologiche sulle origini pienamente moderne, sette-ottocentesche, dunque addirittura illuministe, dell’antisemitismo. Ed a quella che Lerner chiama «vulgata» nulla toglie la constatazione che il precedente antigiudaismo teologico in certe occasioni è stato usato, strumentalmente, dagli antisemiti razziali. Infatti, gli storici ben sanno che non era l’antigiudaismo teologico la vera giustificazione presa a propria base dall’antisemitismo razziale, come è ampiamente provato dall’incontestabile constatazione storica che proprio la Chiesa si oppose sempre, e spesso da sola, senza tentennamenti all’antisemitismo anche quando Essa ancora si esprimeva teologicamente con il linguaggio del tradizionale antigiudaismo.

Lerner, analogamente a quanto fa Mauro Pesce, cerca di addossare al Cristianesimo la responsabilità ultima di Auschwitz ed afferma che il vescovo Williamson: «non è un marziano, ma il prodotto degenere di una corrente di pensiero più vasta... sulla base di una dottrina legittimata dal Nuovo Testamento» che «vede l’ebreo come un essere imperfetto che ha misconosciuto la Verità fiorita sulla sua radice, necessariamente ha vissuto la nascita dello Stato d’Israele come evento sospetto, se non malefico». Qui Lerner, inconsapevolmente si fa portavoce di un’antica tradizione risalente ai Padri della Chiesa alla quale ancora si richiamava Soloviev nel suo «Il Racconto dell’Anticristo» e secondo la quale il ruolo dell’Israele post-biblico sarebbe stato certamente ambiguo, fino al giorno in cui gli ebrei, finalmente delusi dai molti «falsi messia» da loro aiutati ad «emergere» nella storia, non riconosceranno la Divino-Umanità Messianica di Cristo. Di questa ambiguità dell’Israele post-biblico, l’eventualità di una ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, attuale miraggio del rabbinismo fondamentalista ultraortodosso spalleggiato dal governo sionista israeliano, è la più recente e palese manifestazione.

Sbaglia, invece, Lerner laddove imputa tale convinzione, sullo Stato di Israele come «evento sospetto», ai cristiano-sionisti americani i quali, al contrario, aspettano il regno millenario di Israele governato congiuntamente dal redivivo re Davide unito al Cristo apocalittico del millennio. Cristo che, per i cristiano-sionisti, cosa che mette fortemente in evidenza una riduzione «umanitaria» ed un misconoscimento della Divino-Umanità, sarebbe soltanto, o prevalentemente, un «ebreo» mediante il quale alcuni noachici, ossia loro stessi, si salveranno agganciandosi alla «carne di Israele» (5).

Lerner chiude la sua requisitoria con un suadente invito ai Papi a oltrepassare l’ignoto ossia ad affermare chiaramente anche in documenti del Magistero che Cristo non ha tolto ad Israele il suo speciale ruolo di portatore del Dio di Abramo ai popoli tutti della terra, missione che - è sottinteso nelle parole di Lerner - inevitabilmente giustifica un primato teologico di Israele del quale, e qui senza saperlo Lerner parla lo stesso luciferino linguaggio dei cristiano-sionisti, Cristo sarebbe soltanto un’appendice: «E’ indubbio - chiosa il talmudico opinion marker - che la Chiesa stia faticando a elaborare una visione pacificata e amorevole d’Israele anche perché non ha risolto il problema teologico della persistenza ebraica nel mondo, senza conversione».

Dimentica, però, Lerner che la Chiesa sin da subito, dai tempi apostolici e patristici, ha già risposto al «problema teologico della persistenza ebraica», nel senso già segnalato dell’ambiguità del ruolo dell’Israele post-biblico prima del finale riconoscimento da parte sua della Divino-Umanità Messianica di Cristo. San Paolo stesso, il persecutore Saulo di Tarso, ancor prima e più dei tantissimi ebrei che nei secoli, come lui, si sono «arresi» a Cristo, è in qualche modo, con la sua folgorazione sulla via di Damasco, l’archetipo della sinagoga ostile alla Chiesa che alla fine entrerà devotamente in Essa.
Un «affare» essenzialmente teologico

Come si vede, in tutta la faccenda «Williamson» quel che è essenziale è l’aspetto teologico e storico-teologico  ed è solo questo che deve essere oggetto delle nostre cattoliche preoccupazioni.  Non il «negazionismo». Non dobbiamo assolutamente permettere nessuna confusione tra il livello teologico, che è il nostro, e quello della trappola «affermazionismo/negazionismo».

Affrontare la sfida teologica postaci, dopo Auschwitz, dal giudaismo post-biblico non significa affatto negare valore spirituale alla sofferenza degli ebrei nei campi ma rivendicare il Primato Salvifico Universale di Cristo anche per dare a quella sofferenza il suo giusto posto, l’unico dal quale può derivarle il massimo valore spirituale possibile: essere, essa, soltanto partecipazione alla Sofferenza di Cristo sulla Croce, di quel Gesù che dalla Croce ha invocato il perdono del Padre per i suoi carnefici (da non identificare certo con l’intero popolo ebreo ma solo con parte del sinedrio: infatti sinedriti erano anche Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea che pur avevano riconosciuto in Lui il vero ebraismo ed il Messia).

San Bernardo di Clairvaux, il mistico per eccellenza dell’età medioevale, predicava, allo scopo di fermare i pogrom, che nell’ebreo sofferente vi era il Cristo sofferente. Solo una ferma Teologia dell’Unicità Olocaustica della Croce può dare senso e significato metafisico a tutti gli stermini di cui la storia è purtroppo cosparsa. Infatti non è cristianamente possibile, né giusto, oscurare la memoria degli altri stermini in nome della sola memoria di quello ebraico, come se esso fosse l’unico della storia o fosse quello paradigmatico oltre il quale l’umanità avrebbe finalmente stabilito il suo irrevocabile «mai più». Un paradigma assolutamente smentito dai fatti del dopo Auschwitz che di stermini, fino a quello recente di Gaza, hanno riempito persino le cronache.

Ora, nonostante che gli eventi successivi abbiano abbondantemente smentito l’assolutezza di quel paradigma, Auschwitz, per ammissione del «dottor sottile» dell’intellighentsia illuminista accademica, il già più volte ministro e capo di governo, Giuliano Amato, è diventata la  «teologia civile dell’occidente». Si è, in altri termini, fatto assurgere la shoah ad un evento metafisico, teologico, salvifico.

Ebbene: se questa «metafisicizzazione» non è laicamente accettabile sul piano storico o politico, quello nel quale operano gli storici e dovrebbero operare uomini politici di cultura illuminista come Giuliano Amato, tantomeno è accettabile, sarebbe implicita apostasia, da parte della Chiesa cattolica, se non, come si è detto, nei termini di una partecipazione, alla stregua di quella di tutti gli altri popoli vittime di stermini, della sofferenza ebraica al Sacrificio Salvifico della Croce.

In una «memoria» unilaterale ed esclusiva, obbligatoriamente imposta come un neo-culto, un rito universale di massa, una religione civile, vi è, senza dubbio, molto dello Stato Etico e, dunque, vi è molto, moltissimo, di totalitario.

In altra occasione, abbiamo illustrato proprio questo aspetto della questione (6). Diversi interlocutori di formazione culturale laica hanno molto gradito quelle nostre osservazioni perché dal loro punto di vista «laico» le hanno recepite come un’accusa allo Stato repubblicano di aver ceduto ad un nuovo confessionalismo: ed in effetti questa accusa l’abbiamo esplicitamente formulata ma in modo «provocatorio», invocando cioè l’eterogenesi dei fini ossia facendo cattolicamente rilevare che due secoli di lotta contro la Chiesa per la laicizzazione dello Stato sembrano ora risolversi nella sua «talmudizzazione».

Fu in quella occasione che abbiamo avuto la riprova che di un culto, un dogma, effettivamente stiamo trattando. Infatti, nelle polemiche seguite al convegno nel quale esplicammo le nostre osservazioni, L’Unità, nell’allora gestione di Furio Colombo, in un articolo di fondo, a firma di Valentina Pisenty, trattò anche dei contenuti del convegno e del libro che li raccoglieva e a titolo dimostrativo tra tutti gli interventi, oltre ad un altro, citava proprio il nostro con la chiara intenzione di evidenziare il «sacrilegio», il «crimine di eresia», la «lesa maestà» alla memoria dell’olocausto.

Navigando tra Scilla e Cariddi per rispondere a Lerner

In questi «anni difficili», mantenere la necessaria serenità di giudizio e camminare sulla via dell’Amore di Dio, senza essere fraintesi dall’una o dall’altra parte, sta diventando sempre più arduo. Ci succede sempre più spesso di essere rimproverati da l’una o dall’altra parte di non brandire la spada verso gli «infedeli», siano essi gli ebrei o i mussulmani. Noi, però non siamo né antisemiti né antiarabi (distinzione tra l’altro ridicola dal momento che gli arabi sono semiti). Quel che ci interessa evidenziare è la perversione costituita dall’uso politico del Santo Nome di Dio, tipica di questi nostri tempi «apocalittici». In questo consiste, innanzitutto, il fondamentalismo, una malattia dalla quale, qui sta il pericolo comune, possiamo essere contagiati tutti.

Nell’articolo «Il martirio di Gaza tra politica ed escatologia» , pubblicato proprio su questo sito, ad esempio, abbiamo cercato di spiegare l’influsso che un certo equivoco millenarismo ebraico, a sfondo gnostico-cabalista, ha avuto sul sionismo e in tal modo abbiamo messo chiaramente in evidenza che se nella cultura politico-religiosa ebraico-israeliana ci sono fenomeni inquietanti, quelli che poi prendono forma nel fondamentalismo della destra rabbinica ultraortodossa, non bisogna affatto cadere nella tentazione della responsabilità collettiva e porre sul banco degli accusati tutti gli ebrei, molti dei quali sono persone oneste e critiche verso il loro governo, questo sì criminale.

Abbiamo, nell’occasione richiamata ed in altri scritti, ricordato che esistono ebrei che davvero restano fedeli al Dio di Abramo, che è Dio di amore per tutte le genti, sicché per questo quegli ebrei, magari senza ancora esserne coscienti, sono già sulla Via di Cristo, e che il vero ebraismo, già evidente nell’Antico Testamento, si è adempiuto e perfezionato nel Nuovo Testamento, in Cristo che era prima che Abramo fosse e che Abramo «vide» per grazia dall’Altissimo a lui concessa prima di morire (Giovanni 8, 56-58).

Lamentavamo, cioè, dell’odio che va riempiendo il mondo e che non porterà nulla di buono se non lo si ferma in tempo. Un odio che potrebbe inavvertitamente contagiare anche i cattolici spingendoli, per opposizione ai «novatori giudaizzanti», verso esiti marcioniti.

Una questione quella relativa al pericolo marcionita ed al vero «ebraismo», che è solo quello cristiano, che sta diventando cruciale proprio in parallelo alla «sacralizzazione» del genocidio ebraico. Sempre più spesso si mettono in opposizione Cristo, inteso come semplice e fallito profeta ebreo, e San Paolo al quale è attribuito, come propugnatore della «Ecclesia e gentibus», il merito, o a seconda dei punti di vista, la responsabilità di aver «inventato» il Cristianesimo, cosa che non sarebbe stato affatto nelle intenzioni di Gesù. E’ questa l’esegesi di Mauro Pesce, divulgata da quel «lupo travestito da agnello» (si faccia caso ai suoi modi edificanti e gentili) che è Corrado Augias. Un’esegesi per la quale Cristo, «ebreo» e «non cristiano», sarebbe stato solo un errabondo ed oscuro predicatore ebreo del I secolo, morto tragicamente ed altrettanto tragicamente mal interpretato dai suoi discepoli i quali avrebbero inventato quella «cattiva» cosa che sarebbe il Cristianesimo responsabile, nelle sue realizzazioni storiche, in primis la Chiesa cattolica, dell’antisemitismo dilagato poi fino al culmine dell’olocausto. Da qui la tesi storica, falsa e preconcetta, dell’essenziale continuità tra «antigiudaismo teologico» ed «antisemitismo razziale», fatta propria dalla comunità ebraica e dai suoi succubi «noachici» come Gianfranco Fini. Come può constatarsi, la «teologia civile dell’occidente» ritorna ogni qual volta si vuole, come vuole Augias, attaccare la Cattolicità. Ed è questa la linea seguita anche da Gad Lerner nel suo articolo sopra esaminato. Essa è la linea di certo storicismo critico e, soprattutto, la linea del giudaismo post-biblico di oggi.

Onde evitare il marcionismo, da un lato, e, dall’altro, il «talmudismo», e soprattutto respingere la riduzione del cristianesimo ad una fallita «eresia ebraica», è assolutamente necessario, cruciale, stabilire quale sia il vero ebraismo: quello annunciato da Patriarchi e Profeti ed adempiutosi in Cristo in perfetta continuità spirituale e storica tra Antico e Nuovo Testamento oppure quello, diverso dal primo, già professato dal sinedrio che condannò Cristo e poi codificato dalla sinagoga nel testo masoretico e nel Talmud, quello cioè che prefigurava il Messia come liberatore politico per la gloria universale di Israele e che oggi, persa la speranza nel Messia individuo, ha identificato il messia nel popolo ebreo medesimo?

Nel II e I secolo avanti Cristo esistevano, infatti, molti «ebraismi» e di questi hanno avuto storicamente successo soltanto quello cristiano e, appunto, quello talmudico. Questa constatazione storica ci consente di risponde in pieno alla provocazione di Gad Lerner sulla «persistenza ebraica nella storia». Qui, infatti, il mistero incontra, con tutta evidenza la storia, e già i Padri della Chiesa (San Girolamo apprese proprio dai rabbini certi metodi esegetici «tipologici» che poi gli permisero di meglio comprendere la Scrittura in vista della sua traduzione nella Vulgata) si ponevano domande sul senso del permanere di Israele dopo Cristo. La risposta, che già dava Paolo, era quella per la quale gli israeliti sono attualmente «rami recisi» dall’Olivo Santo di Israele, che, per l’appunto, nella chiara lettera ed intelletto di Paolo non è, come fa oggi intendere l’ambiguità verbale del cardinal Kasper (ci torneremo), l’attuale giudaismo ma la Fede di quell’Abramo che «vide» Cristo. La recisione degli israeliti resterà tale, per volere divino, in attesa che tutte le genti entrino nell’Alleanza del Dio di Abramo.

Alleanza che Giovanni Paolo II ha definito «non revocata» ma che, è necessario precisare per evitare una lettura antitradizionale di queste parole, è tale in quanto, appunto, adempiuta e perfezionata e quindi continuata e superata da Cristo nel passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, come succede anche nella vita civile nel passaggio dei contraenti dal contratto preliminare a quello definitivo.

Ma la risposta che i Padri della Chiesa, sulla scorta del magistero apostolico, hanno sapientemente e profeticamente dato alla questione implica anche l’evidenziare una certa ambiguità spirituale nell’Israele post-biblico, che la storia si è poi incaricata di dimostrare essere effettiva. Quella stessa ambiguità che oggi si sta rivelando nella cultura politico-religiosa del rabbinato ultraortodosso e che già nei secoli passati ha avuto diverse manifestazioni nei tanti pseudo-messia e falsi messia che hanno contrassegnato l’intera storia ebraica post-biblica.

Quanto dice San Paolo (gli ebrei sono i rami recisi dall’Olivo santo di Israele, ossia dalla vera Fede di Abramo, per l’innesto al loro posto - qui è il senso vero della oggi troppo ripudiata teologia della sostituzione - dei gentili in attesa del loro reinnesto, quando tutto l’Israele, quello degli ebrei e quello dei gentili, sarà ricomposto nell’Unità originaria come voluta da Dio prima del peccato adamitico: e non si dimentichi che proprio l’affermazione della «recisione» dell’Israele post-biblico permetteva  a San Paolo, che pure si struggeva per i suoi fratelli nella carne, dei quali rammentava l’«elezione irrevocabile» - attenzione: non l’«Alleanza» - di ingiungere, nella Lettera a Tito 1,14, al suo interlocutore a proposito di certi giudaizzanti «redarguiscili recisamente, perché si risanino nella fede, non dando retta a favole giudaiche e a precetti d’uomini che voltano le spalle alla verità») trova il suo principale fondamento nelle parole stesse di Gesù rivolto ai dottori del Tempio: «Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare» (Matteo. 21, 43). Quel «popolo che farà fruttificare il Regno» è la Chiesa, il Nuovo Israele, popolo non etnico perché composto da tutti i popoli chiamati in Cristo, non nell’Israele post-biblico!, ad entrare nell’Alleanza di Abramo.

Non dimentichiamo che Saulo parlava ed agiva su esplicito mandato di Cristo in Persona, mandato ricevuto sulla via di Damasco, e che l’«Ecclesia e gentibus» non è solo paolina ma anche assolutamente petrina. Fu la voce di Cristo a rimproverare Pietro, che da buon ebreo, ancora incapace di comprendere l’universalità della fede già presente nel Vecchio Testamento, si rifiutava di entrare nella casa del centurione Cornelio, ammonendolo di non disprezzare come impuri coloro che Lui aveva, con il Suo Sacrificio, resi puri, ossia i gentili. Pietro, con grande scandalo degli altri ebrei, e persino di Giacomo ed altri ancora chiusi nell’esclusivismo ebraico, entrò in casa di Cornelio dove si manifestò lo Spirito Santo, lo stesso che, a Pentecoste, aveva permesso, segno di Universalità, ai pagani presenti alla sua, di Pietro, predicazione di comprendere nelle loro rispettive lingue quel che egli annunciava in ebraico o aramaico (Atti 2, 10 e 11). Non a caso Pietro fu condotto dalla Provvidenza a testimoniare Cristo con il martirio a Roma, l’Urbe che sin dalle sue origini «mitiche» fu contrassegnata con lo stigma dell’universalità per raccogliere, in vista dell’Incarnazione, le genti sparse sulla terra: così è stato anche secondo la visione, del profeta Daniele, relativa ai quattro imperi, dei quali l’ultimo era appunto quello romano, che avrebbero preceduto ed accolto il Messia. Non a caso Saulo di Tarso era, al contempo, fariseo e cittadino romano (7).

Dunque, il vero fondatore del cristianesimo è, in ultimo, Cristo stesso. Non San Paolo come certa esegesi tende oggi a far credere, usando il metodo storico-critico contro la Tradizione e non a suo appoggio (non è il metodo storico, in sé, ma l’uso fazioso e fondato su pregiudizi razionalisti preventivi che se ne fa, o che ne fanno certuni, come Mauro Pesce o Cacicchi, ad essere contrario alla Tradizione apostolica). Paolo, tra gli apostoli, insieme a Pietro sulla cui roccia Cristo ha fondato la Chiesa (San Gregorio Magno parlava di Pietro e Paolo come dei pilastri incrollabili della Chiesa romana ossia della Chiesa Universale), è stato soltanto il più grande nell’opera di iniziale diffusione della Buona Novella.

Assoluta necessità, in un’ottica di continuità ermeneutica, di un intervento chiarificatore da parte del magistero

Ma torniamo alla questione degli illegittimi risvolti teologici della querelle sul «negazionismo». Non senza aver osservato però che la storia è di per sé sempre revisionista e che pertanto da un lato si deve evitare di confondere i «revisionisti» con i «negazionisti» e dall’altro non si può accettare, in uno Stato liberale di diritto, o che pretende di essere tale, e che aspettiamo ora alla prova dei fatti, la soppressione della libertà di ogni seria ricerca storica mirata alla verifica il più possibile esatta di quanto accaduto nel passato. Tuttavia, come si è già detto, quel che non può essere lasciato passare, non solo cattolicamente, per ovvie ragioni confessionali, ma anche laicamente, è il fatto che uno sterminio, tra i molti che purtroppo nella storia vi sono stati, e che nessuno ha intenzione di discutere nella sua realtà storica (cosa che lasciamo ben volentieri agli storici di professione non avendo noi alcun titolo per farlo né vantando in proposito l’arroganza del dilettante che dimostrano sovente molti negazionisti) sia diventato, e proprio nell’Occidente così fiero, ad esempio a proposito dell’assassinio legalizzato della povera Eluana Englaro, della raggiunta «laicità» dello Stato, un evento teologico-messianico da celebrare ritualmente in termini sacrali e confessionali.

Termini tali da costituire, lo si voglia o meno, una sfida che l’ebraismo post-biblico, quello per il quale il vero «messia collettivo» sarebbe lo stesso popolo ebreo che soffre per la salvezza intramondana del mondo (l'era della Pace universale), sta portando al cristianesimo. Non è Cristo, dicono ormai apertamente i «fratelli maggiori», sulla scorta del medioevale Maimonide, il messia e noi di Lui non abbiamo bisogno, Lui va bene solo per voi goym: si rileggano, ad esempio, le recenti dichiarazioni del rabbino di Venezia e del rabbino Di Segni, contro Benedetto XVI, accusato, a proposito della reintroduzione con la Messa tradizionale della preghiera per la conversione degli ebrei, di aver preteso, dopo la Nostra Aetate, di riaffermare l’Universalità e Unicità della Mediazione Salvifica di Cristo.

Come si vede la questione non è quella del «negazionismo». La questione è squisitamente teologica. E rientra, in una prospettiva storica illuminata teologicamente, nel generale processo di apostasia e di raffreddamento della amore e della fede in Cristo. Questo è il motivo per il quale ciò che ci preme è soltanto che la Chiesa proclami apertamente urbi et orbi, pur senza negare l’innegabile, che la persecuzione nazista non ha, non può avere, nessuna valenza teologica o salvifica o messianica o, appunto, «olocaustica». Proclamazione che, come si è già detto, non sarebbe affatto in contraddizione, né teologicamente né umanamente, con il pur esplicito riconoscimento che certamente anche la sofferenza degli ebrei, nei lager come in altre occasioni, alla pari del resto di quella di qualsiasi uomo o popolo a qualsiasi latitudine o in qualsiasi epoca, è partecipazione all'unica sofferenza salvifica, quella di Cristo sulla Croce.

Abbiamo letto tutti le parole pronunciate dal Santo Padre in apertura dell’udienza del 28 gennaio 2009 con le quali ha affermato un chiaro «no» ad ogni negazionismo o riduzionismo circa la Shoah (8). Affermazioni sostanzialmente ripetute il 13 febbraio a cospetto dei rappresentanti delle comunità ebraiche americane in Vaticano. Un «no» senza se e senza ma. Figli obbedienti di Santa Romano Chiesa ne prendiamo rispettosamente atto, pur rimarcando che non si tratta per niente di un pronunciamento dogmatico ex cathedra come falsamente presentato dalla stampa. Né abbiamo difficoltà a prendere atto delle parole del Papa neanche da un punto di vista più «laico» ossia storico, pur ribadendo che la libertà di ricerca storica non può mai essere messa in discussione.

Tutto ciò, però, non ci impedisce anzi, dal momento che i media hanno mestato nel torbido, ci obbliga ad auspicare che il Papa stesso intervenga in sede interpretativa nel senso di precisare, conformemente alla fede cristiana, che se è vero che chi nega la sofferenza degli ebrei durante la persecuzione nazista (non è in questione l’entità di tale sofferenza proprio secondo quanto ha detto lo stesso Papa: la violenza su uno equivale alla violenza su milioni) nega la Croce, è però cristianamente altrettanto e prioritariamente vero, anzi verissimo, che quella sofferenza non è, autonomamente, un «olocausto» alternativo, con il quale magari oltraggiando le vittime si pretenda oggi di giustificare politiche di sterminio e di apartheid nel Vicino Oriente, perché - ripetiamo -, per la dottrina cristiana, la sofferenza di ogni e qualsiasi uomo o popolo, in ogni epoca storica e ad ogni latitudine, dunque anche la sofferenza degli ebrei nei campi, ma non solo la loro, è soltanto partecipazione alla Sofferenza di Cristo sulla Croce, unico vero Olocausto salvifico riconoscibile per tale da un cristiano. La sofferenza degli ebrei ieri come quella dei palestinesi oggi è solo partecipazione al Calvario nel senso che, per stare alle parole dell’Apostolo, le sofferenze umane completano ciò che manca alla Sofferenza di Cristo, l’unica veramente Salvifica.

Ben ha compreso la questione un utente di questo sito, il signor Alessandro Mangiabene, che in una lettera indirizzata al direttore Blondet e debitamente pubblicata il 3 febbraio 2009, ha giustamente parlato, a proposito della questione in esame, di «analogia (non… equivalenza escatologica…) tra il Cristo - innocente - morto per noi e la morte di qualsiasi altro innocente lungo il corso della storia: il che non significa che quest’ultima morte possa o debba avere lo stesso valore salvifico di quella di Gesù. Il raffronto, insomma, diviene un invito alla carità e alla compassione, secondo… l’esempio di Papa Pacelli e Oskar Schindler».

Il da noi auspicato intervento esegetico del Papa, circa le sue affermazioni nelle ricordate occasioni, è quanto mai necessario al fine di evitare pretestuosi equivoci o usi inappropriati delle sue parole e per riconfermare noi cattolici nella fede tradizionale per la quale il popolo ebreo, dopo Cristo, benché caratterizzato dalla sua natura teologica più che etnica, è però un popolo come tutti gli altri non avendo esso alcuna speciale missione messianica da adempiere. Ora questo chiarimento ci sembra sempre più urgente proprio nella prospettiva di quell’«ermeneutica della continuità», se davvero tale vuole essere, fatta propria dal magistero di Benedetto XVI. Infatti, è innegabile che dal Concilio Vaticano II in poi molta teologia «giudaizzante» vuol far passare nella Chiesa, accettandola più o meno implicitamente, la pretesa «messianica» dell’Israele post-biblico, mettendo così a repentaglio l’Universalità ed Unicità della Mediazione Salvifica di Nostro Signore Gesù Cristo, da ultimo ribadita da Giovanni Paolo II nella Dichiarazione «Dominus Iesus» a suo tempo preparata dal cardinal Ratzinger. Si torni, dunque, con i Padri della Chiesa e molti dottori e mistici della lunga storia della Chiesa, ad interrogarsi sul ruolo ambiguo, verso la Fede cristiana, del giudaismo post-biblico. Una precisazione teologica, questa del carattere «ambiguo» di certe tendenze spirituali che nel corso dei secoli si sono manifestate in ambito giudaico-postbiblico, che del resto trova conferma nella ricerca storica, quella seria e non quella dei negazionisti, che ha appurato (si vedano in proposito gli studi dello storico ebreo George Mosse o del politologo Giorgio Galli) il carattere a suo modo «nazista» dell’ideologia sionista nonché le radici esoteriche (gnostico-cabaliste) di entrambi, nazismo e sionismo.

Se il magistero oggi utilizzasse un linguaggio più chiaro, tenendo conto che non tutti hanno le giuste competenze storiche e teologiche per leggere tra le righe, non si avrebbero ridicole dichiarazioni come quelle del vescovo di Regensburg, il quale, in occasione dell’affaire «Williamson», si é affrettato a dire che non permetterà al presule lefreviano di mettere piede in alcuna proprietà della sua diocesi, perché sarebbe «fuori della Chiesa». Ci sembrava che il Santo Padre avesse revocato la scomunica e che, pur sussistendo molti altri problemi da chiarire tra Roma ed Econe, non si possa più tecnicamente parlare di esclusione dalla comunione ecclesiale.

Ma secondo il vescovo di Regensburg, Williamson sarebbe ancora al di fuori di tale comunione per aver detto cose «disumane e sacrileghe». Concetti analoghi ha espresso anche il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin, e quello di Salisburgo, Alois Kothgassen, che, insieme al cardinale Lehmann, si è messo a capo della fronda antiratzingheriana dell’episcopato austro-tedesco ed ha cianciato in questi giorni di «cessata fiducia, da parte della Chiesa locale, nell’Autorità centrale della Chiesa Universale» domandandosi con sfacciata spudoratezza «antiromana» se «E’ necessario che la Chiesa cattolica sia ‘purificata’ per essere ridotta a una setta nella quale resterebbe solo un pugno di membri  fedeli alla linea ufficiale?» (ASCA-AFP 11 febbraio). Queste scandalose dichiarazioni di ribellione antiromana dimostrano quanto la «teologia dell’olocausto» abbia già inciso anche nella Chiesa. L’utilizzo di una categoria come quella del «sacrilegio» a proposito della discussione su un evento storico, tragico quanto si vuole ma non salvifico o messianico, é indicativo di tale incidenza. Siamo sicuri che se Williamson avesse confessato di avere dubbi circa il dogma dell’Immacolata Concezione non avrebbe avuto nessun problema ed il vescovo di Regensburg lo avrebbe magari invitato a presenziare qualche dotta catechesi al suo, sventurato, gregge!

Un nostro carissimo amico di profonda fede cattolica ci scriveva in questi giorni molto preoccupato. Con il suo consenso riportiamo le sue notevoli osservazioni: «Facevo alcune considerazioni su ciò che ha detto il Papa oggi a riguardo della Shoa: ti confesserò che tempo fa avrei pensato ad un ennesimo cedimento di fronte ai diktat della lobby sionista. In effetti i giornali oggi gongolano dicendo che il rabbinato di Israele ha affermato essere le parole del Papa ‘un passo avanti’ anche se però ‘esigono le scuse’. Ma nel discorso del Papa io vedo che esprime ‘piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza’. E qui, mi sbaglierò, è già un affermare a chi ha orecchie per intendere che è ormai in atto la Nuova Alleanza e conseguentemente un riaffermare implicito che il Messia ed il nostro Unico Salvatore è Gesù Cristo, e non so quanto un talmudico possa essere contento di questo. Poi dice: ‘In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi tornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite a Auschwitz, testimonianze delle vittime innocenti di un odio razziale. Auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La sua memoria sia per tutti monito contro l’oblio, il negazionismo e riduzionismo perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. La Shoah insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umilii la dignità dell’uomo’. Premetto (come già ti scrissi) che il Papa ha vissuto quegli anni tremendi e siccome Cristo si fa incontrare negli avvenimenti umani non può certamente prescindere da ciò che ha vissuto. Lui non mi pare stia a sindacare sui numeri e sulle modalità con cui si esplicò un odio verso gli ebrei, ma anche contro gli zingari, di cui non si parla mai, gli slavi, i cattolici (vietatissimo dirlo), e tutti i diversi (von Galen ebbe il coraggio rischiando la vita di denunciare la uccisione dei malati di mente): questo è compito degli storici (o meglio lo sarà in tempi meno ideologicizzati e più sereni). Lui, almeno mi pare, mette giustamente in guardia contro chi vuole negare che vi sia stato odio e che quest’odio abbia avuto conseguenze: anche se fossero stati ‘solo’ 300.000  ed anche fossero morti di fame e stenti (come è morta oggi, nella ‘libera e democratica repubblica italiana nata dalla resistenza al nazifascismo’, la povera Eluana Englaro, nda) e malattie anziché nelle camere a gas, sarebbe stato un genocidio comunque. Come pure se la prende con il rischio di un riduzionismo (‘... ah, ma se allora sono di meno allora la cosa non è stata così grave!’): un po’ come sta succedendo con i morti di Gaza. Sono rimasto senza parole quando ho ascoltato un commento di padre Livio Fanzaga che, accreditando tranquillamente un articolo (negazionista) di Lorenzo Cremonesi in cui diceva che i morti ‘sarebbero stati solo 600’ diceva che insomma bisogna stare attenti alle notizie. Ma insomma!!! Anche se fossero stati ‘solo 600’ hai il coraggio di stare tranquillo? Ma con Gaza evidentemente si può fare: si può essere negazionisti e riduzionisti. Riporto di nuovo: ‘Auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La sua memoria sia per tutti monito contro l’oblio, il negazionismo e riduzionismo perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. ‘Caspita! questo è sacrosanto! Io non credo che ciò che è successo a Gaza sia stato ininfluente su questa frase. L’odio viene fuori anche da chi è animato delle migliori intenzioni. Ed a questo proposito hai fatto benissimo Luigi a notare come spesso anche nei commenti… vi sia questo rischio. Nessuno è esente da questo rischio (personalmente credo anche vi sia una buona quota di provocatori che capitano non a caso in siti… che cercano di essere critici su ciò che stiamo vivendo). Insomma credo che più si vada avanti più risulti che, nonostante qualche limite ‘professorale’ su cui abbiamo già discusso, il Papa sia veramente mosso dallo Spirito Santo: ti rendi conto? Ha avuto il coraggio (santo coraggio) di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, di fare questo ‘atto di paterna misericordia’ (ed il vescovo ‘incriminato’ le sue dichiarazioni, la stampa non lo dice, le aveva fatte già qualche mese fa).  Di agire insomma come un vero padre. Come pure di parlare per tramite di Martino su Gaza denunciando la situazione. Certamente ha un suo stile, diverso da Giovanni Paolo II. Ma credo che si rischi di sottovalutarlo. Ed ancora di più si rischia di sottovalutare l’azione dello Spirito Santo che non lascia mai sola la Sua Chiesa. Anche se certamente, come ci ha promesso Gesù, ci saranno croci per tutti».

Abbiamo richiamato tali considerazioni, per le quali ringraziamo l’amico autore, perché si tratta di osservazioni animate da sana e chiara razionalità vivificata da autentica fede. Purtroppo dobbiamo aggiungere una nostra osservazione, ricollegandoci a quanto dicevamo circa il neo-linguaggio ambiguo ormai in uso da troppi decenni anche all’interno della Chiesa. E’ acquisizione recente l’uso dei termini «Primo» e «Secondo» Testamento in luogo dei più tradizionali «Vecchio» e «Nuovo». Anche il Papa, come ricorda il nostro amico, ha usato il nuovo linguaggio. Nulla di male in questo se non si intende svalutare la centralità di Cristo che, nella Sua Persona, è il vero raccordo tra i due Testamenti. Il fatto è che però la nuova terminologia in questione è prevalsa proprio con l’intenzione di svalutare tale centralità ed affermare se non la centralità perlomeno la «parallelità» dell’Israele post-biblico. Non è certamente in questo senso che il Santo Padre ha usato tale terminologia. Ma in tal senso la usa, e l’ha usata anche in occasione dell’affaire «Williamson», ad esempio, un Gad Lerner.

Torna dunque il problema dell’utilizzazione nel Popolo di Dio, nell’Ecclesia, di termini, di elaborazione teologica, ossia usati tra i «tecnici» della teologia, per comprendere i quali nel loro giusto ed esatto significato e senso, senza cadere in equivoci teologici, è necessario per l’appunto una cultura teologica, almeno minima, che non tutti hanno. E poi si ciancia di «maggiore partecipazione dei laici»: ma il povero padre di famiglia alle prese con i problemi di tutti i giorni, oggi poi con la crisi economica e la paura della disoccupazione, può davvero perdere tempo per informarsi sul significato autentico di certa nuova terminologia che poi si ritrova spiattellata su Repubblica da Gad Lerner ma usata in senso equivoco e truffaldino?
E non sarebbe allora più giusto che i Pastori utilizzino la terminologia tradizionale riservando le «novità» linguistiche ai loro dotti simposi?

Ci scriveva ancora quell’amico: «Ma mi è capitato di leggere questa frase del cardinale Kasper. E’ tratta da un articolo di Crippa sul Foglio: ‘Per quanto riguarda il documento più discusso e controverso di Ratzinger, la ‘Dominus Iesus’, vale la pena ricordare un intervento del cardinale Walter Kasper, presidente del comitato internazionale per i Rapporti tra cattolici ed ebrei, in cui il porporato suggeriva una ‘interpretazione autentica’ del pensiero ratzingeriano sull’ebraismo tesa il fugare i dubbi: ‘Le relazioni tra cattolici ed ebrei non sono un sottoinsieme delle relazioni interreligiose’, scriveva. ‘ Nello spirito della chiesa, l’ebraismo è unico tra le religioni del mondo, perché, come afferma la ‘Nostra Aetate’ esso è ‘la radice dell’olivo buono sulla quale sono stati innestati i rami dell’olivo selvatico dei gentili’. E, soprattutto, la ‘Dominus Iesus non afferma che tutti debbano diventare cattolici per essere salvati da Dio. Al contrario, dichiara che la grazia di Dio - che, secondo la nostra fede, è la grazia di Gesù Cristo - è a disposizione di tutti. Di conseguenza, la chiesa crede che l’ebraismo, cioè la risposta fedele del Popolo ebreo all’alleanza irrevocabile di Dio, è per esso fonte di salvezza, perché Dio è fedele alle sue promesse’».

Giustamente, il nostro caro amico osserva in merito all’interpretazione kasperiana: «Ora questa ‘interpretazione autentica’ del pensiero ratzingeriano non mi convince assolutamente. Un conto è dire che una persona che non è cristiana si può salvare in forza della Grazia di Gesù Cristo, e qui niente da dire. Ma dire che ‘l’ebraismo, cioè la risposta fedele del popolo ebreo all’alleanza irrevocabile di Dio, è per esso fonte di salvezza, perché Dio è fedele alle sue promesse’, ad uno che conosce il Talmud, credo dia qualche problema. Perché tra l’altro non si capisce a quale ebraismo si riferisca il cardinale. E il mistero dell’Incarnazione? A che cosa sarebbe servito? Almeno a cosa serve per gli ebrei? Non si sarà spiegato bene? E sia: ma allora come mai per Kasper nessun ammonimento? Nessun richiamo? Allora preferisco un vescovo come Williamson che dirà anche qualche fesseria pesante, ma su un piano meramente storico» (9).

(fine prima parte)

Luigi Copertino




1) Ecco le testuali parole del Santo Padre a spiegazione della sua decisione: «Nellomelia pronunciata in occasione della solenne inaugurazione del mio Pontificato dicevo che èesplicitocompito del Pastorela chiamata allunità’, e commentando le parole evangeliche relative alla pesca miracolosa ho detto: ‘sebbene fossero così tanti i pesci, la rete non si strappò’, proseguivo dopo queste parole evangeliche: ‘Ahimè, amato Signore, essa - la rete - ora si è strappata, vorremmo dire addolorati’. E continuavo: ‘Ma nonon dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa che non delude e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso lunità che tu hai promesso... Non permettere, Signore, che la tua rete si strappi e aiutaci ad essere servitori dellunità’. Proprio in adempimento di questo servizio allunità, che qualifica in modo specifico il mio ministero di Successore di Pietro, ho deciso giorni fa di concedere la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro Vescovi ordinati nel 1988 da monsignor Lefebvre senza mandato pontificio. Ho compiuto questo atto di paterna misericordia, perché ripetutamente questi Presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare. Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dellautorità del Papa e del Concilio Vaticano II».
2) Così su Il Giornale del  3 febbraio 2009 Andrea Tornielli ci ha informato della trappola ordita ai danni del Santo Padre e che la Segreteria di Stato non solo è stata incapace di individuare immediatamente ma che non ha neanche saputo gestire come si sarebbe dovuto per evitare ciò che coloro che la trappola hanno ordito volevano ossia danneggiare l’immagine di Benedetto XVI, uomo caratterialmente mite fino alla timidezza, il quale, i lettori lo ricorderanno, è stato subito ingiuriato,  sin dal momento della sua elezione, dalla stampa internazionale con epiteti come «Pastore tedesco» o pubblicando le sue foto di bambino nella obbligata divisa delle organizzazioni giovanili naziste, proprio per inculcare nell’opinione pubblica l’idea di un «panzer-pope», autoritario e para-nazista: «Roma Eun dossier ufficioso, di poche pagine, dedicato alla genesi del caso Williamson, molto letto in questi giorni nei sacri palazzi. Un dossier che ha raggiunto le scrivanie che contano oltretevere e che mette insieme date e circostanze, lasciando intendere che quanto avvenuto nei giorni scorsi non sia solo frutto di una serie di coincidenze. La realizzazione e poi la messa in onda dellintervista del prelato che negava le camere a gas e la realtà dei milioni di ebrei morti nella Shoah, alla vigilia della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani - secondo il dossier - sarebbe stata in qualche modopilotata’ da ambienti che volevano mettere in difficoltà Benedetto XVI. Ambienti che sarebbero stati aiutati da qualche oppositore interno, contrario alla riconciliazione con la Fraternità Sacerdotale San Pio X. Nel rapporto non si minimizzano le assurde parole pronunciate da Williamson, né lulteriore gravità della coincidenza temporale con il Giorno della Memoria, che ha particolarmente ferito la sensibilità del mondo ebraico, ma si lascia intravedere la possibilità che vi siano stati interventi mirati a creare il caso. Williamson, si legge nel dossier, viene intervistato il 1° novembre 2008 'presso il seminario bavarese della Fraternità Sacerdotale San Pio X’. Il vescovo si trova a Ratisbona, dovè giunto per ordinare prete un pastore protestante svedese. Il vescovo viene raggiunto dal giornalista Ali Fegan, della trasmissione televisivaUppgrad Gransking’ (‘Missione Ricerca’). Parlano unora. A un certo punto, Fegan richiama alla memoria di Williamson certe dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas, rilasciate molti anni prima in Canada. Il vescovo risponde dicendo le enormità che sappiamo, sapendo che le sue parole, in quel Paese, rappresentano un reato: ‘Per le cose che dico potreste portarmi in carcere visto che siamo in Germania...’. Lintervista va in onda il 21 gennaio, lo stesso giorno della firma del decreto di revoca della scomunica. Gli autori del programma assicurano che si è trattato di una coincidenza, mentre ildossier Williamsonnon esclude la possibilità che la notizia della revoca della scomunica sia stata fatta in qualche modo arrivare alla televisione svedese. Nel corso della trasmissione viene intervistata anche la giornalista francese Fiammetta Venner, nota attivista del movimento omosessuale, impegnata in campagnepro choice’. Insieme alla compagna Caroline Fourest - con la quale condivide molte battaglie anticlericali nonché la vicinanza al Grande Oriente di Francia - nel settembre scorso, alla vigilia della visita di Benedetto XVI a Parigi e Lourdes, aveva dato alle stampe un volume intitolatoLes Nouveaux Soldats du pape. Légion du Christ’, Opus Dei, traditionalistes, durissimo contro Papa Ratzinger e contro i lefebvriani, accusati di connessioni con l'ambiente politico dellestrema destra francese. Il dossier insiste sulla genesi francese del caso e sul ruolo avuto da Venner e Fourest nellintera vicenda. Il 20 gennaio, alla vigilia della messa in onda, il settimanale tedesco Der Spiegel anticipa i contenuti dellintervista. E arriverà pure a scrivere cheil Consiglio Centrale degli ebrei in Germaniafosse 'stato informato' in precedenza delle dichiarazioni negazioniste del vescovo. Ormai il decreto è già scritto ed è stato personalmente consegnato dal cardinale Giovanni Battista Re nelle mani di monsignor Bernard Fellay, il superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, convocato a Roma per loccasione. Dunque, quando la notizia dellintervista di Williamson comincia a diffondersi, non è più possibile correre ai ripari. Il 20 gennaio la diocesi cattolica di Stoccolma e il superiore dei lefebvriani tedeschi pubblicano due distinti comunicati per deplorare le dichiarazioni di Williamson e condannare ogni forma di antisemitismo. La notizia è ormai di dominio pubblico, ma la sua portata e soprattutto le sue conseguenze non vengono avvertite nei sacri palazzi. Un intricatogiallo’, insomma, oppure una serie di coincidenze? Il dossier fatto circolare in Vaticano non contiene prove, si limita a confrontare ipotesi e dati di fatto. Di certo però non sono in pochi, oltretevere, a pensare che ilcaso Williamsonnon sia stato un caso». Precisiamo: non stiamo teorizzando sul «grande complotto». Esistono però i piccoli complotti, le trappole come quelle mediatiche fatte da uomini esperti nell’uso delle apposite tecniche. Al di là delle trappole mediatiche non possiamo poi cristianamente dimenticare l’esistenza degli «spiriti dell’aria» contro i quali, dice San Paolo, siamo chiamati a lottare. Con termini più moderni oggi potremmo parlare di «etat d’esprit», artificiosamente creati e massmediaticamente diffusi. Da chi in ultima istanza, poi, bisogna vedere. Certo secondariamente, senza dubbio, da uomini. Fino a che punto però consapevoli o inconsapevoli di essere in qualche modo «agiti»? Non confondendo il peccato, ed il suo «angelico ispiratore», con il peccatore, sovente quest'ultimo vittima, magari volontaria e quindi corresponsabile, del peccato e dell’ispiratore, si riporta tutta la questione in una luce cristianamente più verosimile. E non ci sembra affatto cosa da poco.
3) Confronta F. Cardini « A proposito del caso Williamson e del revisionismo/negazionismo», 29 gennaio 2009, sul sito personale dell’autore.  Un amico evidentemente molto influenzato dalla propaganda di guerra israeliana ci ha inviato nei giorni scorsi una mail di quelle che si «svolgono» ad ogni passaggio con immagini che si succedono l’una all’altra. Spedendola ci ha scritto, come se da parte nostra si negasse il «factum», che «contra factum non valet argomentum». Infatti quella mail faceva scorrere note immagini di Auschwitz e di altri campi di sterminio. Ora, se è vero che «contra factum non valet argomentum», è però altrettanto vero che contro l’uso politico della memoria storica gli argomenti non solo valgono ma sono decisivi proprio per la salvaguardia delle più basilari libertà e della civiltà stessa. A meno che non si preferisca accettare la «Verità di Stato», qualunque essa sia o, di volta in volta, si vuole che sia. Abbiamo consigliato a quell’amico la lettura de «L’industria dell’Olocausto» di Norman Finkelstein. Figlio di deportati ad Auschwitz, Finkelstein spiega molto bene il perché del fatto che la propaganda, come quella della mail che quell’amico ci ha spedito, è una offesa innanzitutto per le povere vittime in essa ritratte. Infatti una mail nella quale la «memoria» è usata per criminalizzare l’Iran o il mondo mussulmano, che negherebbero l’olocausto, costituisce niente altro che propaganda politica. Uno sfacciato uso della storia per scopi di supporto a strategie geo-politiche ben precise (non risulta, comunque, che nel mondo mussulmano ci sia una posizione ufficiale negazionista o che l'opinione sull'argomento «olocausto» sia unanime, né risulta che la posizione ufficiale dell’Iran sia negazionista: essa dice solo che la tragedia ebraica in Europa di sessant’anni fa non può essere attualmente usata per inchiodare oggi i palestinesi alla loro egualmente tragica sorte. Lasciamo per il momento da parte se l’Iran abbia davvero a cuore i palestinesi o abbia anch’esso le sue mire politiche: quel che è importante in quanto stiamo dicendo è che le argomentazioni della posizione ufficiale iraniana sono, purtroppo, vere). Qualche mese fa abbiamo visitato una mostra, nient’affatto pubblicizzata, sul genocidio armeno, che, come è noto, fu opera dei «giovani turchi», di origini dumeh, nazionalisti laici, non religiosi. Nella mostra vi erano le rare foto dei massacri contro gli armeni. Se alla mail che abbiamo ricevuto si fossero sostituite le foto degli ebrei con quelle degli armeni nessuno si sarebbe accorto della sostituzione. Ma mentre lo sterminio ebraico è fin troppo «memorizzato», cosa sappiamo, cosa abbiamo mai visto (e vedere è molto più che sentir dire), di quello armeno, del quale le nostre scolaresche non sanno neanche l’esistenza? E gli armeni erano cristiani! Trasformare la memoria di qualsiasi persecuzione, ebraica o armena o africana o altro, in una teologia civile, a scopo di stabilizzazione di un regime o di un quadro politico, è sempre un’odiosa offesa alle vittime. In quella mail venivano citate frasi altisonanti di Eisenhower e di Edmund Burke. E dal momento che alla «memoria» quella mail ci sollecitava, non possiamo dimenticare, da parte nostra, che Eisenhower è stato generale, prima, e presidente, poi, di un esercito e di una nazione che mentre documentavano lo sterminio ebraico si macchiavano di un altro ben più atroce e subitaneo genocidio, quello dell'Olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki (quest’ultima città era di popolazione quasi del tutto cattolica: un caso?), per poi far sedere i propri rappresentanti, insieme a quelli sovietici con le mani, quest’ultimi, ancora grondanti del sangue di milioni di kulaki, a giudicare i criminali nazisti a Norimberga. Ancora una volta la Sapienza evangelica è maestra: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Né possiamo dimenticare che il «delicato» Edmund Burke, citato in quella mail, era quel gentiluomo latifondista anglicano che cianciava di «legge naturale» seduto sullo sfruttamento bestiale dei poveri contadini cattolici irlandesi. Non sono pulpiti, quello americano ed inglese, dai quali possiamo accettare prediche!
4) Confronta G. Lerner «Quel vescovo non è un alieno» Repubblica, 29 gennaio 2009. A Lerner vorremmo replicare, parafrasandolo, che «neanche quell’attore televisivo ebreo è un alieno» trattandosi del risultato di una educazione infarcita degli oltraggi contro Cristo e Maria di cui il Talmud abbonda e che, proprio in coincidenza con la costituzione dello Stato di Israele, sono stati reinseriti nel testo ufficiale ed anche liturgicamente recitati. Ci stiamo riferendo al recente programma televisivo della TV israeliana Channel 10 nel quale sono stati pubblicamente insultati Nostro Signore Gesù Cristo e la Vergine Maria ricalcando, guarda caso, proprio gli stereotipi anticristiani delle «preghiere di benedizione» talmudiche come quello del concepimento adulterino di Gesù. Nel comunicato emanato dal coordinamento della Chiese cristiane di Terra Santa si è denunciato il programma blasfemo come ultimo esempio di un clima che ormai da anni si è impregnato di un feroce anticristianesimo e del quale un altro esempio è costituto dall’incitamento che i giovani delle scuole talmudiche ricevono dai loro rabbinici maestri a manifestare il loro disprezzo verso i cristiani mediante l’«arte» dello sputare addosso a frati e religiosi o al Crocifisso, durante le processioni cristiane. «Sport» che i giovani coloni fondamentalisti praticano alacremente sotto l’occhio impassibile dei rabbini, loro maestri, e delle autorità di polizia israeliana.
5) Ecco come si esprime Lewis David Allen uno dei principali predicatori cristiano-sionisti: «Il Messia regnerà dal trono ristabilito di Davide a Gerusalemme. Risorto, Re Davide sarà co-reggente assieme a Cristo. Israele occuperà una posizione di gloria e dominio sulle nazioni del mondo. I Cristiani Rinati si uniranno al Messia e ai dirigenti di Israele nellamministrare il regno di Dio sulla terra. Siamo in marcia verso Sion!». Confronta L. D. Allen «Can Israel survive in a Hostile Word?», New Leaf Press, 1994, pagina 150.
6) Confronta L. Copertino «L’olocausto tra storia e teologia» in AA.VV. «La Storia imbavagliata», volume che raccoglie gli atti del convegno 17-19 aprile 2007 del Master «Enrico Mattei» in Medio Oriente presso l’Università di Teramo, Roma 2007.
7) In questa prospettiva storico-teologica vi sarebbe poi da considerare e valutare, alla luce del Genesi, anche il ruolo delle genti discendenti da Ismaele, figlio di Abramo ed Agar, la schiava di Sara moglie legittima del patriarca. San Paolo ne tratta, e la sua argomentazione fa testo canonico, per sottolineare che non era nella linea illegittima di Agar che la promessa messianica si sarebbe adempiuta ma in quella legittima di Sara. Però san Paolo scriveva prima dell’apparizione dell’Islam, per mezzo di Maometto, proprio tra i discendenti biblici di Ismaele, il figlio illegittimo di Abramo, e, dunque, san Paolo non sembra considerare che Ismaele era stato salvato nel deserto dall’Angelo del Signore, ossia dalla Forza stessa di Dio, con la promessa che sarebbe diventato una «grande nazione», indomabile come un «onagro», il ribelle asino selvatico del deserto, di fronte al fratello Isacco. E’ stato giustamente osservato che questa pagina del Genesi (si tenga conto che nella Scrittura ogni pagina richiama l’altra, sicché l’inizio richiama la fine, e viceversa, perché l’intera Bibbia rivela Cristo che è l’Alfa e l’Omega) sembra una descrizione della Terra Santa dei nostri giorni. In via puramente informativa e del tutto ipotetica, rammentiamo quanto circa il ruolo «cristocentrico» dell’Islam hanno scritto islamisti cattolici come il sacerdote Louis Massignon ed il francescano padre Giulio Basetti Sani. Secondo l’ipotesi di questi studiosi, l’Islam, lungi dall’essere come pretendono i mussulmani il «sigillo della Profezia», perché al contrario la Rivelazione si è definitivamente chiusa con Cristo, sarebbe soltanto l’adempimento di una promessa antico-testamentaria e Maometto, che per primo riteneva che il suo messaggio religioso doveva rimanere circoscritto alla sola Arabia, sarebbe un profeta veterotestamentario post-litteram il cui ruolo sarebbe stato solo quello di  preparare gli eredi di Ismaele al riconoscimento della Divino-Umanità di Cristo, già in qualche modo implicita nel Corano benché non ancora esplicita nella ricezione che gli stessi islamici hanno attualmente del loro Libro. Divino-Umanità di quel Cristo che anche per l’Islam deve tornare alla fine del mondo per uccidere Al Daijal, l’Anticristo, e portare tutti all’obbedienza (= islam) a Dio. Ora, sostengono quegli studiosi, cristianamente l’obbedienza a Dio è vera solo se è conforme e partecipe dell’obbedienza di Gesù, Dio-Uomo, che fu appunto obbediente fino alla morte ed alla morte di Croce. Sicché quello dell’Islam sarebbe un «mistero storico-teologico» che si risolverà, ma solo alla fine del tempo, in Cristo, esattamente e parallelamente al destino cristiano finale dell’Israele post-biblico. Ribadiamo l’assoluta ipoteticità di questa tesi. Da parte nostra ci limitiamo soltanto a notare che cristianamente, ossia sulla base del Genesi, non è possibile negare che questo, quello cioè del ruolo in qualche modo «cristocentrico» degli eredi di Ismaele, è un mistero nel mistero, ossia un mistero nel più ampio e misterioso disegno di salvezza universale. Disegno del quale noi poveri uomini, ante factum, possiamo solo scorgere parziali barlumi, perché «le Mie vie non sono le vostre vie».
8) Ecco le parole del Papa: «In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz, uno dei lager nei quali si è consumato leccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso. Mentre rinnovo con affetto lespressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri Fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca lumanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore delluomo. La Shoah sia per tutti monito contro loblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti. Nessun uomo è unisola, ha scritto un noto poeta. La Shoah insegni sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dellascolto e del dialogo, dellamore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo allauspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità delluomo!» (da vatican.va). Ci permettiamo solo di osservare, con assoluto filiale rispetto, che questo alto magistero circa la «violenza contro uno solo come violenza contro tutti» e sul «faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono» avremmo voluto sentirlo pronunciare con altrettanta e chiara forza anche in occasione dell’ultimo sterminio di Gaza. Ci sembra invece, con tutto il rispetto filiale possibile, che non altrettanta forza e chiarezza si sia sentita dal trono di Pietro per i fatti di Gaza. E se sbagliamo nel nostro giudizio, come ci auguriamo, saremmo ben lieti di essere smentiti, magari durante il viaggio del Papa in Israele. Purtroppo non possiamo dare torto all’interlocutorio messaggio di un intellettuale di sinistra come Gianfranco La Grassa che ha giustamente scritto: «Messaggio ai lefebvriani: ‘La Shoah resta per tutti monito contro l'oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti’. Molto bene. Ricordiamo che di recente, non ad un solo essere umano ma a decine di migliaia (con oltre 1.300 morti e più di 5.000 feriti), è stata usata violenza in quel di Gaza. Non debbono essere usati due pesi e due misure, altrimenti sorge il sospetto che, per ottenere certe dichiarazioni, è necessario avere alle spalle una notevole potenza politico-militare (e altro ancora). Sono certo che una potenza spirituale come quella della Chiesa se ne infischia di altre potenze più 'materiali'. Attendo perciò fiducioso la condanna ecclesiastica per l’eccidio dei palestinesi. Fra laltro, sono pressoché certo che detta condanna arriverà nei confronti di chi avrà interrotto la vita… della povera Eluana. Vorrei ben vedere che togliere la vita a 1.300 esseri umani - e che era piena vita con tutti i cinque sensi e il sistema cerebro-nervoso in perfetta funzionalità - non sia considerato, da una  Autorità religiosa di grande prestigio e tradizione, un delitto ancor più grande». Confronta  www.lagrassagianfranco.it  del 4 febbraio 2009. Del resto alle stesse conclusioni è arrivato un noto giurista, magistrato, e storico cattolico tradizionalista, Francesco Mario Agnoli, che ci ha, in proposito, scritto: «Credo che abbiamo anche il diritto di dire alla Chiesa e al Santo Padre stesso che, se, come vuole la Merkel, non è stata sufficiente la condanna del negazionismo, ancor meno lo è stata quella di Israele per la vile aggressione di Gaza, dove si è tolta la vita non ad un solo essere umano, ma ad oltre 1.300, di cui più della metà donne e bambini (per non parlare dei 5.000 feriti e delle decine di migliaia che hanno patito la violenza della perdita della casa, della fame e altro).  Dal momento che non voglio credere  alla sottomissione delle gerarchie vaticane «a chi conta in termini di potere e di lobbismo nel mondo» (e il sospetto di questa sottomissione sta gettando molte ombre su quello che era fino ad oggi un grande pontificato), mi aspetto una rinnovata e ben più esplicita condanna di Israele per quanto ha fatto. Del resto l'occasione c’è dal momento che il criminale (non solo di guerra) Olmert ha ripreso a bombardare e a minacciare».
9) Sulle ambiguità dell’esegesi del cardinal Kasper rimandiamo al nostro «La teologia cristiano-sionista del cardinal Kasper», su www.effedieffe.com


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