Il mistero d’iniquità finanziario
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Gli storici del futuro ricorderanno la nostra generazione come quella che ha inseguito il sogno utopico di una pacificazione globale attraverso la finanziarizzazione dell’economia ossia attraverso una economia fondata sull’indebitamento pubblico e privato.

Non solo, quegli storici spiegheranno che l’altra grande illusione della nostra generazione è stata quella di credere che la cura della crisi da indebitamento incontrollabile, nella quale il paradigma del liberismo finanziario ci ha gettati, è nell’indebitarsi ancor di più: servire, come si dice, il debito mediante i tagli sociali suggeriti dalle centrali del potere finanziario globale, dalla BCE al FMI.

La nostra generazione ha creduto, ha riposto fiducia, ha avuto fede nei millantatori delle virtù universalmente benefiche della finanziarizzazione dell’economia. E questo nonostante la generazione del 1929, che l’ha preceduta, avesse già fatto la triste esperienza delle conseguenze distruttive della liberalizzazione dell’economia finanziaria. Per uscire dalla crisi degli anni Trenta si imposero severe normative di controllo sulle attività finanziarie, come il Glass-Steagall Act. Negli anni Novanta quelle stesse normative, sull’onda di una febbre millenaristica simile a quella che aveva obnubilato l’intelligenza dei nostri avi, sono state abrogate, aprendo di nuovo la scatola di Pandora dei mali della speculazione finanziaria.

Ora, si può aver fiducia e si può, per questo, essere ingannati. Dipende in chi si ripone fiducia. Perché si può avere fede in Dio ma anche, purtroppo, nel suo Avversario.

«Credere», appunto! Come a ricordato anche Tremonti prima di passare la mano del suo dicastero: tutta l’economia in fondo è questione di «fiducia». E la «fiducia» ha radici nella «Fede».

Attenzione: questa non è una affermazione confessionale, per quanto l’autore di questo contributo non nasconda la propria fede cattolica. Mircea Eliade ci ha insegnato che l’uomo è sempre «Homo religiosus». Anche l’uomo moderno o post-moderno. Anche l’uomo che fa professione di ateismo. Laddove, tuttavia, l’essere umano non accoglie il mistero dell’Essere che gli viene incontro, laddove in altri termini non apre il cuore alla Rivelazione, egli non potrà fare a meno, a causa della sua natura costituzionalmente fatta per il Mistero, di fabbricarsi da sé forme sostitutive del sacro che, in quanto tali, sono sempre artificiali, ideologiche ed idolatriche.

Thomas Hobbes, il cui pensiero è stato abbondantemente ripreso nel XX secolo da Carl Schmitt, chiamò «Leviathan» lo Stato assoluto, antesignano di quello totalitario moderno, nato con le monarchie assolute del XVI secolo. Il «Leviathan» è una figura biblica metafora del «mostruoso», del «potere seduttore del male». Hobbes, non a caso, definiva lo Stato leviatano come «dio mortale».

I filosofi del diritto sanno molto bene che «tutti i più pregnanti concetti della moderna Dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati» (Carl Schmitt). Così, termini giuridici come «sovranità» e «legislatore» sono stati mutuati dalla teologia.

Non è un caso, dunque, se la moneta, che è anch’essa una fattispecie giuridica, sia stata, nell’antichità, sempre coniata presso i templi e se la sua falsificazione sia stata sempre considerata un atto non solo criminale ma anche a tal punto immorale da meritare una pena eterna. Dante pone i falsari nella decima bolgia (Inferno XXX) e inveisce contro Filippo il Bello perché falsifica il conio («il duol che sovra Senna / induce falseggiando la moneta», Paradiso XIX, 118-119). I falsari sono, per Dante, traditori della fiducia del prossimo e, quindi, in ultima istanza colpevoli contro la Fede chiesta da Dio all’uomo per una buona vita sulla terra nella prospettiva della vita eterna (1).

Quando, infatti, viene meno la fiducia – anche quella spuria, perché secolarizzata, nel «Leviathan» ossia in una religione civile – inevitabilmente l’intero sistema economico crolla.

La fiducia, nell’Occidente a-cristico nato dalla lenta morte dell’antica Cristianità, è ormai venuta meno per via del crollo verticale della sua struttura metafisica e spirituale.

Un nostro caro amico, Andrea Fiamma, giovane e brillante filosofo della religione, ci ha inviato un interessante articolo nel quale si domanda:

«Che la crisi di valori dellOccidente post-metafisico abbia secolarizzato anche il denaro? Il denaro perde di valore e dunque di potere si svaluta, si dice in economia se a sorreggerlo non vi è un sistema sano di fiducia’. Lo scrivono tutti gli economisti: Tu devi difatti avere fiducia che chi ti paga con una banconota possegga il valore corrispondente da pagare al portatore. Troviamo le radici di questo concetto nella nascita stessa del sistema economico in sostituzione al più immediato baratto: invece che scambiare i pomodori che ti offro con un sacco di patate, mi paghi con un pezzo di carta su cui scrivo 100’ (cento = un sacco di patate) e io ho fiducia che tra una settimana, un mese, un anno quando ritornerò con quel pezzo di carta, tu: 1) lo riconosca come valido e dunque come pagabile a vista del portatore’; 2) abbia ancora il sacco di patate che ti eri impegnato a pagarmi come trovo scritto sulla banconota da cento’. La crisi attuale è causata dal fatto che al momento in cui il creditore è tornato al contadino per riscuotere i pagamenti promessi qualche tempo prima, ha scoperto che quel sacco di patate già pagato non cera più: era stato a sua volta re-investito’. Ebbene, non posso che far notare come tradire queste due aspettative significhi venir meno allonestà (punto 1) e allonore (punto 2) cosicché la fiducia del creditore nei tuoi confronti si è dimostrata ingenua, infondata. Ma cosa ha portato a tradire la fiducia e ad investire ulteriormente quel sacco di patate per altre transazioni quando esse erano già state vendute e compromesse, come è accaduto con le operazioni di finanza speculativa’? Lavidità di denaro, certamente, è un buon movente. Eppure non è stata forse la fiducia tradita ad innescare tutto il meccanismo? Non è forse questo il segno più radicale della crisi di valori di un mondo che non crede più a niente’, come scriveva bene Charles Péguy (Il mondo di chi non crede più a nulla, nemmeno allateismo, / di chi non si prodiga per nulla e non si sacrifica per nulla) e che dunque non crede neanche che la fiducia riposta vada onorata? (…). La domanda fondamentale è allora se la responsabilità della crisi economica risieda davvero negli speculatori finanziari o se forse, in realtà, essi non siano altro che strumenti di una visione del mondo che li precede; la radice ultima è allora da rintracciare in quelle concezioni filosofiche che hanno contribuito a creare un mondo in cui i termini valore, onestà, fiducia, sincerità e quantaltro non valgano più perché venuto meno il loro fondamento unitario, Dio; un mondo in cui, al contrario, è tornata a dettar legge prepotente la forza del più bruto, la virtù del disvalore, che prende piede in assenza di una struttura di valori; un mondo che ha dismesso Dio per ripiegarsi solo su se stesso, e che, come ultimo baluardo, non ha fatto altro che secolarizzare anche il denaro» (2).

Ha ragione il nostro amico: la moneta, l’intera economia, ha una radice spirituale e morale senza della quale genera soltanto nichilismo e predazione. Ma – attenzione! – la base morale dell’economia non ha nulla a che fare con l’etica utilitaristica di Adam Smith e von Hayek. Un’etica questa, riduzionista e che non spiega, in ultima istanza, nulla se non che esiste il peccato originale, nella forma dell’egoismo, che poi i liberisti pretendono essere, se lasciato, libero, il motore, la «mano invisibile», della ricchezza universale. Vecchia storia gnostica questa della salvezza che si lucrerebbe attraverso il peccato: già catari e carpocraziani se ne fecero banditori (3).

Dissentiamo, invece, cordialmente dal nostro amico quando egli, da buon neoplatonico alquanto incline al liberalismo, aggiunge: «‘In God we trust’ – cè scritto sul dollaro. Gli americani più accorti sapevano benissimo che in assenza di un sistema etico garante del fatto che la fiducia vada a buon fine, il denaro aveva perso di valore. Quel sistema, in coerenza con la tradizione puritano-calvinista dei padri fondatori, era rappresentato dalGodin cuiwe trust’» (4).

Infatti, il «God we trust» che campeggia sulla banconota da un dollaro americana non rimanda affatto al Dio della Rivelazione cristiana che si trasmette, nella storia, agli uomini unicamente – qui non c’è «ecumenismo» che tenga – nel e per la mediazione della Chiesa cattolica, che ne custodisce il «Deposito di Fede». Quel «God» cui allude il dollaro è un simil-dio, di marca puritana e massonica, dietro il cui volto suadente, che infatti ha non a caso sedotto molti cattolici di provenienza conservatrice, cela fattezze «altre», fattezze «luciferine».

Nel cuore dell’uomo, sedotto dal male, qualsiasi strumento dato per il suo bene può essere snaturato e sviato al male.

La moneta, potenziale strumento di bene sociale, è essa stessa soggetta al dramma ed al mistero della libertà ontologica dell’uomo. Quella libertà che gli è stata data affinché egli faccia senza costrizioni una scelta in favore o contro Dio.

Dio, infatti, ha fatto l’uomo libero perché vuole essere da lui amato per libera scelta e non per costrizione. Qui sta tutto il rischio della libertà umana.

Con l’anno sabbatico, nell’Antico Testamento, si otteneva lo sgonfiamento della bolla creditizia, creata, allora come oggi, dall’emissione ex nihilo di moneta, in forma di promesse di pagamento. In tal modo, mediante l’anno sabbatico, si riportava lo strumento monetario-finanziario, per sua natura sempre pronto a volatilizzarsi ossia a distaccarsi dal bene concreto sottostante, con i piedi per terra ossia lo si vincolava di nuovo alla sua funzione originaria di benefico mezzo per lo scambio di beni e servizi. Da qui l’aspetto gratuito della remissione dei debiti. Infatti il «condonare» i debiti è esattamente un «con-donare», un «donare insieme», reciproco.

Molti, oggi, auspicano una «economia del dono» ma nessuno di costoro sembra tenere presente l’esempio mosaico.

Nella Legge mosaica era già implicito quanto poi Cristo ha portato a compimento svelandone tutte le più alte potenzialità. Mentre l’adempie, perfezionandola, la Legge di Cristo non cambia, non abroga e non sostituisce – si badi bene! – nell’essenza sovrannaturale la Legge mosaica (nelle forme rituali antiche – ossia nelle paoline «opere della Legge» – certamente sì!). Nell’essenza sovrannaturale, tra Legge mosaica e Legge di Cristo, vi è continuità ed adempimento e, perciò stesso, perfezionamento e superamento. Mosé, a nome di Dio, impone di prestare e poi condonare. Gesù, che è Dio, invita a «prestare senza nulla sperare in cambio» («Nihil mutuum date inde sperantes», Luca 6,34) (5) ossia a donare e ci insegna a pregare «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». In una nota parabola, inoltre, Cristo deplora il servo cui il Padrone misericordioso ha rimesso i debiti ma che, non appena uscito fuori, si scaglia senza carità contro il proprio debitore esigendo immediatamente la contropartita del debito. Nella parabola, come nella somma preghiera del «Padre Nostro», i debiti sono certamente figura dei peccati ma l’insegnamento è anche concretamente monetario. Cristo insegna ad un tempo nella continuità e nella discontinuità rispetto all’Antico Testamento, ossia apportando novità con il far emergere ciò che nell’Antica Alleanza era solo implicito o non ancora completamente attuale. Quindi più che di cambiamento o sostituzione della Legge mosaica – anche in relazione al comandamento dell’anno sabbatico (che nella liturgia cristiana è, in rapporto alla settimana, tipologico e prefigurativo della Domenica) – si deve parlare, in Cristo, di adempimento.

Dio, come osserva l’amico Luciano Garofoli in uno splendido articolo pubblicato su questo stesso sito (6), aveva rivelato all’unico popolo in quel momento depositario della fede monoteista un’etica economica, insieme soprannaturale e naturale, volta al suo bene sociale in attesa che Cristo estendesse la stessa etica, ma perfezionata, a tutti i popoli.

«Ogni sette anni saranno condonati tutti i debiti. Si procederà in questo modo: quando sarà proclamato, in onore del Signore, lanno per il condono dei debiti, chi avrà fatto un prestito ad un altro, non costringerà il suo prossimo, un suo connazionale, a rimborsagli il debito. Si potrà esigere da uno straniero il pagamento dei debiti, ma quelli che avete con un connazionale saranno condonati. Se ubbidirete al Signore, vostro Dio, mettendo in pratica questi comandi che oggi vi ordino, non ci sarà nessun povero tra di voi: il Signore vostro Dio vi colmerà di ogni bene sulla terra. Se ci sarà tra di voi qualche israelita povero non sarete di cuore duro e non chiuderete la mano davanti al fratello povero. Anzi siate generosi con lui e prestategli ciò di cui ha bisogno nel suo stato di necessità. Ci saranno sempre poveri nella vostra terra: perciò vi ordino di esser generosi con i vostri fratelli poveri e bisognosi» (Deuteronomio 15, 1,3, 4,5, 11).

Scrive Garofoli:

«(Si tratta di) un comandamento: come non uccidere, non rubare, non desiderare la roba d’altri: il concetto è chiarissimo Dio nella sua infinita misericordia vuole che i suoi figli siano liberati dalla schiavitù della povertà e del bisogno, affrancandoli da quel fardello che aveva imposto nel Genesi quando disse ai progenitori: Con fatica ne ricaverai cibo (dalla terra). Ti procurerai il pane con il sudore della fronte (Genesi 3.17, 19). Il Signore si è reso conto che se luomo deve faticare e lavorare per ricavare il necessario per la sopravvivenza, se deve vivere nella perenne incertezza del dover sfamare se stesso ed i suoi figli, ha poco tempo e poca forza per lodarlo, benedirlo, adorarlo, glorificarlo. Come al solito viene loro in aiuto e fornisce questo Comandamento della Potenza che permetterà di poter avere la possibilità di essere affrancato dal bisogno e dallincertezza quotidiana. E si badi bene il comandamento è per tutti, Dio non fa distinzione tra i suoi figli, sono tutti uguali: infatti quando i tempi furono maturi mandò suo figlio a cambiare (rectius, a perfezionare ed adempiere) la legge mosaica del prestare con quella del donare; non dimentichiamo questo concetto importantissimo. Se addirittura la liberazione dalla schiavitù del peccato e dalla morte è per tutti i popoli, anche i non israeliti, volete che laffrancamento dalla schiavitù del bisogno sia riservato al solo popolo eletto(7).

La storia biblica di Tobia (Tobia, 4 e seguenti), inviato dal padre a recuperare i suoi risparmi presso uno straniero mediante l’esibizione di un documento cartaceo antesignano della nostra carta moneta, detto «mamrè» o «memrà», rimanda ad uno stesso orizzonte etico di uso sociale dello strumento finanziario, di credito sociale. Alla base del documento monetario cartaceo vi deve essere sempre la reciproca fiducia garantita da una norma morale rivelata o fondata sulla Rivelazione Divina. Altrimenti viene meno con la garanzia superiore anche la fiducia interpersonale.

Tuttavia nel corso della storia lo strumento monetario-finanziario è stato snaturato e sviato dalla sua funzione sociale, perché una tentazione prometeica – quella dell’ergersi a «dio» di se stessi – ha catturato il cuore umano e di conseguenza anche la sua capacità di fare integralmente il bene.

Ora, proprio la moneta si presta molto nel suscitare la tentazione autodivinificatoria che cova nel cuore dell’uomo e della quale l’ingordigia di ricchezza è solo una espressione quanto la «libido dominandi» che si manifesta nella lussuria o nell’orgia del potere senza giustizia: «Cosa sono gli Stati senza la giustizia se non torme di briganti?», diceva Sant’Agostino per condannare non la politica o la comunità politica di natura, come troppo spesso si è frainteso, ma il potere senza riferimenti superiori, etici e metafisici.

Qui l’essenza del peccato è individuata nell’autoreferenzialità, nell’egoismo.

Essenza del peccato che ancora Agostino tratteggia magistralmente in una famosa pagina della sua opera principale:

«Due amori quindi hanno costruito due città: lamore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, lamore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza (…). Luna, nei suoi capi e nei suoi popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere; nellaltra prestano servizio vicendevole nella carità (…). La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: ‘Ti amo, Signore, mia forza’» (La Città di Dio, libro XIV, 28) (8).

Jean Francois Mattei individua nell’autoreferenzialità soggettiva la causa degenerativa della civiltà: «… il soggetto ripiegato in sé, prigioniero di sé, è lantitesi della civiltà: è labestia terribiledai cento appetiti, dagli istinti liberati da ogni regola civilizzatrice della quale parla Platone».

Agli inizi dei tempi, stando alla Rivelazione, vi è stato, già prima del peccato di Adamo che solo lo segue, un ripiegamento ontologico dal quale è derivato il male. Questo «ripiegamento ontologico» avvenne nei Cieli e vide come protagonista colui che, per autoreferenzialità, oppose all’Amore di Dio il suo assurdo «non serviam».

È il tema, che non è solo cristiano ma anche ebraico ed islamico, del cosiddetto «peccato degli angeli» che ci rende possibile comprendere a fondo l’essenza metafisica del peccato originale.

Lucifero oppose a Dio il «non serviam» quando il Signore gli mostrò il progetto dell’Incarnazione del Verbo. Per orgoglio, essendo il più splendente tra gli angeli perché il più vicino a Dio, Lucifero capovolse questo privilegio in egocentrismo autoreferenziale fino a ritenersi legittimato, a fronte di un Dio che voleva «insozzarsi» con la carne, con la da lui disprezzata «oscura» materia, ad «innalzarsi sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio» (II Tessalonicesi, 2,4). San Paolo, non a caso, identifica il «figlio della perdizione» con «colui che si contrappone» a Dio (ibidem). Lucifero, in altri termini, con il suo orrore per la carne (il rifiuto dell’Incarnazione di Dio) ed il suo orgoglio (il rifiuto dell’adorazione di un Dio umile per l’adorazione smisurata di se stesso) e con il suo odio (la volontà perversa di distruggere la bontà della creazione) è stato il primo degli «gnostici» e dei «nichilisti».

Ora ragioniamo: cosa è la «plutocrazia», la «finanziarizzazione» dell’economia, se non rifiuto della finanza di essere al servizio dell’economia reale? Un rifiuto che nasce dall’autorefenzialità, teorizzata e praticata, del capitale finanziario. Un’autoreferenzialità che svela la propria impura radice nella volontà di potenza che il culto di Mammona promette, come droga inebriante, ai suoi seguaci senza alcuna cura dell’annichilimento del prossimo – ossia senza alcuna preoccupazione di solidarietà tra gli uomini rinviante, per immagine, all’Amore di Dio – che consegue dall’uso non morale e non sociale del credito e della moneta?

Siamo, qui, con tutta evidenza di fronte ad un «mistero d’iniquità» che, anche in questa forma «finanziaria», agisce, non da oggi, nella storia e del quale la Chiesa ha sempre avvertito l’oscura presenza ammonendo, ripetutamente, i cristiani dal guardarsi da esso.

Possiamo quindi affermare, sulla base dell’antica tradizione abramitica secondo la quale il peccato di Lucifero è stato il rifiuto dell’Incarnazione del Verbo e pertanto della bontà della creazione, che l’usura ovvero, in termini attuali, la finanziarizzazione dell’economia corrispondano perfettamente ad una volontà «omicida» che si nasconde dietro la «menzogna» di una felicità mondana universale distaccata dalla dipendenza ontologica dal Creatore.

«Egli (il Diavolo) è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella Verità, perché non vi è Verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44).

Ecco perché in ambito cristiano l’usura è stata sempre equiparata all’omicidio o all’istigazione al suicidio nonché al «peccato contro natura» ossia al sesso volontariamente infecondo nell’atto onanistico o sodomita.

Questo rapporto tra sesso infecondo, turpe lucro ed usura è chiaro, ad esempio, in Dante che pone nello stesso girone infernale, quello appunto dei peccati contro natura, sodomiti ed usurai. All’Alighieri si ispirerà il pur non cattolico, ma fattosi vicino alla fede cattolica, Ezra Pound nel famoso Cantos 45 che denuncia nell’usura – insieme a tanti altri mali ad iniziare dal depauperamento della creatività artistica e del lavoro («con usura / non vè chiesa con affreschi di Paradiso»; «con usura non si dipinge per tenersi arte / in casa, ma per vendere e vendere / presto e con profitto, peccato contro natura, / il tuo pane sarà straccio vieto /… Si priva lo scalpellino della pietra, / il tessitore del telaio») – la radice degli aborti e della separazione innaturale dei giovani sposi: «Usura soffoca il figlio nel ventre / arresta il giovane drudo, / cede il letto a vecchi decrepiti, / si frappone tra i giovani sposi/ contro natura / Ad Eleusi han portato puttane / carogne crapulano / ospiti dusura» (9).

Il tema del legame tra sodomia e usura ritorna anche in William Shakespeare, della cui cattolicità, nascosta per sfuggire all’intolleranza elisabettiana, ormai quasi più nessuno dubita. Il grande drammaturgo già in Timone dAtene aveva tratteggiato, riecheggiando con tutta evidenza la parabola del figliol prodigo, l’illusorio potere della ricchezza nella figura del ricco abbandonato da tutti nel momento nel quale perde il patrimonio. Ma è ne Il Mercante di Venezia che ripropone la dottrina aristotelico-tomista della sterilità del denaro – altro segno del suo cripto cattolicesimo – quando fa chiedere polemicamente dal protagonista Antonio a Shylock, l’usuraio ebreo: /«È forse il vostro oro e argento pecore e montoni?» (Atto I, scena III, v. 93) (10).

In Misura per misura (atto III, II, 7) Shakespeare fa dire ad uno dei personaggi: «È finita lallegria del mondo, dacché, delle due usure più usate quella allegra, lusura della ciccia, è proibita, e quella triste, lusura dei banchieri, è autorizzata dalla legge a portare pelliccia per scaldarsi; e pelliccia di volpe su fodera di agnello, a significare che la frode, più ricca dellonestà, può mostrare la faccia». Qui per «usura della ciccia» il drammaturgo intende la sodomia. Il profitto da usura è quindi equiparato ai vizi consumatori della vitalità e quindi, come questi, è considerato «contro natura».

Alla luce dell’insegnamento del Signore in Luca 6,34, «Nihil mutuum date inde sperantes», che abbiamo già ricordato, i Padri della Chiesa furono unanimi nel condannare tutti quei comportamenti economici consistenti, in senso ampio, nell’accaparramento dei beni onde rivenderli a prezzi gonfiati o nel prestare ad usura, ossia a tassi di interesse così elevati da «strozzare» i debitori. Sant’Ambrogio contro gli accaparratori inveiva: «Captans annonam maledictus in plebe sit» riprendendo l’invettiva da una biblica maledizione risalente a re Salomone in Proverbi, 12, 26: «Chi fa incetta di frumento è maledetto dal popolo, ma chi vende il suo grano ha la benedizione sul capo». L’uso, nei Padri, del termine «strozzare» è indicativo dell’equiparazione, nella scala morale dei peccati, dell’usura all’omicidio.

I pronunciamenti ecclesiali in tema di condanna dell’«usura», ovvero di quella forma di avidità autocentrica nella quale cade il cuore umano quando pone l’io al posto di Dio, e che oggi si esprime macroscopicamente nell’autoreferenzialità della finanza globale laddove, invece, nei secoli antichi aveva piuttosto la forma della piccola usura di quartiere o da banco, si sono ripetuti, sulla scia di Nostro Signore e dei Padri, incessantemente sin dal IV secolo.

Si iniziò già in età antica con il canone 20 del Sinodo di Elvira dell’anno 300, cui seguirono il canone 12 del Concilio di Arles del 314, il canone 17 del Concilio di Nicea del 325, il canone 13 del Concilio di Cartagine del 349, il canone 5 del Concilio di Cartagine del 419, il canone 13 del Concilio di Tours del 461, il canone 27 del Concilio di Orleans del 538.

Si continuò poi con le condanne dell’usura pronunciate dal magistero pontificio ad iniziare da San Leone Magno.

Nel medioevo tornarono sull’argomento diversi concilii: il Concilio di Parigi dell’829 (canone 53), il Concilio di Meaux dell’845 (canone 55), il Concilio di Pavia dell’850 (canone 19), il Concilio di Reims indetto da Papa Leone IX nel 1049 (canone 7), il II Concilio Lateranense del 1139 (canone 13), il IV Concilio Lateranense del 1179 (canone 25), il Concilio ecumenico di Lione del 1274 (canone 26), il Concilio di Vienna presieduto da Papa Clemente V nel 1311 (canone 15).

Si aggiunsero, ancora nel medioevo, la raccolta canonistica di Graziano ricomprendente molte delle precedenti pronunce contro l’usura, nonché, dopo Graziano, le ulteriori raccolte di decretali De usuris.

Un primo punto fermo fu raggiunto in ambito teologico con San Tommaso d’Aquino il quale, seguendo Aristotele, afferma che è illecito trarre denaro solo dall’uso, senza investimento, del denaro medesimo, perché questo significa rubare il tempo a Dio che solo né è Autore e Padrone e perché nell’usura si concretizza la vendita di qualcosa che non esiste – «venditur id quod non est» Summa Theologiae, II, II, q. 78, a. 1 – ossia, detto in altri termini, si imita prometeicamente Dio pretendendo di «creare dal nulla» come solo Lui può fare. Venne così accettata la dottrina aristotelico-tomista della infecondità del denaro senza un suo investimento nella produzione. Qui si fa notare come l’obiettivo dell’Aquinate fosse, checché ne abbiano pensato alcuni detrattori anche di matrice cattolica, quello di legare e porre lo strumento finanziario al servizio dell’economia reale, affinché – in omaggio al comandamento biblico del «crescete e moltiplicatevi» – con l’accrescimento della produzione si migliorassero le condizioni di vita dell’umanità ed in particolare dei più poveri. Questo obiettivo sarà ripreso successivamente anche dai teologi francescani e da quelli della Seconda Scolastica che pur presero in parte le distanze dalla rigidità della dottrina tomista. Non però, a nostro giudizio, dalla finalità e dall’elemento di verità in essa contenuto che, come detto, è quello di sottoporre la finanza alle esigenze della produzione reale e non il contrario, come accade nelle pratiche usuraie e come è stato imposto oggi su scala globale mediante il processo di finanziarizzazione dell’economia che alcuni, infatti, chiamano romanticamente «grande usura».

Agli albori della modernità, a fronte dell’etica protestante, calvinista in particolare, favorevole all’usura, il magistero riconfermò la posizione antiusuraica della Chiesa provvedendo a chiarire la questione anche sotto il profilo teologico. Pur ribadendo la tradizionale dottrina aristotelico-tomista sulla infecondità del denaro, la Chiesa approvò, mediante la costituzione Inter multiplices del 1515 di Papa Leone X, pubblicata nella X sessione del V Concilio Lateranense, l’esperienza francescana, sorta nel XV secolo, dei Monti di Pietà, per merito in particolare di San Bernardino da Siena, con lo scopo di raccogliere, facendo leva sugli obblighi di carità e di onestà, denaro a basso prezzo e prestarlo ai lavoratori ed ai bisognosi fissando un tasso di interesse, giustificato come mero rimborso o compenso delle spese di servizio per remunerare i depositanti, oscillante tra il 2% ed il 5% in un’epoca nel quale esso non aveva limiti.

Si aprì, a seguito di questa esperienza, in ambito teologico, la grande discussione, che fu portata avanti, con esiti non sempre felici, soprattutto dalla Seconda Scolastica della Scuola di Salamanca, sul cosiddetto «giusto prezzo», contrapposto al «turpe lucro», e che vide divisi i teologi tra quelli che ritenevano giusto il solo interesse moderato, come compenso del «lucro cessante» (chi, per carità sociale, presta denaro – si diceva – rinuncia al suo uso immediato a favore del debitore sicché è giusto che percepisca un compenso modico per questa rinuncia) e quelli che invece, influenzati dal calvinismo, ritenevano giusto solo il prezzo fissato dal libero mercato e quindi qualunque saggio di interesse, anche se usuraico. Questa discussione, nella posizione dei teologi che non intendevano lasciare la fissazione del «giusto prezzo» al libero mercato, anticipava quella che nel XX secolo si aprirà, intorno alle tesi del maggiore C. H. Douglass, sul cosiddetto «credito sociale».

Dall’esperienza dei Monti di Pietà è nato il modello cattolico di banca statutariamente obbligata, con tassi di interesse moderati sia dal lato dei depositanti che dei prenditori, al servizio dell’economia reale. Nel XIX secolo saranno la Casse di Risparmio e le Cooperative popolari di credito, sorte nell’ambito del movimento sociale cattolico post-unitario riunito intorno all’Opera dei Congressi ed all’Unione Studi Sociali di Giuseppe Toniolo, a continuare la tradizione dei Monti di Pietà. Oggi questa tradizione rivive nella banca etica e nelle forme di microcredito sociale praticate da organismi ecclesiali sul tipo della Caritas.

Se alcuni teologi della tarda Seconda Scolastica nel XVII secolo (11) finirono per accettare, sulla scorta delle idee protestanti di Calvino, come «naturale» il prezzo di mercato, ossia il tasso di interesse liberamente contratto tra le parti senza riguardo al fatto che uno dei due contraenti, quello bisognoso di credito, non è, nella realtà, posto in condizioni di eguaglianza con il creditore e quindi in quella di poter liberamente decidere e influenzare la misura del saggio di interesse, la preoccupazione autenticamente cristiana dei teologi morali della prima età moderna, nella questione del «giusto prezzo», è stata quella di evidenziare che tale prezzo per essere davvero giusto deve essere equo, commisurato alle effettive possibilità del debitore, e che quindi non sempre, anzi quasi mai, il «giusto prezzo» coincide con quello libero di mercato. Il giusto prezzo è il risultato di prioritarie considerazioni di ordine morale e sociale e pertanto è nozione sovra ed extra economica. Vegliare e rendere possibile lo spostamento del mercato verso il prezzo giusto, ponendo ad esempio massimi inderogabili alla contrattazione del tasso di interesse, è uno dei compiti più importanti del buon governo cristiano o cristianamente ispirato.

Alla luce dello sforzo a suo tempo effettuato dalla teologia morale cattolica per definire il concetto di «giusto prezzo», dovremmo chiederci come mai nessuno, ad imitazione delle legislazioni nazionali per le quali i prestiti soggetti a tassi oltre un limite legalmente fissato ricadono nel reato di usura, propone di imporre ai mercati finanziari, con opportune convenzioni internazionali, un limite massimo ai tassi di interesse che sia rispettoso anche della possibilità dei debitori di ripagare il debito senza doversi dissanguare, soprattutto se trattasi di Stati o Unioni di Stati.

Il più famoso dei Monti di Pietà fu il senese Monte dei Paschi, che era all’epoca altra cosa da quel che è oggi. Tale Monte fu tra i primi ad avviare la pratica del «credito sociale» ossia l’uso sociale del capitale finanziario, applicando saggi di interesse moderati e commisurati sulle possibilità del debitore, per finanziare esclusivamente iniziative economiche generatrici di effettiva ricchezza per la comunità, laddove, invece, le grandi dinastie di banchieri (i Bardi, i Medici, i Fugger, etc.) praticavano prestiti speculativi allo Stato, indebitandolo, o ai privati senza riguardo alcuno per la possibilità dell’attività produttiva del debitore di sopravvivere all’interesse praticato.

Dopo Leone X, furono Sisto V, con la bolla Detestabilis del 1586, Alessandro VII nel 1666 ed Innocenzo XI nel 1679, a ribadire la condanna ecclesiale della pratica usuraia.

Nel XVIII secolo Benedetto XIV con l’enciclica Vix pervenit (1745) – che alcuni considerano la prima enciclica sociale della Chiesa – riconfermò la dottrina tomista sulla sterilità del denaro. Quest’ultima enciclica è importante perché, al di là del rigorismo con il quale ribadisce una dottrina finanziaria già in qualche modo moderata nei secoli immediatamente post-medioevali, voleva essere una presa di posizione contro la deriva verso l’egemonia autorefenziale della finanza che si andava profilando nelle elaborazioni del pensiero illuminista. Con la Rivoluzione Francese, infatti, le legislazioni civili, che in precedenza perlomeno tentavano di dissimulare l’attività finanziaria usuraia con vari espedienti giuridici (12), iniziarono, come conseguenza dell’avanzamento del processo di scristianizzazione della società, a legalizzare anche formalmente l’usura, illuministicamente ritenuta benefica per l’economia.

Quando ormai l’età moderna era avviata verso una sempre più crescente finanziarizzazione, sempre più autoreferenziale, dell’economia, Leone XIII ribadì la posizione di condanna ecclesiale nell’ambito del quadro, apertosi con l’industrializzazione, della «questione operaia». La Rerum Novarum (1891), infatti, definì l’usura «divoratrice» e su questa base San Pio X, nel suo catechismo, ricomprese l’usura tra i peccati contro il settimo comandamento (non rubare) e tra quelli che gridano vendetta al cospetto di Dio perché equiparata negli effetti all’omicidio.

Citiamo: «Soppresse nel secolo scorso le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire al loro posto, mentre le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano – a poco a poco le circostanze hanno consegnato gli operai soli e indifesi alla disumanità dei padroni e alla sfrenata cupidigia della concorrenza. Accrebbe il male unusura divoratrice, che sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altra specie ad opera di ingordi speculatori. A tutto ciò si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, attuatosi nelle mani di pochi, al punto che pochissimi ricchi e straricchi hanno imposto un giogo quasi servile allinfinita moltitudine dei proletari» (Rerum Novarum, paragrafo 2).

Ancora: «Dovere dei ricchi (è) non danneggiare i piccoli risparmi delloperaio né con la prepotenza, né con linganno, né con lusura» (Rerum Novarum, paragrafo 17).

Quindi il Catechismo di Pio X: «Il settimo comandamentonon rubareci proibisce di danneggiare il prossimo nella roba: perciò proibisce i furti, i guasti, le usure, le frodi nei contratti e nei servizi, e il prestar mano a questi danni».

La glossa al paragrafo 2269 del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 afferma: «Tollerare, da parte della società umana, condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa ingiustizia e una colpa grave. Quanti nei commerci usano pratiche usuraie e mercantili che provocano la fame e la morte dei loro fratelli in umanità, commettono indirettamente un omicidio, che è loro imputabile».

Torna, come si vede, l’equiparazione tra usura ed omicidio.

Con la Quadragesimo Anno, enciclica del 1931 pubblicata nel corso della Grande Depressione iniziata nel 1929, Pio XI bollò, al paragrafo 108, come «funesto ed esecrabile» l’«internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro». Nel precedente paragrafo 104, si può leggere la condanna del «potere economico dispotico in mano di pochi» la cui natura è spiegata nella sua essenza finanziaria nel paragrafo 105, seguente, dove si afferma che «Questo potere è esercitato più che mai dispoticamente da quelli che, tenendo in pugno il denaro, lo fanno da padroni, dominano il credito e concedono i prestiti a chi vogliono, onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive lorganismo economico, e hanno in mano, per così dire, lanima delleconomia; sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare».

La Chiesa prendeva così coscienza della dimensione ormai globale del processo di finanziarizzazione autoreferenziale dell’economia del quale andavano facendo le spese le classi più deboli ed i popoli più poveri.

A questa dimensione globale del problema si interessarono poi anche Paolo VI con la Populorum progressio e Giovanni Paolo II, che entrambi affrontano la globalizzazione della finanziarizzazione con un occhio soprattutto ai Paesi in via di sviluppo sottoposti alle ricette usurocratiche del FMI.

Giovanni Paolo II, a fronte delle politiche neoliberiste imposte dal FMI ai popoli che per sventura cadono sotto la mannaia di un suo prestito (e questo rischio grava oggi anche sopra i popoli europei alle prese con l’assalto della speculazione finanziaria all’euro che fa leva sui loro debiti pubblici) afferma nella Centesimus Annus (1991): «È certamente giusto il principio che i debiti debbano essere pagati, non è lecito, però chiedere o pretendere un pagamento quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni».

Papa Wojtila pensava certamente ai popoli del Terzo Mondo, ma chiunque può constatare quanto sono attuali queste parole se pensiamo alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, alla Spagna, alla nostra stessa Italia, ed all’Europa intera, di questi mesi alle prese con i diktat della BCE, del FMI e dei «mercati finanziari i». Il problema non è più solo del Terzo Mondo ma ci investe tutti, anche qui nel cosiddetto Primo Mondo.

Questa veloce carrellata del magistero ecclesiale in tema di usura non svela però pienamente il senso «apocalittico» (ossia «rivelatorio») che si cela nel mistero di iniquità finanziario.

Da grande teologo e uomo di preghiera, è il Papa attuale, quasi – anzi senza «quasi» – seguendo una ispirazione non casuale in tempi come i nostri nei quali il «figlio della perdizione» sembra essersi scatenato senza che si veda all’orizzonte nessun Katéchon politico capace di trattenerlo, ad ammonire l’umanità sul pericolo metafisico, oltre che sociale, dello strapotere dei «capitali anonimi».

Lo ha fatto nella sua omelia durante l’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi nel 2010.

È opportuno, pertanto, citare direttamente Benedetto XVI.

«Tenendo conto – egli ha detto parlando del ‘mistero apocalittico’ di Maria – di questo nesso tra Theotókos e Mater Ecclesiae, il nostro sguardo va verso lultimo libro della Sacra Scrittura, lApocalisse, dove, nel capitolo 12, appare proprio questa sintesi. La donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo e la luna sotto i piedi, partorisce. E partorisce con un grido di dolore, partorisce con grande dolore. Qui il mistero mariano è il mistero di Betlemme allargato al mistero cosmico. Cristo nasce sempre di nuovo in tutte le generazioni e così assume, raccoglie lumanità in se stesso. E questa nascita cosmica si realizza nel grido della Croce, nel dolore della Passione. E a questo grido della Croce appartiene il sangue dei martiri. Così, in questo momento, possiamo gettare uno sguardo sul secondo Salmo di questa Ora Media, il Salmo 81, dove si vede una parte di questo processo. Dio sta tra gli dei – ancora sono considerati in Israele come dei. In questo Salmo, in un concentramento grande, in una visione profetica, si vede il depotenziamento degli dei. Quelli che apparivano dei non sono dei e pèrdono il carattere divino, cadono a terra. Dii estis et moriemini sicut homines’ (confronta Salmo 81, 6-7): il depotenziamento, la caduta delle divinità. Questo processo che si realizza nel lungo cammino della fede di Israele, e che qui è riassunto in ununica visione, è un processo vero della storia della religione: la caduta degli dei. E così la trasformazione del mondo, la conoscenza del vero Dio, il depotenziamento delle forze che dominano la terra, è un processo di dolore. Nella storia di Israele vediamo come questo liberarsi dal politeismo, questo riconoscimento – ‘solo Lui è Dio’ – si realizza in tanti dolori, cominciando dal cammino di Abramo, lesilio, i Maccabei, fino a Cristo. E nella storia continua questo processo del depotenziamento, del quale parla lApocalisse al capitolo 12; parla della caduta degli angeli, che non sono angeli, non sono divinità sulla terra. E si realizza realmente, proprio nel tempo della Chiesa nascente, dove vediamo come col sangue dei martiri vengano depotenziate le divinità, cominciando dallimperatore divino, da tutte queste divinità. È il sangue dei martiri, il dolore, il grido della Madre Chiesa che le fa cadere e trasforma così il mondo. Questa caduta non è solo la conoscenza che esse non sono Dio; è il processo di trasformazione del mondo, che costa il sangue, costa la sofferenza dei testimoni di Cristo. E, se guardiamo bene, vediamo che questo processo non è mai finito. Si realizza nei diversi periodi della storia in modi sempre nuovi; anche oggi, in questo momento, in cui Cristo, lunico Figlio di Dio, deve nascere per il mondo con la caduta degli dei, con il dolore, il martirio dei testimoni. Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano luomo, che non sono più cosa delluomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche. Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dallopinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via. Queste ideologie che dominano, così che si impongono con forza, sono divinità. E nel dolore dei santi, nel dolore dei credenti, della Madre Chiesa della quale noi siamo parte, devono cadere queste divinità, deve realizzarsi quanto dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini: le dominazioni, i poteri cadono e diventano sudditi dellunico Signore Gesù Cristo. Di questa lotta nella quale noi stiamo, di questo depotenziamento di dio, di questa caduta dei falsi dei, che cadono perché non sono divinità, ma poteri che distruggono il mondo, parla lApocalisse al capitolo 12, anche con unimmagine misteriosa, per la quale, mi pare, ci sono tuttavia diverse belle interpretazioni. Viene detto che il dragone mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come lunica razionalità, come lunico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio. Perciò il Salmo dice – il primo salmo dellOra Media – la fede dei semplici è la vera saggezza (confronta Salmo 118,130). Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano. E cè anche unultima parola nel Salmo 81, ‘movebuntur omnia fundamenta terrae’ (Salmo 81,5) vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza. E poi il Salmo dice: ‘Alzati, Signore, e giudica la terra’ (Salmo 81,8). Così diciamo anche noi al Signore: ‘Alzati in questo momento, prendi la terra tra le tue mani, proteggi la tua Chiesa, proteggi lumanità, proteggi la terra’. E affidiamoci di nuovo alla Madre di Dio, a Maria, e preghiamo: ‘Tu, la grande credente, tu che hai aperto la terra al cielo, aiutaci, apri anche oggi le porte, perché sia vincitrice nella verità, la volontà di Dio, che è il vero bene, la vera salvezza del mondo’. Amen» (13).

Non è un caso che in tutto il mondo, negli ultimi decenni, siano andate intensificandosi le apparizioni mariane e che i dogmi concernenti Maria siano stati codificati dalla Chiesa a partire dagli ultimi due secoli.

Il Papa diceva le parole che abbiamo riportato appena un anno fa. Rilette oggi, mentre l’aggressione della finanza autoreferenziale ai popoli ed all’economia reale si va scatenando senza limiti, fanno meditare nella prospettiva alta – del tutto ignota alla politica miseranda che vediamo sul palcoscenico quotidiano – della teologia della storia.

È passato molto tempo da quando Dante, che abbiamo già ricordato, lamentava, riferendosi anche agli usurai, l’ascesa sociale della «gente nova» che «i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata» (Inferno XVI, 72-74); ma oggi come ai suoi tempi non è men vero «chusura offende la divina bontade» (Inferno XI, 95-96).

Luigi Copertino




1
) Dante è ancora, giustamente, più severo contro i chierici avidi di rendite. Questa avidità dispiace a Dio ancor più dell’usura: «Ma grave usura tanto non si tolle / contral piacer di Dio, quanto quel frutto / che fa il cor de monaci sì folle» (Paradiso XXII, 79-81). Dante vede, nei suoi tempi, emergere l’economia capitalista ed imputa ad essa la corruzione della sua Firenze e, fatto ancor più grave ai suoi occhi, del clero: «… produce e spande il maledetto fiore / cha disviate le pecore e gli agni, / però che fatto lupo del pastore» (Paradiso IX, 132). E contro i simoniaci la condanna è senza appello: «Fatto avete dio doro e dargento» (Inferno XIX, 126). Nel canto XI dell’Inferno, laddove il Poeta spiega la struttura morale del luogo di perdizione eterna, Dante si rivolge a Virgilio chiedendogli il motivo per il quale l’usura sia violenza contro Dio. I versi 97-111 di tale cantica spiegano, per bocca di Virgilio, la concezione morale che nel medioevo presiedeva all’economia. Secondo questa visione, ciascun uomo ricava di che vivere dalla bontà e generosità della creazione che Dio ha donato all’uomo chiamato, dal suo Creatore, a «custodire» e «coltivare», come è detto in Genesi, la terra («il giardino») ossia a rendere lode alla Somma Bontà mediante l’accrescimento della bellezza e della fecondità del creato. Quindi l’arte dell’uomo, ovvero il lavoro, è prescritto da Dio («a Dio quasi è nepote») come legge di natura. Il lavoro, dunque, originariamente non è pena ma lode. Diventa pena a seguito del peccato. Ora, spiega Virgilio, l’usuraio non guadagna del proprio lavoro ma sfrutta quello degli altri. Ecco perché il prestito ad interesse è disonesto, offende l’arte, ossia il lavoro, e pertanto in ultima istanza Dio stesso. È evidente che Dante, in questi versi, si richiama all’autorità di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino, esponendo in sostanza la dottrina tradizionale sulla infecondità del denaro.
2
) Confronta A. Fiamma Abbiamo secolarizzato anche il denaro? in http://andreafiamma.blogspot.com 7 novembre 2011.
3
) Un noto banchiere, di provenienza Opus Dei, come Gotti Tedeschi, attuale presidente dello IOR, che solo qualche anno fa, intervistato da Rino Cammilleri, inneggiava calvinisticamente a Denaro e Paradiso, dovrebbe spiegare il senso che egli attribuisce ad una sua frase, «una buona economia si fonda su leggi naturali utili all’uomo». Dovrebbe, in altri termini, spiegare se egli dà a questa frase il significato che gli danno i liberisti (e molti suoi compagni di strada catto-neoconservatori) che è nient’altro quello che essi desumono dalla scuola di Vienna, da von Mises e von Hayek, e che è sostanziabile nell’idea che l’«ordine naturale» è implicito nelle stesse leggi economiche (sicché, come si osservava, l’egoismo alla Adam Smith diventa salutare per tutti) oppure se a quella frase egli dà il senso, autenticamente, cattolico per il quale l’economia è comunque sempre subordinata alla morale eterofondata sulla Rivelazione e quindi non è possibile separare l’economia, pur nella considerazione delle sue leggi senza però assolutizzarle, dall’Amore di Dio che invita a dare senza nulla sperare o, sul piano etico-sociale e giuridico, che invita perlomeno al dare a ciascuno il suo.
4
) Confronta A. Fiamma, ibidem. Ad onor del vero va detto che il nostro amico non nasconde affatto che nella concezione americana dell’economia vi sia qualcosa di poco rassicurante: «Si legga qui – egli continua – anche il senso di un mondo che al contempo si dimostra senza freni in economia, ovvero che rifiuta qualsiasi intervento esterno volto a limitare lassoluta parresia del numero, e, dal punto di vista etico, rigidamente arroccato sulla tradizione cristiano-calvinista (si aprirebbe poi il tema del New Age e della religiosità negli USA, che non possiamo trattare ora)».
5
) È opportuno riportare integralmente questo passo evangelico perché esso nella sua interezza suona ancor più cogente: «E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dellAltissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Luca 6, 34-36).
6
) Confronta L. Garofoli, La moneta dono di Dio, in EFFEDIEFFE 6 ottobre 2011.
7
) Confronta L. Garofoli, ibidem.
8
) Qui è appena il caso di ricordare la vexata quaestio esegetica sulle «due città» cui si riferisce Agostino. Esse non sono da identificarsi, rispettivamente, nella Chiesa e nella comunità politica naturale, ossia lo Stato, come si è creduto, erroneamente, nel medioevo per supportare improprie pretese teocratiche del Papato da Gregorio VII in poi. Agostino non è affatto pessimista nei riguardi del Politico ma soltanto realista e tiene conto della presenza e degli effetti del peccato originale, che tuttavia egli sa bene manifestarsi anche nella Chiesa a causa della fallibilità degli stessi cristiani. Quindi le «due città» rimangono fino alla fine dei tempi «permixtae», esattamente come insegnato da Cristo nella parabola del grano e della zizzania che crescono insieme nell’unico campo del Padrone. Laddove sembra che Agostino identifichi la «civitas diaboli» con la «civitas mundi» e quindi con lo Stato; in realtà, come ha dimostrato Sergio Cotta, sussiste nel suo pensiero una figura intermedia, la «civitas hominum», ossia la comunità politica, che, a seconda di quale «amore» prevalga nel cuore dei governanti e dei governati, può volgere sia verso la città del diavolo che verso la città di Dio.
9
) Significativamente il Cantos poundiano si conclude con questa annotazione: «N. B. Usura: una tassa prelevata sul potere dacquisto senza riguardo alla produttività, e sovente senza riguardo persino alla possibilità di produrre (onde il fallimento della Banca dei Medici)». Il fallimento cui si riferisce Ezra Pound fu quello che segnò la fine della dinastia fiorentina.
10
) La questione della sterilità del denaro ha subìto una parziale rivisitazione nella teologia cattolica a partire dal XV secolo con l’esperienza francescana dei Monti di Pietà, antesignana della moderna finanza etica, che contemplava l’ammissibilità di un modico saggio di interesse come compenso del servizio sociale di raccolta del credito in favore delle iniziative produttive. Da qui, mentre con il calvinismo ogni remora sul prestito ad interesse veniva a cadere, si sviluppò il modello della banca cattolica finalizzata a frenare le usure mediante, appunto, l’applicazione di un moderato tasso sui prestiti, in modo da non strozzare i produttori. Dunque un modello di finanza al servizio dell’economia reale contrario a quello che ha invece prevalso nel processo di finanziarizzazione. Shakespeare, ne Il Mercante di Venezia, riprende anche lo stereotipo dell’ebreo usuraio, poi diventato un luogo comune. Il drammaturgo inglese non aveva certo sentimenti che oggi con troppa facilità si ritengono «antisemiti», laddove invece i suoi erano solo tutt’al più sentimenti «giudeofobici» in senso economico o teologico, o in entrambi i sensi. Storicamente non è, però, dubitabile che in età premoderna l’attività finanziaria era per lo più, benché in senso relativo (si pensi ai Medici, ai Bardi, ai Fugger, tutte dinastie bancarie non ebraiche ma «cristianissime»), appaltata, per motivi religiosi, agli ebrei. I quali d’altro canto, proibita loro quasi ogni altra attività economica, si dedicarono, comprensibilmente, alla finanza con uno zelo fervente mosso anche da concezioni teosofiche come il cabalismo spurio fondato sulla «magia» delle lettere dell’alfabeto e, per stretta connessione, dei numeri: una filosofia occulta che si prestava molto bene ad un attività, come quella finanziaria, che si esprime nella contabilità. Sussiste una segreta corrispondenza tra l’esoterismo pitagorico, ellenista, ed il cabalismo spurio (diciamo «spurio» perché esiste anche un cabalismo puro). Naturalmente non tutti gli usurai erano ebrei né tutti gli ebrei erano banchieri o usurai. Anzi, spesso gli ebrei poveri finivano per fare le spese, quali capri espiatori, del livore popolare che i loro correligionari arricchiti suscitavano nei goym. Di questa realtà storica, e dell’intreccio che sussisteva tra questioni teologiche e questioni socio-economiche, come dell’incapacità popolare a discernere tra l’ebreo usuraio e l’ebreo non usuraio, testimonia, appunto, Shakespeare, sempre nell’opera citata, quando mette in bocca a Shylock queste parole indirizzate ad Antonio, il mercante cristiano che gli rovinava la piazza perché non prestava ad interesse: «Lo odio perché è cristiano / ma di più perché nella sua bassa ingenuità / presta denaro gratis e ci abbassa / il tasso dinteresse qui a Venezia. / Se riesco una volta a prenderlo di fianco / potrò saziare il vecchio rancore che gli porto. / Lui odia la nostra sacra nazione e inveisce / proprio dove più si radunano i mercanti, / contro di me, i miei affari, il mio ben meritato profitto, / che lui chiama interesse. Sia maledetta la mia tribù, / se gli perdono». Che spesso la giudeo-fobia nascondesse, dietro parvenze religiose, motivazioni di ben altro ordine è evidente nella documentazione storica a disposizione. Ad esempio, nel 1752 i mercanti di Nantes si lamentavano della concorrenza loro effettuata dai mercanti ebrei qualificati, nella doglianza, come «stranieri che praticano un commercio illecito» ed invocavano provvedimenti dalle autorità facendo leva anche su questioni di fede. Oppure, nel 1777 le corporazioni parigine dei negozianti si rivolgevano a Luigi XV contro l’ammissione in città della concorrenza ebraica protestando la forte solidarietà che univa gli ebrei a fronte dell’isolamento con cui agivano i «negozianti cristiani» e quindi la imparità nei rapporti economici che ne sarebbero scaturiti (per questi episodi confronta Werner Sombart Gli ebrei e la vita economica, Ar, Padova). Come si vede le questioni religiose venivano, dall’una e dall’altra parte, usate per supportare interessi di ben altra natura, in un intreccio complesso e difficile (ragioni da vendere avevano sia i mercanti cristiani che quelli ebrei ed entrambi i gruppi erano nel diritto di vedere tutelato il loro interesse a sfamare la propria famiglia) sicché a nessuno può essere consentito, da questi eventi storici, dedurre che l’ostilità per ragioni di razza contro gli ebrei abbia radici nella teologia cristiana.
11
) Uno di questi teologi  «calvinizzati» fu Claudio Salmasius, che un altro fisiocratico, «cattolico» ma culturalmente illuminista, l’abate teatino Ferdinando Galliani, autore nel 1751 di uno scritto Della moneta, più tardi loderà come «uomo di cui non vè forse stato chi abbia avuto ingegno e lettura più grande». Il Salmasio affermava che l’uso del denaro è vendibile ed il prezzo deve essere fissato dalla libera volontà dei contraenti. Allo scopo di capovolgere le argomentazioni di Sant’Ambrogio portava l’esempio di due Paesi cristiani in guerra. Fino a quando perdura la guerra nessun affare, neanche il prestito ad interesse, è consentito fra di essi. Ma non appena subentra la pace, ecco che tutti i rapporti economici vengono ripristinati, compreso il prestito usuraico. Sicché, ne deduce Salmasio, l’usura si pratica tra amici e non tra nemici. Singolare ragionamento che rappresenta molto bene quale è la logica luciferina, ossia la logica rovesciata che chiama male il bene e bene il male o che li confonde per annullarli. Un esempio, questo di Salmasio, della dottrina gnostica del peccato salutare, sicché da un peccato, l’usura, si ricaverebbe un bene l’amicizia o la pace. Tuttavia la realtà, quella che manca all’astrazione liberista, testimonia, anche storicamente, che l’usura esprime sempre e solo rapporti di sopraffazione del forte sul debole e quindi nega, alla radice, l’amicizia ed ogni vera pace. Su Salmasio confronta Benjamin Nelson Usura e cristianesimo, Sansoni, Firenze, 1967.
12
) La pressione teologica, morale e sociale sfavorevole alla finanza usuraia era a tal punto forte nel medioevo cristiano che gli usurai ed i banchieri di fede cristiana, pur praticando – spesso spietatamente – il vietato prestito ad interesse, sentivano su di sé il peso della colpa e della responsabilità, davanti a Dio ed agli uomini, della loro disonesta ricchezza. Per questo essi, allo scopo di alleggerire tale peso morale e sociale, restituivano parte del maltolto alla comunità sotto la forma del finanziamento gratuito di opere di carità, di opere d’arte, della costruzione di ospedali, università, chiese, etc. Si pensi, solo per fare un esempio noto, alla cappella padovana degli Scrovegni, affrescata su commissione di quella nota famiglia di banchieri, dal grande Giotto.
13
) Confronta Meditazione del Santo Padre Benedetto XVI nel corso della prima congregazione generale dell’Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, aula del Sinodo, 11 ottobre 2010, dal sito www.Vatican.va.


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