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Papa Giovanni antisemita?
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Questa faccenda delle visite in sinagoga è di una noia insopportabile. Una volta erano gli ebrei a partecipare più o meno, anzi meno, spontaneamente ai festeggiamenti per l’elezione del Pontefice, addobbando le strade e le piazze della Città Eterna fino all’arco di Tito che rappresenta la presa di Gerusalemme e la distruzione del Beit HaMikdash. Adesso accade il contrario.

Da quella sciagurata prima visita di Giovanni Paolo II, passare il Tevere per andare in sinagoga (o in varie sinagoghe) è diventata una specie di percorso obbligato per ogni Pontefice: non farlo sarà considerato un atto palese di antisemitismo ed un delitto contro l’umanità.

Non che io ne sia scandalizzato: anche Gesù frequentava talora personaggi non rispettabilissimi. Resta il fatto che Lui non la mandava a dire a nessuno. Insomma, non so se abbia avuto ragione don Floriano Abrahamowitz a celebrare una Messa riparatrice. Di certo, comunque, chi abbia un minimo di uso della ragione non può che domandarsi: ma cosa ci andiamo a fare in sinagoga?

Secondo lo spirito roncalliano e la Dichiarazione Nostra Aetate che - anche questa volta è stato ribadito - «ha dato un decisivo impulso all’impegno di percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia, cammino che si è approfondito e sviluppato in questi quarant’anni con passi e gesti importanti e significativi», in sinagoga si è deciso di andare per incontrarsi non su ciò che divide, ma su ciò che unisce. Quindi su nulla.

Con buona pace del professor Ratzinger, infatti, il Decalogo (anzi le «Dieci Parole», come si dirà d’ora innanzi per compiacere ulteriormente i fratelli maggiori, che non vogliono neppure essere chiamati così), che proviene dalla Torah di Mosè, non basta e ognuno lo interpreta come vuole. E Gesù non aveva al riguardo lo stesso punto di vista dei Farisei e dei Sadducei: la fine che Gli fecero fare è lì a dimostrarlo.

E’ vero che cristiani ed ebrei hanno una grande parte di patrimonio spirituale in comune ed hanno le stesse radici, tuttavia non so - come invece ha affermato il Papa lo scorso 17 gennaio in sinagoga - se pregano lo stesso Signore.

Il problema con gli ebrei è lo stesso da sempre ed è una persona, uno di loro secondo la carne: Gesù di Nazareth. Quando ci incontriamo con loro si parla, anzi, magari, si riparla di Cristo e della Sua identità? Nemmeno per sogno! Di Cristo gli ebrei non vogliono sentirne parlare e, quindi, non dico ogni tentativo di conversione, ma perfino qualsiasi azione di annuncio verrebbe interpretato come una reviviscenza del «confortorio», cioè quella pressione incessante alla conversione operata nei loro confronti lungo i secoli passati soprattutto dagli ordini mendicanti (domenicani, francescani).

Oggi - come si sa - la Missio ad Haebraeos è in naftalina: Perbacco, quel gran genio del cardinale Bagnasco lo ha ribadito  senza tentennamenti: «La Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei».

Ne risponderà lui. La Chiesa neoterica ne sa più del suo Fondatore, che lasciò ai Suoi la missione di andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo ad ogni creatura: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato».  Nonostante il testo affermi senza mezzi termini che non si fanno eccezioni per le creature ebraiche, i vescovi sul tema per lo più se la fanno sotto e glissano.

La parola magica e vuota, anzi magicamente vuota è dialogo. Già la parola dialogo interreligioso è concetto arduo, ma la parola dialogo ebraico-cristiano è totalmente incomprensibile. E questo è talmente vero che abbiamo sviluppato a tal punto il dialogo ebraico-cristiano da diventare muti… su Cristo.

Se si parla di Dio, facendo finta di parlare delle stesso Dio (ma così non è perché per noi l’incarnazione di Dio e Cristo, che per loro è un mamser, cioè un bastardo), alla fine non si parla di nulla e il mitico dialogo ebraico-cristiano si palesa per ciò che è: un monologo ebraico in cui i giudei si erigono a giudici della Storia.

E il criterio unico di valutazione della storia è l’unica cosa che agli ebrei interessa, cioè la shoah. La religione dell’olocausto diviene infatti per loro il compimento della profezia del servo sofferente di Jahwè, che essi attribuiscono al popolo d’Israele, mentre per gli altri popoli essa sarebbe il compimento dei sette precetti noachidi, il culto cui i gojm sono ammessi nel «tempo a venire», partecipazione del culto vero che spetta a Israele e che sarà ripristinato a Gerusalemme.
Ecco ciò che secondo loro ci deve unire, eccolo il comune denominatore su cui i Gentili non possono non essere d’accordo, altrimenti sia abominio!

Stando così le cose, la vittima olocaustica diviene essa stessa redentrice e giudice, col risultato che è sotto gli occhi di tutti e cioè che si va in sinagoga per sentirsi dire che la Chiesa ha oppresso gli ebrei per secoli, che il cattolicesimo è stato alla base del moderno antisemitismo, che le radici di Auschwitz sono a Roma, che Pio XII fu il Papa di Hitler, che loro vogliono venire a rovistare negli archivi vaticani.

Riccardo Pacifici, che ha parlato degli ebrei non come figli di Abramo, ma come «figli della Shoah della seconda e terza generazione». Attenzione: davanti al Papa non ha detto figli di Abramo, badate bene, ha detto noi siano i figli della Shoah! Questo ha fatto il rabbino capo Riccardo Di Segni, che ha affondato la lama su Pio XII, «il cui silenzio, di fronte alla Shoah, - ha ribadito - duole ancora come un atto mancato».

Di Abramo, Isacco e Giacobbe Di Segni ne ha parlato solo per ricordare la promessa fatta ripetutamente dal Signore ai patriarchi, promessa che riguarda Eretz Israel, la terra d’Israele, anzi eretz haQodesh, la Terra di Colui che è santo, al fine di rivendicarne la sovranità.

Ed anche il riferimento a coloro che si riconoscono nell’eredità spirituale di Abramo è fatta per annunciare per la pace universale annunciata da Isaia (66:12) per Gerusalemme, kenahar shalom ukhnachal shotef kevod goim, «la pace come un fiume e la gloria dei popoli come un torrente in piena». Per Gerusalemme, non per il mondo intero! Non è un’immagine escatologica, è il trionfo mondano di Israele.

Contrariamente a quella proposta dal rabbino Di Segni, la traduzione usuale rende assai meglio il tipo di «cooperazione» che l’eredità spirituale di Israele dovrebbe fornire: «Ecco, io dirigerò la pace verso di lei come un fiume, e la ricchezza delle nazioni come un torrente che straripa, e voi sarete allattati, sarete portati in braccio, carezzati sulle ginocchia».

E’ il tempo messianico del dominio di Israele sulle Genti. La Shoah è divenuta l’occasione per realizzare ciò e la chiave ermeneutica della stessa fede di Israele, come per noi lo è il Cristo.

La risposta cattolica, muta sull’identità dell’Agnello di Dio (Gesù in Croce o i giudei nella Shoah?), con quel riferimento al fatto che «molti, anche fra i cattolici italiani, sostenuti dalla fede e
dall’ insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne» è apparsa di una pochezza sconfortante, allo stesso modo di quei sorrisetti imbarazzati, di quegli inchini obliqui, di quegli applausi pavidi, interrotti per fortuna dallo scambio finale di doni e da un rigido e frettoloso protocollo.

Invece, senza voler insegnare al Papa come fare il Papa, mi pare che oggi più che mai occorra insistere sul tema di Cristo e della necessità della conversione a Lui come unico Salvatore del Mondo. Ciò soprattutto oggi che una certa idea cattolica tradizionale, secondo cui Israele non avrebbe mai ricostituito il regno di Giuda, perché in ciò avrebbe trovato l’opposizione di Dio stesso, è stata smentita dai fatti ed era in realtà già preannunciata nei Vangeli: «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti».

La grande apostasia che ha colpito le Genti è lì a rammentarci che il nostro peccato ha permesso ai giudei di ritornare in Israele e che i nostri tempi sono finiti. Dunque quanto aveva profetizzato San Paolo è rivolto con la stessa urgenza a noi ed a loro:

«Se le primizie sono sante, lo sarà anche tutta la pasta; se è santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Dirai certamente: Ma i rami sono stati tagliati perché vi fossi innestato io! Bene; essi però sono stati tagliati a causa dell’infedeltà, mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia, ma temi! Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te! Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti; bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso. Quanto a loro, se non persevereranno nell’infedeltà, saranno anch’essi innestati; Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo! Se tu infatti sei stato reciso dall’oleastro che eri secondo la tua natura e contro natura sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!».

Ma questo passa necessariamente attraverso il riconoscimento di Cristo. E’ Cristo, solo Cristo, tanto per le Genti che hanno apostatato, quanto per i giudei che non l’hanno riconosciuto, l’unica Salvezza e l’unico Giudice.

Vi sono stati due errori simmetrici commessi all’interno della Chiesa nei confronti dei giudei: oggi spesso quello di rinnegare la teologia della sostituzione e di ipotizzare per gli ebrei una salvezza parallela al di fuori del Cristo, ieri quello che riteneva che Dio non avrebbe permesso che gli ebrei tornassero in Terra Santa.

Forse in pochi sanno che Giovanni XXIII, il Papa che aprì la strada alla Nostra Aetate, a quella sciagurata dichiarazione conciliare che aprì la strada della altrettanto sciagurata teologia delle salvezze parallele, condivideva anche l’idea che Dio non avrebbe permesso il ritorno degli ebrei in Palestina. Non solo - come si desume - fu un pessimo profeta circa i tempi che sarebbero seguiti al Concilio (rileggetevi la Gaudet Mater Ecclesiae); era già stato cattivo profeta sulla sorte di Israele. Tra il resto in quella circostanza palesò sentimenti che potrebbero oggi essere utilizzati da qualche gruppo ebraico per additarlo addirittura come antisemita. E’ lì che qualche giorno fa abbiamo reperito la notizia.

In qualità di delegato apostolico a Istanbul il 4 settembre 1943 Roncalli scriveva al cardinale Maglione [Rapporto numero 4.344 (A.E.S. 6077/43. orig.)], rispondendo ad una «demande d’une démarche en faveur des Juifs Italiens; doutes du Délégué sur l’utilité d’une immigration en Palesatine», le seguenti parole:

«Faccio seguito al mio devoto rapporto numero 4.332 in data 20 agosto u.s. trasmettendo altre domande che mi vengono sottoposte a favore di israeliti. La seconda di queste intende ad ottenere l’intervento della Santa Sede perché sia facilitata l’uscita di numerosi ebrei dal territorio italiano: e modifica le altre già fatte nelle mie note precedenti ai numeri 1, 3, 4, 5. Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando al farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito. Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico. Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia» (1).

Invece è andata diversamente. Il Regno di Giuda è risorto, come era scritto nei Vangeli. Nelle visioni della Beata Anna Caterina Emmerich (2), la stessa che aveva avuto modo di presagire la catastrofe conseguente alla riforma liturgica («La Messa era breve. Il Vangelo di San Giovanni non veniva letto alla fine») c’è invece una profezia molto consolante, per noi e soprattutto per i nostri «fratelli maggiori»: «Gli ebrei ritorneranno in Palestina e diverranno cristiani verso la fine del mondo».

L’invito alla conversione, come ci ammonisce San Paolo, non vale, ovviamente, solo per loro.

Domenico Savino



1)
/www.gherush92.com/news_it.asp?tipo=A
Fonte del documento: actes et documents du Saint siege relatifs a la Seconde Guerre Mondiale,
volume 9, numero 324.
2) Anna Caterina Emmerich confermerebbe anche la veridicità dell’omicidio rituale: «L’anima della vecchia ebrea Meyr mi disse sulla strada che era vero che in tempi passati gli ebrei, sia nel nostro Paese che altrove, avevano strangolato molti cristiani, principalmente bambini, e usato il loro sangue per ogni tipo di superstizione e di pratiche diaboliche. Un tempo lei aveva creduto che fosse legittimo; ma ora sapeva che era un assassinio abominevole. Loro ancora seguono queste pratiche in questo Paese e in altri più lontani; ma molto segretamente, perché loro sono obbligati ad avere rapporti commerciali con i cristiani …  (Carl E. Schmauger, ‘The Life and Revelations of Anne Catherine Emmerich’, Rockford, IL: Tan Books, 1976, I: 547-548).


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