germany_UE.jpg
Trattato di Lisbona sepolto dai tedeschi
Stampa
  Text size
Dalla sua sede nella sonnacchiosa cittadina di Karlsruhe, la Corte Costituzionate tedesca (BVG) ha scavato la fossa alla cosiddetta «Costituzione» Europea. Il metodo usato è giuridico, quindi tecnico e un po’ complicato, ma vale la pena di raccontarlo, perchè avrà effetti dirompenti sulla UE.

I giudici supremi federali dovevano decidere su diversi ricorsi contro il Trattato di Lisbona, il meccanismo creato dopo la bocciatura della Costituzione Europea, per sottrarre altra sovranità agli Stati nazionali. La questione che i ricorsi ponevano era essenzialmente questa: il Trattato di Lisbona è o no in contrasto con la costituzione tedesca?

Si noti che, a parte l’Irlanda e la Polonia, la Germania è il solo grande Stato - e stato fondatore della Unione - a non avere ancora ratificato il Trattato. Più precisamente: le due Camere germaniche (Bundesrath e Bundestag) hanno volonterosamente approvato il Trattato di Lisbona (come si chiedeva loro dall’alto), ma il presidente tedesco Horst Koehler non ha firmato la ratifica, proprio in attesa della sentenza della Corte Costituzionale. La Corte infatti, ormai da anni e con apposita sentenza, s’è arrogata il diritto di esaminare la congruità delle normative europee con la costituzione della federazione, e già questo è un colpo contro i disegni sovrannazionali eurocratici.

Oggi, la Corte ha deciso che sì, il Trattato di Lisbona è in linea di principio compatibile con la costituzione tedesca; ma potrà essere ratificato solo quando le due Camere avranno varato una «legge supplementare» di raccordo, legge di cui la BVG ha fissato in modo minuzioso e dettagliato  i parametri. Tali parametri coprono praticamente tutti i campi politici che (esordisce la Corte) «plasmano le condizioni di vita della popolazione e che, in particolare, dipendono da precondizioni culturali, storiche e linguistiche».

Come esempio di tali precondizioni, la Corte elenca il diritto penale, la Polizia, il diritto tributario, le politiche sociali, l’educazione e l’istruzione, le norme sulla stampa e sui media, i diritti delle comunità religiose. In tutti questi campi, secondo la sentenza, la costituzione nazionale vieta di trasferire i poteri dello Stato alla Unione Europea. Di fatto ha sancito che su tutte le questioni importanti l’ultima parola spetta allo Stato nazionale (1).

Il verdetto della BVG dichiara anche che il parlamento europeo non ha legittimità democratica per decidere su queste questioni, in quanto «non è votato a suffragio universale ed uguale», dunque non è autorizzato a «decidere in materie politiche di importanza cruciale», perchè non rappresenta «il popolo sovrano d’Europa», ma è un corpo sovrannazionale che rappresenta i cittadini degli Stati-membri, ciascuno per sè.

Allo stesso modo, la sentenza nega alla Corte di Giustizia Europea il diritto di decidere sulle sentenze della Corte federale. Di fatto così la BVG si dichiara il tribunale di ultima istanza, superiore alle istanze eurocratiche. E «approvato» con queste limitazioni, il Trattato di Lisbona viene trasformato nel suo contrario. Lo scopo del Trattato era consegnare alle istituzioni dell’Unione Europea  sempre più potere decisionale, riducendo l’autorità degli Stati.

Gli effetti saranno dirompenti. Fino ad oggi, gli europeisti alla Padoa Schioppa  potevano dire, di fronte alla bocciatura irlandese del Trattato, che l’Europa poteva andare avanti senza l’Irlanda, un paesetto. Ma dopo l’approvazione-bocciatura della Corte tedesca, è tutta un’altra questione. E’ chiaro che la BVG e la Corte di Giustizia Europea, che si ritiene la più alta autorità giuridica in Europa, verranno in conflitto in futuro; e lo Stato in conflitto con l’Europa è il più popoloso ed economicamente forte della comunità, che già per questi suoi caratteri esercitava sulla UE (e sulla Banca Centrale) un dominio di fatto, ancorchè indiretto. Adesso, l’interesse nazionale tedesco viene esplicitamente in primo piano, senza l’ipocrisia del linguaggio burocratico europoide.

La Germania ha rovesciato così decenni della sua stessa politica di adesione al progetto eurocratico, all’impegno politicamente corretto di una continua espansione e sempre più profonda integrazione della Comunità. Anzi, la corte di Karlsruhe ventila per la prima volta, in caso che la UE le sottragga altre dosi di sovranità, la possibilità di  uscirne.

«Nel peggiore dei casi»
, si legge nella sentenza, «la Germania dovrà rifiutare la sua ulteriore partecipazione alla Unione Europea».

E’ strano che le lobby europeiste negli Stati abbiano fatto finta di  non cogliere la natura esplosiva di questa sentenza, al punto che la Merkel ha salutato il verdetto della BVG come «un buon giorno per il Trattato di Lisbona», fingendo che fosse approvato. Ma forse non è poi tanto strano: di fronte ad ogni nuovo «no» delle nazioni e delle popolazioni, l’eurocrazia ha sempre adottato la posizione di far finta che niente fosse successo, che l’Europa può continuare a funzionare «a due velocità», che all’Irlanda si potrà dire si «stare fuori» se non approva Lisbona. Ma se è la Germania a chiamarsi fuori, diventa difficile sostenere che alla UE non è succeso niente di grave.

Se la Germania, lo Stato più grosso e potente, dichiara la primazia dei suoi interessi nazionali su quelli dei 26 altri Stati membri, è ovvio che gli altri Stati dovranno fare altrettanto. Ne nasceranno prevedibili conflitti nazionali - già visibili sotto il gergo untuoso della nomenklatura eurocratica, insopprimibili anzi più intensi via via che si aggrava la crisi economica - che  facilmente possono sgretolare la costruzione europea progettata a tavolino 70 anni fa dai banchieri americani e dal loro fiduciario Jean Monnet.

Non sarà un periodo bello nè facile  quello che ci attende. Ma la decisione delle nomenklature di continuare il progetto come niente fosse (e magari procedere ad inglobare nella UE Turchia, Israele e Georgia) è proprio quella che aggraverà i conflitti. La questione è sul tavolo, e richiede una risposta. Un’altra Europa è possibile?

Come ha esultato Peter Gauweiler, parlamentare della CSU bavarese - è l’autore di uno dei ricorsi contro il Trattato di  Lisbona, che ha presentato in sfida alla sua coalizione CDU/CSU - la Corte ha ridato vita all’idea di una «Europa delle Nazioni», quella auspicata dal generale De Gaulle nel 1962.

E singolare e significativo che a fianco di Gauweiler (di destra) sia sceso Gregor Gysi, capo del partito di sinistra (ex comunista dell’Est), che aveva lui stesso fatto ricorso alla Corte contro Lisbona: secondo lui, la BVG «ha dato una lezione privata di democrazia al governo federale e alla maggioranza parlamentare», acritici approvatori del Trattato e insensibili ai desideri espressi dalla cittadinanza.

Vero è che tra le aree-chiave di cui la Corte di Karlsruhe arroga la sovranità alla nazione, ne manca vistosamente una: il settore dei mercati e della finanza. Ma già il Trattato di Lisbona ha fatto il possibile per rimuovere ogni ostacolo all’azione sovrannazionale e incontrollata dei poteri finanziari e degli interessi economici più forti. E le grandi banche tedesche ed europee, di questa libertà, hanno approfittato a tal punto da essere ridotte al sospetto d’insolvenza. L’Europa delle patrie è stata storicamente capace di mettere le redini agli speculatori, dal ‘29 in poi.

Un esempio può venire proprio da un’altra sentenza soprendente, di un’altra Corte Costituzionale, quella che meno si direbbe: la Corte Suprema degli Stati Uniti. La Corte ha dato ragione allo Stato di New York, che aveva cercato di perseguire le pratiche di «prestito predatorio» a gente incapace di pagare i mutui (quel genere di comportamento delle banche che ha portato al collasso attuale del sistema), ma era stato bloccato nella sua azione da un’autorità di controllo (in realtà posseduta dai banchieri), la Clearing House Association, con l’argomento che un’autorità locale non ha il diritto di ficcare il naso nelle banche, che sono regolamentate - se mai lo sono - a livello federale.

Ricordiamo in breve i fatti. Il procuratore e poi governatore di New York, Eliot Spitzer, qualche anno fa aprì un’indagine su un fatto strano: le banche davano ai bianchi mutui con tassi d’interesse più bassi che ai negri e agli ispanici. Poi scoprì di peggio: che i promotori delle banche andavano a cercare i negri e gli ispanici ed offrivano loro aggressivamente  mutui superiori ai loro scarsi guadagni (predatory lending, appunto), per incastrarli con prestiti «adjustable rate», ossia con tassi d’interessi bassissimi per i primi uno o due anni, e che poi rialzavano di colpo in modo enorme, costringendo i poveri ispanici e negri a fare fallimento e a vedersi pignorare la casa; che poi i debitori non pagassero alla finanza interessava poco, perchè aveva cartolarizzato i loro debiti  spacciandoli a ignari fondi d’investumento.

Era il tipico meccanismo che ha portato alla bolla dei «subprime», e Spitzer - un duro ebreo del Bronx - cominciò a spedire mandati di incriminazione ai pezzi grossi di Wall Street.
Guarda caso: nel marzo 2008 il New York Times rivelò che Spitzer era cliente abituale di un bordello di lusso, l’Emperors Club VIP, e si intratteneva con le ragazze a mille dollari l’ora. Ne nacque uno scandalo (ecco a cosa servono gli scandali sessuali) e Spitzer dovette dimettersi.

Gli è succeduto però Andrew Cuomo, che ha continuato la battaglia contro i «prestatori da preda». Questi si sono rivolti alla Corte Suprema, dove i conservatori repubblicani sono maggioranza, convinti che avrebbe dato ragione a loro e torto allo Stato di New York, sulla base della insindacabilità degli operatori di «mercato» da parte delle autorità locali.

Invece, ecco la per loro un’amara sorpresa: il giudice supremo Antonin Scalia, ultra conservatore (nominato da Bush), ha rotto i ranghi, votando con i «liberal» a 5 contro 4, per un controllo locale degli enti finanziari speculativi (2). Wall Street vede rosso; d’ora in poi, le banche dovranno vedersela con leggi statali a difesa dei consumatori-debitori, diverse Stato per Stato, che - si lagnano i pezzi grossi - «renderà più difficile per le banche e gli altri istituti finanziari mantenere un approccio nazionale al mercato».

«La capacità delle banche nazionali di condurre gli affari su base nazionale in USA è gravemente minata», grida Rich Whiting, capo della Financial Services Roundtable (la lobby che rappresenta le 100 maggiori ditte finanziarie).

Di fatto, come si vede, una chiara visione dell’interesse nazionale può sempre vincere su quelli dei poteri forti e sull’ideologia ultra-liberista dominante. Persino nella Corte Suprema di Bush.
Questa sentenza è importante anche per noi: data l’egemonia culturale che l’America esercita sul mondo, e sui suoi maggiordomi europei in particolare, essa segnala l’inizio di un nuovo modo di pensare l’economia liberista.

Purtroppo, se qualcosa cambierà, sarà dagli USA che dovremo aspettarci il via al cambiamento.




1) Ulrike Guérot, «Right problem, wrong Solution», European Council non Foreign Relations, 2 luglio. L’European Councin on Foreign Relations è l’organismo (una emanazione dell’americano Council on Foreign Relations di Rockefeller) in cui è stato recentemente cooptato Gianfranco Fini.
Questo organo si lagna della sentenza tedesca: «Restare attaccati allo Stato come solo corpo sovrano frustra il governo globale. In essenza, la decisione di Karlsruhe porterà, almeno in Germania, a una capacità di filtrare preliminarmente le leggi europee... Un esame nazionale della legislazione europea non è certo il modo di migliorare la legittimità di Bruxelles... Stiamo andando indietro».
2) Kevin G. Hall, «Scalia breaks ranks, slams Bush officials on bank regulation», McClatchy, 29 giugno 2009. «The Supreme Court has once again been required to act as a check against the former Bush administration’s attempt to prohibit state law from protecting consumers (…). The Court has reaffirmed the authority of the sovereign states to police corporate actors within a state, and protect their citizens», said Sen. Patrick Leahy, D-Vt., the chairman of the Judiciary Committee, in a statement. «And the Court has rightly rejected the national banks’ attempt to hide behind an unreasonable agency regulation in order to escape scrutiny from state authorities».


Home  >  Europa                                                                                            back to top

 
La casa editrice EFFEDIEFFE, diffida dal riportare attraverso attività di spamming e mailing su altri siti, blog, forum i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright ed i diritti d’autore.