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Chiudere il casinò. O ripudiare il debito
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Come mai le Borse salgono, se le industrie e le imprese quotate in Borsa vanno di male in peggio?

L’economista francese Bernard Maris si interroga sul rialzo del listino del salotto buono francese (CAC 40) e nota che le aziende del CAC 40 versano oggi più dividendi di prima: il 56% dei loro benefici, contro il 40% dei tempi pre-recessione. Le imprese del CAC 40 infatti hanno vantato 47 miliardi di euro di profitti, e ne hanno dato 37 in dividendi.

Negli Stati Uniti, dove il fenomeno è a livelli paradossali e più apertamente patologici, l’emissione di azioni è negativa di 15 anni. Le aziende quotate aumentano artificialmente il valore delle azioni (e dei pacchetti di chi le detiene) con l’acquisto di azioni proprie, e versano dividendi enormi, senza relazione con i profitti che sono in calo. Ciò significa che oggi «il mercato borsistico americano finanzia gli azionisti, e non il contrario». Di norma, dovrebbero essere gli azionisti a finanziare il mercato azionario. (Quand la Bourse va, rien ne va)

La Borsa non è più un meccanismo che aiuta l’economia, ma un meccanismo che pompa denaro dall’economia reale per darlo ai redditieri, ai possessori di azioni.

«Ma allora, a che serve oggi la Borsa? Ad arricchire i più ricchi. A mantenere un capitalismo finnanziario che non è più investitore nè inventore, bensì predatore».

Le grandi banche, i fondi d’investimento e le assicurazioni, in USA, captano oggi per sè il 40% dei profitti, contro il 10% che ne accaparravano nel 1980. I media che annunciano con squilli di tromba i rialzi di Borsa inneggiano agli interessi dei «rentiers», ma quel che avviene in Borsa non ha alcun interesse per le imprese non-quotate, l’artigianato, il lavoro in genere. L’economia reale non riceve niente dalla Borsa, e ne viene depredata.

I governi e le Banche Centrali danno una mano a questo enorme e delinquenziale trasferimento di risorse dalla produzione alla rendita. Prendiamo ad esempio il «salvataggio» della Grecia, l’accordo finalmente raggiunto fra gli Stati europei: si sono dichiarati pronti a prestare un montante di 30 miliardi di dollari alla Grecia al 5%. Ciò non risolve niente, trasforma solo la crisi greca da acuta a cronica. Per contro, la finanza speculativa ne avrà enormi benefici. Il prestito al 5% alla Grecia li indurrà a chiedere tassi vicini a quello, o più, per le obbligazioni delle imprese e i titoli degli altri Stati in difficoltà.

Il mercato globale del debito subirà probabilmente un rialzo brutale, strangolando le economie, e le grandi banche che incamereranno il profitto aggiuntivo non lo useranno per prestare di più, ma per i propri insaziabili bisogni di zombies, pieni di titoli tossici, sostenuti solo dall’infusione di denaro di Stato. Siccome l’economia reale (che oltre la crisi deve affrontare i tassi più elevati per finanziare la propria attività) non sarà più in grado di offrire alla finanza i rendimenti di cui sogna, le banche e la speculazione continueranno ad operare con derivati distruttivi, e sperando nel rilancio del mercato dei titoli «cartolarizzati» (tipo subprime), che continuano ad essere a zero, tranne che quando sono garantiti dallo Stato.

In compenso, gli Stati europei che hanno promesso di prestare al bisogno i 30 miliardi alla Grecia, se occorrerà, dovranno a loro volta prendere quei soldi in prestito: ai tassi alti che hanno imposto ad Atene, e che i «mercati finanziari» già si abituano a pretendere. Dunque gli Stati salvatori sono subentrati in prima linea di rischio: se la Grecia non ce la fa e fa default, sono loro le vittime predestinate.

Ciò perchè non hanno voluto mettere a punto un piano a medio termine e di riordino della follie finanziarie – che doveva cominciare con la chiusura dei casinò globali, a cominciare dalle Borse ormai inutili e dannose – ma al contrario pretendono che economie in gravissima recessione paghino interessi sempre più alti sul debito pubblico e privato.

Come ha detto Trichet della Banca Centrale Europea al Sole 24 Ore, certi Paesi dovranno deflazionare il costo del lavoro e ridurre le spese pubbliche per pagare e onorare i loro impegni verso i creditori, a qualunque costo. Trichet guarda con equanime imperturbabilità all’Europa che, ha detto, dovrà entrare in «inflazione negativa»: eufemismo impagabile per non pronunciare la parola «deflazione».

Così, per non chiudere i casinò (dove gli operatori guadagnano 500 o mille volte il salario operaio, contro le 40 volte degli anni ‘80) il banchiere centrale ci condanna alla deflazione: un male per tutti, ma un bene per i creditori, perchè il valore dei loro crediti non si diluisce.

Ma attenzione: la situazione può rovesciarsi all’improvviso, e tramutarsi in iper-inflazione. Un collasso in cui anche i banchieri saranno trascinati. Perchè i banchieri di Wall Street, che si credono i signori del mondo, sono già oggi vulnerabili al massimo. Dipendono dal fatto che lo Stato americano consente loro di applicare norme contabili truffaldine sui loro «attivi»: se dovessero valutare quegli «attivi» ai loro reali valori di mercato, risulterebbero anch’essi insolventi.

Il trucco (o la truffa) regge solo finchè i debitori pagano almeno qualche interesse; solo così i banchieri possono iscrivere quei prestiti dubbi come «performing», ossia in qualche modo redditizi. Ma immaginate quando farà bancarotta la Grecia, o quando la farà la California, o quando aumenterà il numero degli americani che smettono di pagare il mutuo sulla loro casa (che oggi vale meno del mutuo), o sulle carte di credito o sui prestiti universitari... tutti questi fenomeni sono già in corso.

Il municipio di Los Angeles ha messo i suoi dipendenti in sciopero tecnico per tre giorni su sei, perchè non riesce a pagarli, e si teme che possano cessare tutti i pagamenti (default) entro maggio prossimo. Ben 33 Stati americani hanno esaurito le riserve per i sussidi di disoccupazione.

Immaginate insomma che un numero grande di debitori, siano gli staterelli dell’Est europeo, la Grecia o la Spagna, siano le miriadi di debitori privati facciano default: di colpo, gli «attivi» che le banche dichiarano «ancora paganti» o funzionanti, quindi attivi, (performing) andrebbero scritti nella colonna contabile delle perdite secche. Allora il mondo d’oggi, dove comandano i creditori, si tramuterebbe di colpo in un mondo dove a guidare il gioco sono i debitori.

Lo paventava già nel febbraio 2009 l’analista Gregor MacDonald: «Sono i debitori ad avere collettivamente il controllo della situazione. Dunque saranno i creditori, non i debitori, che dovranno fare le più dolorose concessioni negli anni a venire. Sia che il debito pubblico USA sia diluito con l’inflazione, sia che venga rinegoziato, o che sia ripudiato, non fa differenza. Il processo è già in corso». (
Paths to Repudiation)

I signori del mondo dipendono dalla buona volontà dei debitori in difficoltà economica crescente di continuare a pagare onestamente dei debiti che sono stati loro affibbiati in modo fraudolento. A dirlo è un ex membro della Federal Housing and Urbane Development Commission, Catherin Austin Fitts: secondo cui «la maggioranza dei mutui posti in essere negli Stati Uniti dopo il 1996 sono stati assegnati in modo fraidolento».

Per esempio, le banche hanno convinto milioni di americani che sapevano privi dei redditi adeguati a comprare case, solo perchè il rischio d’insolvenza le banche, lo trasferivano ad altri (fondi pensione, investitori esteri) riducendo quei prestiti in «titoli» fruttanti interessi.

Continua Fitts:

«Il modo di trattare con delinquenti è di trattare i contratti che abbiamo firmato con loro allo stesso modo reciproco in cui essi hanno fatto nei loro contratti con noi. Un movimento che annullasse i contratti con istituzioni che hanno violato la legge sarebbero certo sconvolgente.  Richiederebbe dolorosi aggiustamenti. Certo, anche perchè le banche hanno venduto debiti originati in modo delinquenziale ai nostri fondi pensione e conti di accantonamento per la vecchiaia, nonchè ai nostri alleati e ad istituzioni nel mondo. Ma sarà meno doloroso del prezzo che pagheremo se continuiamo ad agire in base a una doppia morale, in base alla quale a certe banche e piccoli gruppi viene consentito di vivere ed agire al disopra della legalità, mentre ai debitori viene imposta la legge. Dobbiamo affrontare l’illegalità del settore finanziario e  cominciare la trasformazione». (Create the Path Forward)

Qual è il prezzo che pagheremo, più doloroso del ripudio, lo ha descritto l’economista Steve Keen:

«... una depressione senza fine... se continuiamo a tenere in vita il settore bancario parassita, l’economia muore. Dobbiamo uccidere i parassiti per dare all’economia reale una possibilità di prosperare».

Come?

«Dovremmo cancellare il debito, far fallire le banche, nazionalizzare il sistema finanziario e ricominciare tutto daccapo. Abbiamo bisogno di un Giubileo del ventunesimo secolo».

Il giubileo era la remissione periodica dei debiti fra il popolo ebraico. Si dirà che questo è contrario al liberismo economico come lo insegnano alla Bocconi. No: Murray Rothbard, economista delle venerata scuola austriaca, allievo del venerato maestro von Mises, scrisse nel 1992, quando si profilava il collasso finanziario della Russia post-sovietica:

«Io propongo il puro e semplice ripudio del debito. Perchè gli impoveriti cittadini della Russia, della Polonia e degli altri Paesi ex comunisti devono essere legati ai debiti contratti dai loro ex-padroni comunisti?... E per contro: perchè noi, cittadini americani di oggi, in difficoltà come siamo, dobbiamo essere legati a debiti creati da una classe dominante che ha contratto questi debiti a nostre spese?». (Repudiating the National Debt)

E Rothbard continuava:

«Benchè dimenticato dagli storici e dalla pubblica opinione, il ridupio del debito pubblico è una robusta parte della tradizione americana. La prima ondata avvenne nel decennio 1840, dopo il panico del 1837 e del 1839: panico indotto dal boom inflazionistico creato dalla Second Bank of United States. Numerosi Stati, allora governati dai Whig (conservatori alla britannica), emisero un’enorme quantità di titoli di debito, che usarono per lo più in sprechi pubblici. Il debito degli Stati salì dai 26 milioni di dollari a 170 milioni nel decennio 1830. I titoli di questi debiti furono comprati per lo più da investitori britannici e olandesi. Nel clima di deflazione del 1840, succeduto al panico, gli Stati si trovarono a pagare i debiti in dollari che, adesso, valevano più dei dollari che avevano preso a prestito. Molti Stati, a questo punto governati da democratici, risolsero la questione ripudiando i debiti, sia totalmente sia in parte. Dei diciotto Stati in debito (sui 28 che contavano gli USA nel 1840), nove continuarono a pagare gli interessi senza interruzione; ma altri nove (Maryland, Pennsylvania, Illinois, Indiana, Michigan, Arkansas, Louisiana, Mississippi e Florida) non pagarono. Quattro di essi sospesero il pagamento degli interessi per diversi anni; gli altri cinque (Michigan, Mississippi, Arkansas, Louisiana e Florida) ripudiarono totalmente e in modo permanente il loro debito pubblico. Come dopo ogni ripudio del debito, il risultato fu di sollevare il grave peso dalle schiene dei contribuenti», che così alleggeriti poterono investire quei profitti che sennò sarebbero andati agli investitori, e così tornare a far prosperare le economie locali.

Una seconda ondata di fallimenti pubblici avvenne nel decennio 1870, dopo la guerra civile americana, negli Stati sudisti sconfitti, appena usciti dall’occupazione nordista. Fecero debiti per la riostruzione sotto i corrotti e predatorii governi repubblicani radicali loro imposti e poi, tornati sotto governi democratici, otto di essi li ripudiarono.

Questo può accadere ancora. Specie quei Paesi il cui debito è detenuto da stranieri sono tentati di  porre il mondo davanti al fatto compiuto: a pagare il prezzo maggiore saranno i detentori stranieri dei titoli pubblici dell’insolvente, non i cittadini.

Ora, qual è il Paese che ha un grandissimo debito estero e un bassissimo tasso di risparmio interno? Qual è il Paese i cui BOT non sono comprati dai cittadini, ma dai cinesi e giapponesi?

Gli Stati Uniti d’America, con la loro «robusta tradizione» di ripudio dei debiti pubblici, e le loro portaerei e missili in grado di far ingollare il ripudio ai grandi creditori. Certo, anche il Giappone è veramente nei guai, e il ministro nipponico Yoshito Sengoku ha paragonato il suo Paese alla Grecia. Ma il fatto è che il Giappone ha sì un debito del 200% del PIL, ma in gran parte contratto coi suoi cittadini, quindi esiterà a ripudiralo.

Gli Stati Uniti invece... guardiamo alle cifre comparate riportate dal CIA Factbook:

Debito estero giapponese: 2,13 trilioni (migliaia di miliardi di dollari). Riserve del Giappone: 1 trilione di dollari

Debito estero USA: 13,45 trilioni (migliaia di miliardi). Riserve USA: 75 miliardi. Ho detto «miliardi» e non trilioni.

Che cosa significa? Per il Giappone, il rapporto debito/riserve è 2:1. Ossia per ogni dollaro che devono ai debitori esteri, il Giappone ha mezzo dollaro di riserve. Il rapporto debito estero/riserve per gli USA è 180 ad 1. Ossia: per ogni dollaro che deve ai creditori, Washington ha in riserva 0,5 centesimi.

Se la seconda economia mondiale (Giappone) è alle corde e viene giudicato sull’orlo dell’insolvenza, che dire della prima economia mondiale? E gli USA sono debitori verso non-americani. E noi stiamo a parlare della Grecia.

Il ripudio americano è più imminente e più conveniente per Washington. Senza una chiusura dei casinò, e senza un ordinato «giubileo» (con rinegoziazioni in cui i banchieri si accollino la loro parte del danno che hanno provocato; dove per esempio si ripudino i debiti vecchi di fatto già ripagati molte volte ai creditori prima che i debiti nuovi; o i debiti esteri prima che gli interni), assisteremo forse alla «competizione nel ripudio sovrano», dove il primo che arriva ha più vantaggi.



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