05 Aprile 2010
Angelo Brofferio
|
Carlo Farini
|
Proclama del maggiore Fumel, febbaio 1862:
«... Coloro che diano asilo o qualsiasi altro mezzo di sussitenza ai briganti, o li vedano o sappiano dove han rovato rifugio e non informino le autorità civili e militari, saranno immediatamente fucilati. Tutti gli animali dovranno essere condotti nei depositi centrali con scorta adeguata.
Tutte le capanne (usate dai pastori, ndr) dovranno essere bruciate. Le torri e le case di campagna disabitate dovranno essere scoperchiate, e le entrate murate nel termine di tre giorni; dopo lo spirare di tale termine, esse saranno bruciate senza fallo e gli animali privi di custodia appropriata saranno uccisi.
E’ proibito portare pane o altro genere di provviste fuori dell’abitato del comune; i trasgressori saranno considerati complici dei briganti. La caccia viene temporaneamente proibita.
Il sottoscritto non intende riconoscere, date le circostanze, più di due schieramenti: pro o contro i briganti! Pertanto classificherà tra i primi gli indifferenti e contro di loro adotterà misure energiche, perchè in tempo di emergenza la neutralità è un crimine.
I soldati sbandati che non si presentassero entro quattro giorni, saranno considerati briganti».
Il colonnello Fantoni, nel proclama emesso da Lucera il 9 febbraio 1862, nel primo articolo, vietava l’accesso, anche a piedi, a tredici foreste, fra cui quella del Gargano.
«Ogni proprietario terriero, fattore o mezzadro sarà obbligato, subito dopo la pubblicazione di questo avviso, a ritirare da dette foreste tutti i lavoratori, pastori, pecorai, eccetera, e con loro le greggi; dette persone saranno obbligate a distruggere tutte le stalle e le capanne erette in questi luoghi.
D’ora in avanti nessuno può portar fuori dai distretti circonvicini alcuna provvista per i contadini, e a questi ultimi non sarà permesso portare più cibo di quanto sia necessario per un singolo giorno ad ogni persona della loro famiglia.
Coloro che non obbediranno a questo ordine, che entrerà in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza eccezione alcuna di tempo, di luogo e persona, fucilati».
Prefetto De Ferrari, di Foggia e Capitanata, 1863: «... Tutti gli animali del territorio saranno immediatamente radunati in poche località a fine di essere meglio custoditi. Tutte le piccole fattorie saranno abbandonate, cibo e foraggio rimossi e gli edifici murati. Nessuno potrà andare nei campi senza autorizzazione scritta del sindaco e scorta sufficiente».
L’8 luglio, il prefetto Ferrari aggiunge un altro divieto: «I cavalli possono essere ferrati solo in pubblico e in officine autorizzate; nessun maniscalco o produttore di ferri e chiodi poteva allontanarsi dal proprio distretto senza un documento, che indicasse la via che avrebbe percorso, l’ora della partenza e l’ora del ritorno. Chiunque possedesse ferri e chiodi per la ferratura doveva farne denuncia alle autorità».
Non erano vane minacce. Il 29 aprile 1862 il deputato Giuseppe Ferrari disse alla Camera: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle provincie, degli uomini assolti dai giudici, che restano in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato... Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Fu la rovina della sussistenza economica, la messa alla fame; decine i paesi incendiati, innumerevoli le atrocità, di cui per lo più è stata soppressa la memoria, che ricordano da vicino lo sterminio dei contadini in Ucraina, operato da Stalin e Kaganovich.
Di una atrocità si sa, perchè ne discusse la Camera dei Comuni britannica: a Pontelandolfo in Molise, trenta donne che si erano rifugiate intorno alla croce eretta nella piazza del mercato, sperando di trovarvi scampo dagli oltraggi, furono tutte uccise a colpi di baionetta. Persino Napoleone II, che aveva dato il suo potente appoggio armato a Cavour per la conquista dell’Italia, il 21 luglio 1863 scriveva al suo generale Fleury:
«Ho scritto a Torino le mie rimostranze; i dettagli di cui veniamo a conoscenza sono tali da alienare tutti gli onesti alla causa italiana. Non solo la miseria e l’anarchia sono al culmine, ma gli atti più indegni sono considerati normali espedienti: un generale di cui non ricordo il nome, avendo proibito ai contadini di portare scorte di cibo quando si recano al lavoro dei campi, ha decretato che siano fucilati tutti coloro che vengono trovati in possesso di un pezzo di pane. I Borboni non hanno mai fatto cose simili – Napoleone».
Dato che l’Italia è nata così, non ci si può stupire che oggi sia così. In fondo, può essere consolante: non siamo peggiorati, eravamo peggiori fin dall’inizio.
Da centocinquant’anni questo merdaio originale, anzichè essere discusso e servire a un severo esame di coscienza nazionale (4), viene nascosto, e verniciato in similoro con la ripugnante tronfia retorica risorgimentale emanata direttamente dalle logge; chi obietta e riporta i dati del merdaio viene seppellito dalle accuse di «integralismo cattolico», «revisionismo» vietato, reazione; e censurato dai media – come il volume della storica Angela Pellicciari da cui abbiamo tratto queste informazioni.
La retorica risorgimentale ci sommergerà con le sue mucillagini dolciastre e infette anche nelle imminenti Celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, per cui sta spendendo 800 milioni di euro il Comitato celebrativo: presieduto da un livornese come lo erano i banchieri Adami e Lemmi.
Giornalisti a ciò addetti, e ben istruiti, già si sono portati avanti. Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo già vagano nei luoghi santi della retorica massonica, Calatafimi, Teano, eccetera, per sgridare «noi italiani senza memoria». Noi abitanti di un Paese «che sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del ‘Risorgimento’. Il grande romanzo culturale, militare e sociale».
Si domanda Stella: «E’ questa l’‘Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione’ che immaginava Mazzini?».
Stella e Rizzo ci scriveranno un libro di successo assicurato: noi italiani senza memoria, appunto.
Senza memoria? L’avete voluto voi: rivendichiamo la memoria censurata. Lo facciamo proprio in quanto italiani: quella menzogna sanguinosa che cova nel cuore italiano è precisamente la frattura interna che rende l’Italia corrotta, moralmente malata, incapace di reggersi nel mondo con dignità, senza spezzarsi ai primi scontri con la storia.
Il tradimento originale è sempre pronto a riemergere in nuovi tradimenti, intelligenze col nemico, diserzioni sul campo e particolarismi delinquenziali – proprio perchè la ferita non è sanata, ma coperta con cataplasmi di menzogna e retorica, che la fanno marcire all’infinito.
Il 150enario da cui Ciampi guadagna e fa guadagnare i suoi compari, facciamolo diventare una rivendicazione di verità: verità sul Risorgimento! Perchè senza verità non ci sarà alcun risorgimento possibile. La verità sola, e intera, può essere l’inizio della riconciliazione.
Quindi, lancio un appello ai lettori. Andate sul sito ufficiale del Comitato Celebrativo di fratel Ciampi (http://www.italia150.it/); non perdete tempo a leggere le ridicole menzogne che già lo affollano («150 anni e non li dimostra», per esempio); andate in alto a destra, dove c’è la voce «contatti». E alluvionate quei «contatti» di mail, lettere e fax con un solo messaggio:
Verità sul Risorgimento!
Ricordate le Marzabotto del Sud, a cominciare dalle donne di Pontelandolfo! Non più silenzio sui lager piemontesi per i soldati delle Due Sicilie! Fatevi tornare la memoria!
Si potrebbe anche ricorrere al sarcasmo. Per esempio, fare una petizione per un monumento a Curletti, il capo della polizia politica di Cavour e insieme della banda della Cocca, grande suscitatore di spontanee manifestazioni popolari e prezioso completatore di votazioni.
Proponete l’iscrizione: «Filippo Curletti, patriota e poliziotto, pregiudicato contumace».
Oppure, fate una petizione popolare per intitolare una piazza ad Adami e Lemmi, «profittatori e cognati».
Ma forse è meglio di no, non hanno il senso dell’umorismo. Ciampi potrebbe anche farlo.
1) Nel Regno delle Due Sicilie la tassazione era la più lieve d’Europa (-30% di quella inglese, meno 20% di quella francese). La tassa ammontava, nel 1859, a 14 franchi a testa. Nel 1866, sotto il regime italiano, erano salite a 28 franchi a testa. Fu più che raddoppiata la tassa sul macinato (che colpiva i poveri) «ed estesa a tutte le granaglie, persino alle castagne»; fu estesa al resto dell’Italia la minuziosa tassazione savoiarda, come la tassa sulle finestre, «la gabella sulla macellazione del maiale» e «il dazio sul minimo consumo» (che colpiva chi comprava un litro di vino per volta, ma non chi ne comprava 25 litri). Non solo il Regno di Napoli fu il primo a mettere in esercizio la prima ferrovia in Italia, ma anche il primo telegrafo, il primo ponte sospeso, i primi fari diottrici moderni furono costruiti e installati nel regno dei Borboni, da una classe tecnica evidentemente competente e moderna. Il primo battello a vapore varato da un arsenale italiano fu costruito a Napoli. Il giornalista francese Charles Garnier fornì prove certe del fatto che, nei primi sei anni dell’unità italiana, alcune delle più prospere manifatture napoletane furono deliberatamente distrutte per favorire quelle del Nord (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana», Ares, 2000, pagina 374).
2) La confisca dei beni ecclesiastici provocò la sparizione di quel poco di previdenza e assistenza sociale vigente, che era tutta e solo caritativa e cattolica; ne risultò un tragico peggioramento della miseria delle classi povere, con un conseguente aumento esponenziale della criminalità.
3) A Venezia e a Roma avvennero episodi simili nel 1848. A Roma Pellegrino Rossi, ministro del Pontefice, fu circondato dalla folla e accoltellato alla gola sotto gli occhi della Guardia Civica rivoluzionaria, poi lasciato agonizzare nel palazzo stesso dov’era il parlamento rivoluzionario. A Venezia, istigata da Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, una folla feroce s’impossessò del comandante dell’Arsenale, colonnello Marinovich, «impopolare presso gli operai per la rigida disciplina a cui li sottoponeva». Gli operai afferrarono lo sventurato, lo trascinarono giù per le scale, lo percossero spietatamente, lo trafissero ripetutamente con la sua stessa spada e con coltelli. Il poveretto implorò un prete, ma gli venne negato; fu linciato e fatto a pezzi da centinaia di individui. Il governo repubblicano definì l’evento un giudizio di Dio. E’ evidente che questi orrende macellerie furono atti deliberati, con lo scopo di spargere il terrore tra i legittimisti e dissuaderli da ogni resistenza. Resta la constatazione che gli italiani brava gente, periodicamente, si producono in vili scempi di cadaveri. Da noi sono ricorrenti i Piazzali Loreto, atti tipici di vili impotenti. Nel 1814 gli animosi milanesi avevano già massacrato nello stesso modo Giuseppe Prina, ministro delle Finanze del Regno d’Italia napoleonico: con le punte degli ombrelli, per quattro ore, fino a renderne il corpo irriconoscibile. La folla era guidata dal patriota Federico Confalonieri. Si veda Patrick K. O’Clery, citato, Ares, 2000, pagina 142.
4) Il solo Nino Bixio eseguì oltre 700 condanne a morte senza processo. Da un giornale dell’epoca, L’Unione: «Bixio ammazza a rompicollo, all’impazzata... fa moschettare tutti i (soldati e ufficiali) prigionieri stranieri che gli capitano tra le unghie, e tira colpi di pistola a quei suoi ufficiali che osano far motto di disapprovazione». Esecuzioni per stroncare una possibile classe dirigente legittimista: purghe staliniane ante litteram.
Per esempio ci si dovrebbe chiedere se le burocrazie pubbliche inadempienti e disoneste che gravano sulla società non abbiamo ereditato lo spirito di corpo della burocrazia piemontese: immediatamente estesa all’Italia appena conquistata, essa non si visse ovviamente come a servizio della popolazione, ma con la missione di taglieggiarla e controllarla come corpo ostile, ponendo quanti più ostacoli alla sua iniziativa libera, ritenuta pericolosa. Ancor oggi l’apparato burocratico (la Casta) si comporta rispetto alla società come un nemico occupante. La stessa riflessione va fatta per le istituzioni in generale. I Savoia non crearono un sistema giuridico italiano; si limitarono ad estendere al resto dell’Italia - appunto come occupanti - il «diritto» piemontese, tanto che a Napoli si faticò a tradurre le nuove leggi, scritte in italiano approssimativo, infarcito di francesismi e termini dialettali subalpini.
|
Home > Free Back to top