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La creazione tra Fede e scienza (parte VI)
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Per concludere. Il «cogito cartesiano» come non avvertito equivoco dell’olismo postmoderno

I biologi olisti rimproverano, più che giustamente, ai loro colleghi darwinisti di essere degli attardati sul piano interdisciplinare. Essi fanno notare che i darwinisti sono ancora fermi al dualismo cognitivo, «soggetto-oggetto», cartesiano ed alla fisica meccanicista di Galileo. Il meccanicismo infatti legge i fenomeni esclusivamente alla luce della legge «causa-effetto». Per questo motivo i darwinisti, ritenendo ancora il tempo come un flusso di istanti che si succedono l’uno all’altro, concepiscono l’evoluzione come spinta di forze cieche, caso e necessità, equivalenti alle cause galileiane. Una spinta meccanica che proviene dal «passato» e si dirige verso un incerto «futuro». Il richiamo galileiano, dunque meccanicista, alle «cause efficienti» esclude, naturalmente, nell’ottica dei darwinisti ogni possibile intervento di una qualche «causa finale», ossia di ogni finalismo, come intesa, appunto, dalla filosofia e dalla teologia tradizionali.

Gli olisti obbiettano a questa visione meccanicista che, invece, la fisica contemporanea ha ormai abbandonato sia il meccanicismo che il dualismo cartesiano (54). In questa critica vi è, però, come vedremo, insieme ad un argomento di assoluta verità anche un gravissimo errore filosofico, ossia quello di ritenere il dualismo cartesiano, che tale poi non è affatto, come un retaggio del realismo agostiniano-tomista e quindi del realismo discendente dalla Tradizione cristiana. Errore che ha questa inaspettata conseguenza: il determinismo, cacciato dalla porta nella sua forma meccanicista, viene così fatto rientrare dalla finestra in una inedita forma, appunto, olista. Si tenga conto, infatti, che lo stesso meccanicismo razionalista sei/sette/ottocentesco altro non era che «circolarità», qui interpretata in chiave di meccanismo mentre ora è letta in chiave di organicismo, che si pretendeva assoluta sul solo piano della immanenza senza alcuna apertura o dipendenza dalla Verticalità della Trascendenza. Esattamente la stessa pretesa avanzata da un certo modo post-moderno, ed invero «neo-pagano», di concepire il paradigma olista.

Una certa interpretazione della nuova fisica relativista non guarda più allo spazio ed al tempo come a cose fra loro diverse e separate. Per essa c’è solo lo spazio-tempo come unica realtà a quattro dimensioni, dove la quarta di tali dimensioni sarebbe per l’appunto il tempo. Quindi non si potrebbe più parlare, a rigore, di passato, presente e futuro come cose distinte, ossia come noi li percepiamo. Non un flusso temporale ma una «staticità olista» nella quale, anche se a noi non percepibile, il passato, il presente ed il futuro sarebbero concentrati in un unico punto e dunque sempre compresenti, sempre concomitanti. Il che non vuol dire che sia possibile viaggiare a ritroso o in avanti nel tempo ma che l’eternità sarebbe già qui nell’immanenza, che il mondo, il cosmo spazio-temporale, sarebbe eterno, senza inizio e senza fine (55).

Come si vede, questo modo di intendere la fisica relativista e l’olismo porta a conseguenze «pre-cristiane». E’ un ritorno al concetto antico, pagano, extrabiblico, del mondo come eterno, come «grande animale» da sempre esistente. E’ chiarissimo che qui siamo davanti ad una inferenza gnostica, che ci avvicina incredibilmente al modo «new age», e, perché no?, massonico, di concepire il reale.

Questa concezione è strettamente legata al rifiuto di quello che è ritenuto il dualismo cognitivo cartesiano che, dicono gli olisti, avrebbe il suo antecedente teologico nella filosofia realista dell’Aquinate, sposata dalla Chiesa in quanto confacente all’asserito statuto creaturale del mondo. Il presunto dualismo tomistico-cartesiano sarebbe colpevole di aver distinto la materia (estensione) dal pensiero (cogito) ossia, in altri termini, di aver distinto il soggetto conoscente dalla realtà conosciuta, erroneamente ritenuta oggettiva, ossia altra dal soggetto che la osserva. Di qui, dicono gli olisti «panteisti», il meccanicismo, che è responsabile di un approccio dell’uomo, verso il mondo, contrassegnato da Volontà di Potenza e dallo sfruttamento, dalla reificazione della natura ritenuta, appunto, altra da sé.

Invece, continuano gli olisti «neo-pagani», il principio di indeterminazione di Heisenberg avrebbe dimostrato che tra il soggetto osservante e la realtà osservata vi è più che una profonda connessione addirittura una totale identità che non sappiamo riconoscere solo perché (mal)educati da una errata prospettiva meccanicista e dualista. La realtà è, affermano gli olisti panteisti, priva di vera consistenza oggettiva perché, come dimostrerebbe il predetto principio di indeterminazione, essa resta modificata dall’osservatore, con la conseguenza che non sarebbe possibile attingere alla realtà come tale, essendo essa determinata, quando addirittura non creata, dai sensi di chi la osserva.

Qui, in termini filosofici, il che dimostra la notevole inferenza pre-scientifica che adombra tale critica olista al vecchio meccanicismo, si afferma nient’altro che il «principio di immanenza» il quale, non conosciuto nella sua forma radicale dalla metafisica classica antica, che lasciava molti spazi per evitare la risoluzione dell’oggetto nel soggetto, e fu proprio tramite tali spazi che la Fede biblica ha potuto penetrare in ambito ellenistico, è stato portato ad una enunciazione radicalmente soggettivista proprio dal pensiero moderno, e per la precisione dal «cogito cartesiano». 

Nell’olismo che riafferma in modo radicale il «principio di immanenza» tra soggetto ed oggetto è evidente un’inferenza filosofica di tipo kantiano-idealista. Infatti, l’affermazione degli olisti panteisti circa l’inaccessibilità della realtà a noi esterna, perché quel che noi crediamo essere la realtà altro non sarebbe che la nostra soggettiva, solipsista, percezione della realtà, è nient’altro che la trasposizione in ambito scientifico dell’inafferrabile «noumeno» di Kant, dell’«io» oggettivizzato di Fichte, dell’hegeliana Ragione immanente che si manifesta attraverso la dinamica storico-spirituale «tesi-antitesi-sintesi» (che in Marx diventa dinamica della lotta di classe: «borghesia-proletariato-comunismo»).

Ritorna, a ben vedere, in questa inferenza idealistica nella scienza post-moderna, la primordiale tentazione gnostica dell’«eritis sicut Dei», ossia la pretesa dell’«io» soggettivo di essere non solo il datore di senso ma persino il creatore della realtà.

E’ la tentazione induistico-buddista a concepire la realtà oggettiva come «maya», come illusione fenomenica ossia alienazione della Potenza mentale corrispondente, quest’ultima, nell’uomo a ciò che di non transeunte agisce il mondo manifestato. E’ la prospettiva dalla quale partono tutti gli estimatori occidentali delle metafisiche orientali, pur diversissimi tra loro in quanto a «dottrina», da Gurdieff a Guénon, dalla Blawatsky ad Evola.

Quest’ultimo, ad esempio, proprio partendo dal suo giovanile «idealismo magico», elaborato oltre che nell’omonimo saggio anti-gentiliano anche in successive e più complesse opere come «Teoria e fenomenologia dell’Individuo assoluto» e «L’Uomo come Potenza», ha cercato di superare in senso «esoterico» il superomismo troppo naturalistico di Nietzsche per giungere all’affermazione che il segreto nascosto ai più, appunto «esoterico», della Tradizione Primordiale consiste nella risoluzione, iniziatica, prometeico-solipsista della realtà nel dominio del soggetto che ha attraversato la «prova del fuoco» ovvero che è riuscito ad annientare il dualismo illusorio responsabile della cristallizzazione, della «glaciazione», intorno al proprio sé, della realtà, che appare al soggetto come altra da sé ma che in verità altro non sarebbe che una alienazione del soggetto medesimo. In tal modo, per Evola, l’uomo, l’oltreuomo iniziatico, si fa «signore e padrone» della realtà, dominandola e soggiogandola a piacere (cosa che dimostra come la gnosi spuria, anche quanto si ammanta di apparente istanza di «amore», Evola insiste molto sull’«amore» come superamento dell’opposizione «io-mondo», nasconde sempre un volto prometeico e luciferino).

In altri termini, queste posizioni, affermano che tu lettore che stai leggendo altro non saresti che una proiezione, una alienazione illusoria dell’«io» dello scrivente, o viceversa, sicché sarebbe mio diritto assoluto, se riuscissi a dissolvere il ghiaccio dell’illusione fenomenica, quello di reificarti, magari fino a farti scomparire.

Ma, come si è detto anche in precedenza, il principio di indeterminazione della fisica contemporanea non postula affatto quanto pretendono di leggervi gli olisti «new age».

Si rifletta: è senza dubbio vero che, come afferma il predetto principio di Heisenberg, essendo la materia allo stesso tempo onda e corpuscolo, non è possibile all’osservatore determinare al tempo stesso la velocità e la posizione di una particella sub-atomica, in quanto l’osservatore stesso, individuando l’una o l’altra, in qualche modo «sceglie» di percepire o la velocità o la posizione della particella osservata. Tuttavia ciò non significa affatto che la realtà dipenda ontologicamente dal soggetto che la osserva, quasi che sia esso a determinarla con la sua percezione ed, in tal modo, a crearla. Il principio di indeterminazione si limita, molto più umilmente, a stabilire che il soggetto può scorgere soltanto una parte della realtà (velocità o posizione), la quale pertanto, proprio per questo, resta, nella sua insondabile, irriducibile ma oggettiva complessità, ben al di là delle percezioni soggettive e quindi non può, in ultima istanza, essere ritenuta dipendente dall’osservatore. In altri termini essa, la realtà, della quale l’osservatore, pur non potendola negare, non può cogliere contemporaneamente tutta l’oggettiva complessità, rimanda ad un Mistero Altro che postula, razionalmente, una Causa Prima, un Disegno Intelligente, secondo quanto ha da sempre sostenuto la metafisica realista della tradizione teologico-filosofica cristiana.

Infatti nel momento in cui della particella sub-atomica si individua la posizione, non per questo essa cessa, proprio all’atto dell’individuazione della sua posizione, di avere una velocità, sebbene non contemporaneamente individuabile dall’osservatore. E, viceversa, nel momento in cui della particella si individua la velocità, costante almeno nel tragitto preso di volta in volta in considerazione, o anche incostante, in caso di velocità variabile, non per questo essa cessa di avere una o più posizioni, sebbene non individuabili dall’osservatore che ha scelto di individuare la velocità.

Dunque: non è dalle facoltà percettive soggettive che dipende la realtà. Essa in verità rimane al di là delle percezioni soggettive, che ne registrano solo un aspetto alla volta, ed è perciò assolutamente oggettiva, benché «misteriosa», nel suo offrirsi all’osservatore e quindi, in ultima istanza, assolutamente e del tutto dipendente da una Volontà che non è quella del soggetto osservante, ma è Altra da quest’ultima. E questo spiega perché mai nonostante in apparenza il mondo sub-atomico, il «microcosmo», ci si presenti, per via del principio di indeterminazione, come un «caos», la realtà macrocosmica invece ci appare come perfettamente ordinata da leggi sapienti che rivelano una Intelligenza creatrice. L’apparente caos sub-atomico corrisponde all’originario modo «informe» di essere della materia, al momento della sua creazione (non emanazione!). L’ordine che si vede nel macrocosmo corrisponde alla stessa materia «In-formata» dal Logos creatore, ossia ordinata dal Dio trascendente.

L’argomento di verità dell’olismo post-moderno sta tutto nel recuperare e ridare dignità scientifica al concetto, proprio della metafisica classica, di «causa finale». La scienza olista post-moderna ha riscoperto quel che agli antichi era di per sé evidente: ossia che nel cosmo opera una causa finale, una teleologia, una tensione verso uno scopo. I biologi olisti, ad esempio, sostengono, giustamente, che le alghe blu esistono prima di ogni vita animale «in vista» degli esseri viventi più evoluti che devono venire dopo e che avranno bisogno di ossigeno atmosferico per respirare ma che esistono già all’interno del tutto cosmico. Così pure i microorganismi, che mantengono la giusta percentuale di azoto nell’aria, hanno una loro finalità in vista degli esseri viventi che devono venire dopo (56).

Argomento sensato e cristianamente condivisibile se non fosse per quell’inferenza panteistica che fa dire ai biologi olisti che gli esseri viventi, dunque anche l’uomo, che vengono dopo alghe e microrganismi sarebbero già esistenti all’interno del tutto cosmico. In verità, essi esistono non all’interno del cosmo e lo stesso cosmo non esiste da sé. Essi, e il cosmo, esistono, benché altri da Lui, nell’Adam Kadmon della cabala pura, nel Verbo/Logos trascendente che era in Principio e per mezzo ed in vista del quale tutto fu fatto di quel che esiste.

La biologia olista però pur recuperando la metafisica classica fa un passo indietro verso la percezione pre-cristiana, pagana, del mondo. Ossia, in altri termini, recupera e legge Aristotile senza più la mediazione dell’Aquinate. Riscoprire che nel sistema naturale, globalmente inteso, oltre a cause efficienti, quelle che spingono «da dietro» e le uniche ammesse dalla scienza galileiana, dal meccanicismo moderno, esiste anche una «causa finale» che trascina «da davanti», verso uno scopo, significa tornare ad Aristotile per il quale, come per la fisica post-moderna, la finalità è inerente all’essere naturale stesso, indissolubilmente associata, immanente, ad esso. Sicché con il matematico Fantappié si può dire, come diceva appunto lo Stagirita, che le leggi del divenire sono in realtà una architettura e che la finalità stessa è un’architettura dell’essere.

Ma Aristotile era un pagano e non poteva affatto non concepire il mondo come eterno e senza fine. La Rivelazione cristiana, e la cosmologia post-moderna, invece ci assicurano che il mondo ha avuto un inizio ed avrà una fine. E questo rimanda, di necessità, ad una infinita Intelligenza creatrice ed ordinatrice, ad un Dio personale e trascendente, che ordina il sistema che pur contiene in Sé come altro da Sé.

Ora, è proprio questo, l’azione di una Infinita Trascendenza Personale, che certi biologi e certi scienziati olisti non ammettono perché muovono dal pregiudizio «panteista», più o meno confessato, e preferiscono guardare al cosmo come ad un sistema che si auto-genera ed auto-regola. Cadendo però nell’insuperabile aporia di un sistema che privo di intelligenza, ossia inconscio perché impersonale, sarebbe poi capace di darsi da sé esistenza, ordine, fine e scopo!

Si diceva, poc’anzi, che gli olisti panteisti muovono dal rifiuto del dualismo cognitivo cartesiano che essi imputano alla Tradizione filosofica realista cristiana. Che così diventa la responsabile della dissoluzione meccanicista dell’antico olismo pagano, riscoperto dalla scienza post-moderna. Per essi, che magari si definirebbero «spinoziani» senza cogliere le connessione tra Spinoza e Cartesio, quest’ultimo è un succedaneo, razionalista, di San Tommaso d’Aquino.

Ed è questo l’equivoco, l’errore filosofico che li porta a non comprendere che l’olismo non può darsi senza apertura alla Trascendenza e senza realismo cognitivo, ossia senza affermare la distinzione, sul piano immanente dell’orizzontalità, tra il soggetto conoscente e la realtà oggettiva conosciuta. Distinzione che è il riflesso dell’altra e ben più cogente distinzione, sul piano trascendente della verticalità, tra Dio e mondo.

Se i miti razionalisti dello scientismo moderno sono andati irrimediabilmente in frantumi, travolti, dalle acquisizioni della scienza post-moderna finalmente liberatasi del vecchio determinismo di stampo positivista, tuttavia bisogna stare molto attenti a che l’ambiguità con la quale il nuovo paradigma scientifico olista ci viene oggi presentato non ci riconsegni in sostanza ad un nuovo determinismo post-razionalista che si presenta, appunto, nella forma di un panteismo globale e globalizzante.

Se l’olismo non si ripensa in termini veramente tradizionali, ossia aperti al Dio Personale Trascendente, rigettando la sua attuale impostazione «new age», esso rischia di essere ben più determinista ed immanentista del vecchio scientismo ottocentesco.

Infatti, un olismo chiuso alla Trascendenza, come essa si presenta nella Rivelazione cristiana, porta a perfetto compimento, in barba al suo presunto «anticartesianesimo», proprio il «cogito cartesiano», ossia la risoluzione della realtà nel pensiero soggettivo ovvero, in altri termini, la riduzione idealistica della realtà all’idea, alla percezione, soggettiva della realtà. L’essenza soggettivista e prometeica dell’ateismo moderno è, nell’olismo «pagano», del tutto confermata benché in una «forma mistica» che lo avvicina incredibilmente al buddismo. Viene, in altri termini, inverato il solipsismo dell’«io» che finisce per ritenersi, come si è visto, nella sua incomunicabile e disperata solitudine priva di Amore trascendente, il datore di senso o addirittura il creatore del mondo.

L’olismo post-moderno crede di aver pronunciato la definitiva sentenza di condanna a morte del realismo sul quale si sono basate per secoli, sin dai Padri della Chiesa e dai Dottori medioevali, la filosofia e la teologia cristiane.

Con quali conseguenze è, però, presto detto (conseguenze ampiamente anticipate a suo tempo da Lutero, che non a caso ha tratto la sua teologia da fonti gnostiche come lo pseudo Ermete Trimegisto): se tutto è nient’altro che rappresentazione fugace ed illusoria dell’«io» soggettivo, se non esiste realtà oggettiva esterna al nostro «io», se la realtà oggettiva altro non è che illusione (la «maya» degli induisti), vuol dire che Dio stesso altro non è che una mia idea e che Egli può esistere solo nella misura in cui io credo che esista. In altri termini Dio viene a dipendere dall’uomo, dalla fede soggettiva. Si tratta del fideismo che ammorba il protestantesimo sin dal suo atto di nascita, quello che faceva affermare a Lutero, nel suo «Grande Catechismo», che è la fede soggettiva a produrre tanto Dio che l’idolo, e che gli fece ritenere la Presenza reale di Cristo nell’Eucarestia non oggettiva ma vera soltanto nella misura in cui il singolo fedele la ritenga tale. E’ muovendo da questo soggettivismo che, successivamente, Feuerbach ha potuto affermare che è l’uomo a creare Dio e non viceversa.

Ora se, come pretende il paradigma olista di tipo panteista, Dio è solo una emanazione dell’«io» e se il mondo è soltanto una apparenza sensoriale dell’«io», ed entrambi - Dio e mondo - sono completamente irraggiungibili nella loro oggettività, diventando, anzi, quest’ultima sempre più improbabile, è evidente che ben può affermarsi che l’«io» è Dio: in altri termini che «io» sono Dio. E qui siamo, di nuovo, all’essenza del peccato originale come rivelato nel Genesi: «Sarete come Dio» (Genesi 3,5). Ossia alla pretesa della creatura di auto-deificarsi, di ritenersi autonoma, auto-generata, auto-regolata.

Il fisico Fritjof Capra, nel suo «Il Tao della fisica», ha parlato, non a caso, con riferimento a questo olismo panteista ed immanentista avanzato dalla scienza post-moderna, di «gnosi di Princeton»: Princeton è la nota università americana nella quale la «nuova fisica» è stata tenuta a battesimo. Lo stesso Capra spiega come per la «nuova fisica olista» mente e materia non sono categorie radicalmente diverse ma «aspetti differenti del medesimo processo universale», della medesima totalità fatta di relazioni e corrispondenze dinamiche e coordinate. In tal senso, Capra sostiene che una parte le creature, in un grado diverso dalle inanimate alle più complesse, non sono altro che una parte della «mente cosmica».

Come si vede, la prospettiva della «nuova fisica» è chiaramente «buddista», con forti accentuazioni panteiste sul tipo, pre-cristiano, della pagana «anima mundi». In effetti il paradigma olista, come assunto attualmente, dalla scienza post-moderna, ossia in termini «neo-aristotelici», ci si presenta caratterizzato da una forte assonanza mistica con il «nirvana» del Buddismo.

Ora, però, come è noto, la dottrina di Gautama Siddarta, non cogliendo la Personalità Infinita e trascendente del Dio cristiano, che pur partecipando di Sé le creature e pur contenendole tutte in Sé non si identifica con esse e resta Altro da esse, si svela come religione «atea». Nel Buddismo il massimo della mistica coincide con il massimo dell’a-teismo.

Tale dottrina, infatti, come del resto tutto il pensiero metafisico-religioso orientale, è nient’altro che una raffinatissisma gnosi. Una gnosi che svaluta la consistenza del creato (esso sarebbe pura illusione dalla quale, mediante il «risveglio» o l’«illuminazione», bisogna liberarsi, come bisogna pertanto liberarsi anche del corpo che fa parte della «maya», del «samsara», sicché non si dà qui alcuna salvezza integrale spirito-anima corpo dell’uomo) e, quindi, svaluta anche la consistenza delle creature, massimamente dell’uomo (nelle analoghe gnosi occidentali, si pensi al catarismo medioevale, questa svalutazione assunse, a suo tempo, la forma di un vero e proprio «odio della carne», che nelle eresie cristologiche diede vita ai vari monofisismi).

Dietro la gnosi orientale, come dietro ogni forma di gnosi spuria, vi sono la negazione nichilista dell’essere e l’indifferenza verso la sofferenza umana (chi soffre, soffre per causa del proprio dharma, del proprio destino «karmico» o «samsarico» che lo determina a «reincarnarsi» - la metempsicosi però non è intesa, dalle dottrine orientali, come riferita al «Sé», alla «mente cosmica» di cui parla Capra, ma agli elementi psichici dell’«io» particolare dissolti nel post-mortem: qui, nel determinismo della metempisicosi, si ha la riprova che, nell’olismo a-cristiano, il determinismo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra).

Quale distanza dal Dio cristiano che, per Amore, crea, si incarna, muore e risorge per aprire alla creatura la via dell’Amore Trascendente?!

L’elemento positivo che la scienza post-moderna può apportare al pensiero tradizionale cristiano è quello della rottura della corazza, determinista e materialista, che fu propria dell’immanentismo razionalista di stampo positivista. Ma a questo punto, proprio in base al fatto che la scienza post-moderna, avendo giustamente rinunciato alle pretese di infallibilità dello scientismo ottocentesco, si dichiara del tutto incapace di spiegare definitivamente il mondo, il quale perciò resta in ultima analisi un «mistero», bisogna decidersi: dopo la rottura della prigione determinista, verso quale direzione ci vogliamo giocare la ritrovata libertà? Verso l’Alto, verso il Dio cristiano che è Amore Trascendente, che è l’Essere infinito e personale, auto-sussistente, che crea comunicando per partecipazione l’essere alle creature, senza restarne diminuito, oppure verso il basso, ossia verso la nuova prigione del perfetto immanentismo dell’indeterminazione olistica che pretende di superare il dualismo soggetto/oggetto nel Tutto impersonale?

Un «Tutto» di cui l’«io» sarebbe soltanto una modalità particolare senza libertà e senza possibilità di salvezza a meno che non riesca, «esotericamente», a riappropriarsi della impersonale potenza auto-divinificatoria, dalla quale ogni essere particolare sarebbe emanato ed inconsciamente «agito». Riappropriazione che avverrebbe mediante l’immedesimazione non duale dell’ «io» con la realtà, intesa al modo di una illusoria manifestazione caduca di quel Tutto olistico e di una mera proiezione immaginativa dell’«io» medesimo.

Una prospettiva, come si vede, del tutto differente da quella della Patristica e della Scolastica che, al contrario, sul problema gnoseologico hanno una posizione di realismo (moderato). Secondo la Rivelazione cristiana, infatti, la realtà è creata da Dio ed in essa l’uomo è posto, come anche le altre creature, in dipendenza dall’Amore di Dio. Ciò significa che nell’atto conoscitivo il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto sono entità distinte che non si confondono proprio perché ambedue dipendono da un Altro, dal Creatore. Solo in questa dipendenza verticale è poi possibile fondare la reciproca relazionalità orizzontale che, essendo tale ossia relazionalità, suppone sempre l’alterità tra me e l’altro da me. In altri termini, è così fondata ogni socialità che per essere vera non deriva mai dal contratto, ossia dallo scambio utilitario, ma sempre e solo dal riconoscersi tutti dipendenti dal Suo Amore Trascendente ed Infinito.

Come è noto, Albert Einstein, ebreo non religioso, da giovane propugnava una sorta di spinozismo panteistico. Successivamente, un po’ alla volta, finì per convincersi, proprio mentre studiava il mondo fisico, della Trascendenza dell’Intelligenza che traspariva dall’armonioso ordine che la scienza andava scoprendo sia nel macro che nel microcosmo. Egli era solito affermare che nelle leggi della natura: «si rivela una ragione così superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è al confronto un riflesso assolutamente insignificante» (57).

Antony Flew, lo scienziato dal quale siamo partiti, che era un tempo paladino dell’ateismo e che ora ha scoperto, mediante la scienza, quel Dio che prima negava, ha dimostrato, nel suo libro, che Einstein abbandonò progressivamente il suo giovanile panteismo spinoziano per riavvicinarsi alla prospettiva ebraica tradizionale del Dio trascendente. Flew riporta, come prova, questa affermazione di Einstein: «Io non sono ateo e non penso di potermi definire panteista. Noi siamo nella situazione di un bambino che è entrato in una immensa biblioteca piena di libri scritti in molte lingue. Ma non sa come. E non conosce le lingue in cui sono stati scritti quei libri. Il bambino oscuramente sospetta che vi sia un misterioso ordine nella disposizione dei volumi, ma non sa quale sia. Questa mi sembra sia la situazione dell’essere umano, anche il più intelligente, di fronte a Dio. Noi vediamo l’universo meravigliosamente disposto e regolato da certe leggi, ma solo con incertezza noi comprendiamo queste leggi. La nostra mente limitata comprende la misteriosa forza che muove le costellazioni (…). Chiunque sia seriamente impegnato nel lavoro scientifico si convince che le leggi della natura manifestano l’esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell’uomo, e di fronte al quale, con le nostre modeste facoltà, dobbiamo essere umili (…). Io non sono un positivista. Il positivismo stabilisce che quanto non può essere osservato non esiste. Questa concezione è scientificamente insostenibile, perché è impossibile fare affermazioni valide su ciò che uno «può» o «non può» osservare. Uno dovrebbe dire: «Solo ciò che noi osserviamo esiste». Il che è ovviamente falso (…). La mia religiosità consiste nell’umile ammirazione dello spirito infinitamente superiore che rivela se stesso nei minimi dettagli che noi siamo in grado di comprendere con la nostra fragile e debole intelligenza. La convinzione profondamente appassionante della presenza di un superiore potere razionale, che si rivela nell’incomprensibile universo, fonda la mia idea di Dio» (58).

Queste convinzioni, che il padre della teoria della relatività ha maturato durante la sua ricerca scientifica, sono le migliori attestazioni contro certe deduzioni, sopra viste, di tipo panteistico, che fanno del cosmo «una mappa quadridimensionale statica» ossia chiusa immanentisticamente su se stessa, che gli olisti «panteisti» pretendono di trarre dalla teoria di Einstein.

L’intero cosmo è, invece, un atto di Amore divino per noi poveri uomini, incapaci nella nostra creaturalità e debolezza di corrispondere a tanto Amore Infinito. Ma proprio per questo infinitamente amati.

Questa verità fa parte da sempre del patrimonio di fede cristiano.

Nei «Racconti di un pellegrino russo», opera di spiritualità mistica che insegna la cosiddetta «preghiera del cuore», è scritto, con profonda assonanza francescana: «Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce, tutto sembra dirmi che ogni cosa esiste per l’uomo, testimonia l’amore di Dio per lui, e tutte le cose pregavano e cantavano Dio e la sua gloria. Così compresi quello che la filocalia chiama ‘la conoscenza del linguaggio di tutte le creature’».

San Giovanni della Croce ha scritto: «Tutte le creature... formano per l’anima un concerto armonioso, che supera ogni melodia della terra» (59).

L’astrofisico Trinh Xuan Thaun sembra concordare con questi antichi mistici ed afferma: «La melodia che forma le note della musica che ci invia la natura resterà segreta per sempre» (60).

Alla Sorbona, qualche anno fa, si è tenuto un «Colloquio internazionale delle scienze per il domani». Erano presenti i maggiori scienziati del mondo, tra cui proprio Trinh Xuan Thaun, che pure è, secondo quanto abbiamo fin qui detto, un «olista». Ne è venuto fuori un volume «L’uomo di fronte alla scienza, una posta in gioco per il pianeta» (Criterium, Paris, 1992). Il prefatore di tale volume, René Lenoir, un altro grande scienziato, così ha chiuso il suo intervento: «Siamo ormai consapevoli che è l’universo nel suo complesso a spiegare la parte, e non viceversa. Sappiamo che, in questo insieme in movimento, coesistono determinazioni, costanti e margini di gioco. Questo gioco dell’universo è superbamente cantato nel capitolo 8 del libro biblico dei Proverbi. Non c’è bisogno di essere credenti per apprezzare la bellezza di questo testo. Ascoltate, è la Sapienza che parla: ‘Il Signore mi ha creata all’inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d’allora. Dall’eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata. Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando Egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso; quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso; quando stabiliva al mare i suoi limiti, sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia; quando disponeva le fondamenta della terra, allora io ero con Lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi rallegravo davanti a Lui in ogni istante, dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo’ (Proverbi 8, 22-31)».

Anche Sermonti concorderebbe con la prospettiva suggerita da René Lenoir, dal momento che chiude la sua opera (pagina 147), da noi ampiamente commentata, citando René Thom, il quale affermava «Ogni forma propria - archetipo - aspira all’esistenza e attrae il fronte d’onda degli esseri», per sostituire all’espressione «forma propria» quella biblica di «ogni prodotto della Sapienza» e, così, attestare che l’idea di una regola, o una logica, non derivante dalle cose, ma da cui le cose derivano, si ritrova nel Libro dei Proverbi dell’Antico Testamento, quando a parlare, nel modo sopra visto, è la Sapienza.

La Sapienza, nell’esegesi cristiana dell’Antico Testamento, è il Logos, il Verbo, giovanneo, per mezzo del quale ed in vista del quale tutte le cose sono state create. La Sapienza è l’Archetipo, l’Adam Kadmon del cabalismo puro, la Seconda Persona della Santissima Trinità del dogma cristiano.
La Sede della Sapienza, secondo le litanie lauretane del santo rosario, è la Santissima Vergine Maria perché Essa, la Sapienza, altri non è che Nostro Signore Gesù Cristo, Dio-Uomo, Centro e Vertice sul quale l’intero creato è stato modellato e mediante il quale, alla fine dei secoli, sarà gloriosamente trasfigurato.

Se saprà abbandonare l’ambiguo panteismo sotteso a certo tipo di olismo, reinterpretando il paradigma olista in senso trascendente, la scienza post-moderna potrà riaprire alla disorientata umanità di oggi le vie luminose della Sapienza biblica e, meglio del vecchio e fallimentare scientismo, riuscirà a spiegare, per quanto possibile alla ragione umana, la meraviglia dell’essere (61).

Luigi Copertino

(fine)

• La creazione tra Fede e scienza (parte I)
• La creazione tra Fede e scienza (parte II)
• La creazione tra Fede e scienza (parte III)
• La creazione tra Fede e scienza (parte IV)
• La creazione tra Fede e scienza (parte V)



54) Questa critica è portata avanti, ad esempio, con dovizia di argomenti, da Roberto Fondi, paleontologo anti-darwiniano, nel suo «Organicismo ed evoluzionismo», Settimo Sigillo, Roma, 1984.
55) Giuseppe Arcidiacono, fisico: «Questa idea (del flusso del tempo, nda) così semplice e naturale si è rivelata inesatta. Il tempo è intimamente connesso allo spazio, si comporta come una quarta dimensione della spazio». Louis de Broglie, premio Nobel: «Nello spazio-tempo, tutto ciò che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente, il futuro è dato in blocco. Ciascun osservatore, col passare del suo tempo, scopre per così dire nuove porzioni dello spazio-tempo, che gli appaiono come aspetti successivi del mondo materiale; ma in realtà l’insieme degli eventi che descrivono lo spazio-tempo esiste già prima di essere conosciuto». Traiamo queste citazioni da M. Blondet «L’errore scientifico che ci rovina tutti» in www.effedieffe.com dell’8 luglio 2006. Bisogna però stare molto attenti, cristianamente, al «peso» di affermazioni come queste. Infatti, affermando che «l’insieme degli eventi dello spazio-tempo esiste già prima di essere conosciuto» è cristianamente possibile solo se si riferisce tale affermazione all’Onniscienza ed Onniveggenza del Dio trascendente. Perché altrimenti se, come sembrano fare gli olisti, la si riferisce alla sfera immanente del cosmo si arriva da un lato a fare del mondo un «dio», ed in quanto «dio impersonale» si cade in un’aporia senza uscita, a dall’altro lato a privare l’uomo del suo libero arbitrio e quindi a deresponsabilizzarlo dei meriti o demeriti delle sue azioni. Come si diceva: in tal senso il determinismo, benché in forma non più meccanicista, rientra dalla finestra in quanto sia il razionalismo scientista di un tempo sia un certo olismo a-trascendente di oggi patiscono di una evidente inferenza panteista.
56) Scrive in proposito Blondet, nell’articolo citato nella nota precedente: «Con questa ipotesi, si ha già una risposta a una delle domande a cui gli evoluzionisti non sanno rispondere: perché le alghe blu e i microrganismi primitivi non si sono ‘evoluti’? Come mai certi vegetali restano ‘primitivi’ da miliardi di anni, come le felci e il ginko biloba? Perché sono necessari al sistema e ai viventi più evoluti nel sistema. Perché senza questi primitivi, non sarebbe possibile costruire il grado di organizzazione più alto. Così l’uomo non vivrebbe se nel suo intestino non ci fossero i batteri che aiutano la sua digestione; questi esserini primitivi, che possono vivere indipendenti, cooperano armonicamente a rendere possibile un ordine di esistenza organica superiore. Il sistema naturae ha bisogno di tutti gli esseri, di qualunque grado di ‘evoluzione’ siano, come l’uomo della sua flora intestinale. Lo intuì un ecologo agrario italiano, Girolamo Azzi: ‘Tutti gli animali della Terra, quelli che sono e quelli che saranno, sono fra loro interdipendenti e collegati in un complesso ordinato e armonico’ ». Perfetto: ma il punto sta tutto nella questione «teologica» del fondamento trascendente o immanente, panteista, di tale ordine armonico. In questo sta la distanza tra la gnosi spuria, anche nelle sue inferenze oliste post-moderne, e la «gnosi pura» ossia la Rivelazione cristiana.
57) Citato da A. Socci, «Indagine su Gesù», opera citata pagina 19.
58) Confronta A. Flew «There is a God», citato da A. Socci, «Indagine su Gesù», opera citata, pagine 19-20.
59) Confronta San Giovanni della Croce, «Cantico spirituale», Paoline, Milano, 1991.
60) Confronta Trinh Xuan Thaun, «La mélodie secrète», Paris, 1988.
61) Vogliamo, in chiusura segnalare, il recente libro del teologo e filosofo della scienza Roberto Timossi, «L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio» (San Paolo, pagine 574). E’ una esauriente risposta all’ultima ondata pamphlettistica anti-cristiana degli scientisti, vecchi e nuovi. Timossi è stato definito, per questo, l’«antiOdifreddi». Infatti passando in rassegna le tesi dei vari Daniel Dennett, Richard Dawkins, Telmo Pievani, Odifreddi, Danilo Mainardi, il Timossi ne confuta facilmente i presupposti dimostrando come essi lunghi dall’essere scientificamente fondati sono solo l’espressione di un atteggiamento anti-religioso di principio, che svela profonde ed inquietanti inferenze extrascientifiche. Ricordando che in base all’epistemologia contemporanea la scienza si è riconosciuta fallibile e limitata, Timossi invita a diffidare di tutti coloro, come i vari Odifreddi, che in ambito scientifico pretendono di arrivare a conclusioni apodittiche su questioni su cui la scienza empirica per definizione non può esprimersi, come quelle metafisiche o spirituali. Anche perché, fa notare Timossi, la stessa la scienza ha bisogno, spingendosi in ipotesi non verificabili direttamente, di «atti di fede». Come lo sono tutte quelle ipotesi da cui grandi scienziati partono e in cui credono senza avere ancora osservazioni, documentazioni, dati empirici certi per poter dire che è così. Timossi ci ricorda che il rapporto tra scienza e fede è regolato sempre dalla famosa diade del matematico e filosofo Gottlob Frege: senso e significato. La scienza ci mostra come non sia il caos a prevalere, come esistano delle leggi, un’intelaiatura del reale. Questo è quello che potremmo chiamare il «senso». Il problema su cui devono lavorare invece filosofia e teologia, partendo da quanto è mostrato dalla scienza, è quello del «significato». Ecco perché, secondo Timossi, gli esempi di scienziati credenti sono tanti, da Galileo a Lemaître o Mendel. Il fisico tedesco Max Planck, ad esempio, aveva una propensione filosofica spontanea, nutrita poi con delle letture specifiche. Aveva una grande apertura al mistero sottostante al reale: la scoperta che l’ha reso famoso, quella dei quanti, è avvenuta in fondo contro quello che lui stesso si riproponeva.
Aveva una coscienza chiara del fatto che la scienza non andava contro il bisogno religioso, anzi lo sviluppava, e che il credere in Dio agevolava il lavoro dello scienziato: la sua capacità di meravigliarsi, la sua voglia di fare e scoprire. Invece, come proprio Timossi dimostra, la produzione scientifica con pretese ateistiche risente spesso di un taglio provinciale, scadendo nella polemica
anti-cattolica e anti-ecclesiale e finendo per allontanarsi da quello che dovrebbe essere su questi temi un dialogo alto. Timossi ha citato in una intervista, come esempio di questo «provincialismo culturale» dello scientismo ateo, l’ultimo numero di Micro Mega, la rivista del «giacobino» Paolo Flores D’Arcais, ex sessantottino filosoficamente fallito, nel quale è contenuto un intervento di Telmo Pievani e Orlando Franceschelli contro il cosiddetto «darwinismo ecclesiastico». Si tratta di una polemica su un intervento di monsignor Fiorenzo Facchini e sulla sua prefazione a un recente libro di Francisco Ayala. Una polemica politica più che scientifica, che alla fine ha poco o nulla che fare con il vero dibattito sul rapporto tra scienza e fede. Pievani del resto se l’era già presa con
monsignor Ravasi e altri, in occasione del convegno su Darwin organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura, nel marzo 2009. Ora, da parte nostra, vogliamo solo osservare che questi monsignori, da Ravasi a Facchini, meritano di prendere tali «pesci in faccia», visto che si ostinano a caldeggiare una qualche forma di «darwinismo», pur teologicamente compatibile, quando invece il darwinismo è teoria ormai ampiamente naufragata sullo stesso piano scientifico, e loro lo sanno molto bene. Del resto quella di essere presi a calci nel sedere è diventato ormai lo sport masochisticamente praticato da certa parte della gerarchia cattolica. Il tempo passa, ma Darwin resta l’appiglio preferito per lo scientismo ateo: solo questa è la ragion pratica della sua «sopravvivenza» ma certi monsignori sembrano proprio non volerlo capire.



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