marcionismo_550.jpg
Perchè no a Marcione
Stampa
  Text size
Una risposta al lettore Pirraki, che scrive:

«Non riesco più a sentirmi completamente cattolico, non credo più a diversi dogmi, a molti passi dei Vangeli, che considero una narrazione altamente edificante, anche se non storica, ma credo fermamente in Dio e nella Sua presenza nel mondo, ma ciò che mi separa dalla Chiesa è che mi considero totalmente marcionita e penso che la Chiesa avrebbe dovuto fare la stessa scelta 1.600 anni fa; ciò avrebbe impedito lattuale sfascio giudeo-modernista...».

Marcione, lo dico per informarne chi ne fosse all’oscuro, fu un vescovo (morto nel 160 dopo Cristo)  il quale  giunse alla conclusione che il Geova dispotico, esclusivista razziale e sterminatore dell’Antico Testamento non poteva lo stesso Dio, universale e misericordioso, di cui parlava  Gesù.
Il marcionismo, fulminato dalla Chiesa nel secondo secolo come una forma di gnosticismo (accusa falsa: Marcione non pretese mai di rifarsi a dottrine segrete o esoteriche), fu un grande e potente movimento, che proponeva di rigettare la Bibbia ebraica per tenere solo i Vangeli, e che cova anche ai nostri giorni.

Adolf von Harnack
   Adolf von Harnack
Uno dei più grandi teologi luterani del secolo scorso Adolf von Harnack, (morto nel 1930), simpatizzò apertamente con il marcionismo. Una sua frase celebre recita: «Rigettare lAntico Testamento nel II secolo fu un errore che la Grande Chiesa giustamente evitò. Conservarlo nel XVI secolo fu una fatalità a cui il Riformatore (Lutero) non fu capace di sottrarsi. Ma continuare a conservarlo nel XIX secolo, come documento canonico nel Protestantesimo, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica».

Il che fu atto di notevole coraggio e anticonformismo, visto che proprio in ambiente protestante l’Antico Testamento e il libero esame di esso ha assunto più importanza del Nuovo. Von Harnack reagiva contro la tendenza giudaizzante del protestantesimo con molta preveggenza, vista la deriva secolare del luteranesimo, dai British-Israelites britannici fino ai telepredicatori americani che appoggiano Israele nelle sue pretese mistico-territoriali e razziste, perchè «è la promessa biblica».

Il Papa e Neusner
   Il Papa e Neusner
Si figuri quindi il lettore se personalmente non simpatizzo con von Harnack, e anche con l’antico vescovo Marcione e la loro onestà intellettuale. La tentazione marcionita percorre fortemente i secoli. E non tenta solo quelli che nel cattolicesimo reagiscono alle derive giudaizzanti recentissime; lo stesso rabbino Neusner, con il quale il Pontefice regnante tanto ama colloquiare, in fondo ci invita al marcionismo: riconoscete voi cattolici che la vostra fede non è il compimento della fede ebraica, ma unaltra e diversa religione, e lasciate in pace la nostra Torah, di cui siamo i soli lettori legittimi. A questa condizione, forse, l’odio ebraico contro il cattolicesimo si placherebbe, e avremmo una sorta di «pace».

Ma sarebbe forse il genere di «pace» di cui Cristo assicura: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada». Cristo, che si rifà tanto a «Mosè e i profeti», non autorizza in nessuna parte la scissione della Nuova e della Vecchia Alleanza, non lo fa Paolo (il primo teologo), e tanto dovrebbe bastare per un credente. Alla stessa stregua per cui, a chi pretende il sacerdozio alle donne, bisogna rispondere che Gesù non l’ha fatto, anche se oggi è forse difficile darne una ragione ai contemporanei, imbevuti di ideologie come l’«uguaglianza fra i sessi».

Ma col lume della ragione si può forse intuire che la continuità fra l’antico e il nuovo Israele è una conseguenza dell’Incarnazione. Venire al mondo significa sempre, per ciascuno di noi, venire dentro una storia, in un preciso momento storico, sotto un dato governo e in una data cultura, dentro una ben identificata famiglia, e dentro una certa genealogia. Il Verbo volle farsi carne così: non in uno spazio-tempo ideale (quale?), ma nel popolo ebraico, figlio di Maria e di Giuseppe di discendenza davidica, sotto l’impero universale di Roma. Certo c’è una «fatica» nell’incarnazione,  come c’è «fatica» nel matrimonio, perchè entrambi determinano e limitano; una fatica che il  divorzio non è il modo di evitare.

Il cattolicesimo – atto di umiltà unico – si riconosce «secondario», derivato da una religione preesistente, così come Roma non pretese che la civiltà cominciasse con essa (la sua potenza gliel’avrebbe consentito), ma seppe che era venuta al mondo in un mondo dove già esisteva la cultura – quella greca. Qualunque incarnazione richiede questo atto di umiltà primaria: un figlio non può disconoscere sua madre. La Chiesa riconoscerà sempre l’utero da cui è nata e non ripudierà la sua madre, qualunque cosa quella madre sia dopo diventata.

Senza la sua radice ebraica, il Cristo storico resterebbe appeso a nulla, e in poche generazione di marcionismo, per lettori che non leggessero più l’antico testamentto, diverrebbero incomprensibili persino le sue parole, così intrise di ebraismo.

Ma c’è un altro motivo che mi induce a rigettare la tentazione del buon Marcione. Motivo meno estrinseco, più profondo, anzi radicale, che esito ad enunciare perchè non essendo teologo nè santo (tantomeno), non credo di esserne qualificato. E’ un tema da affrontare con timore e tremore. Il lettore è avvertito: posso sbagliare tutto, e sono benvenute correzioni.

Il tema è adombrato nel passo più enigmatico del Genesi (14): Abramo, capostipite dell’ebraismo e delle religioni monoteistiche, incontra Melchisedek.

«17 Quando Abram fu di ritorno, dopo la sconfitta di Chedorlaomer e dei re che erano con lui, il re di Sòdoma gli uscì incontro nella Valle di Save, cioè la Valle del re. 18 Intanto Melchisedek, re di Salem, fece portare pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo 19 e benedisse Abram con queste parole:

Sia benedetto Abram dal Dio altissimo,
creatore del cielo e della terra
,
20 e benedetto sia il Dio altissimo,
che ti ha messo in mano i tuoi nemici
.
Abram gli diede la decima di tutto ciò che aveva preso
».

Questo misterioso personaggio compare di punto in bianco, e quasi fuori contesto, in mezzo a una scena di tensione bellica e di fretta; offre pane e vino e non certo ad Abramo, ma al Dio Altissimo  di cui è sacerdote (la Chiesa vi vede da sempre una prefigurazione dell’Eucarestia); e Abramo, che ha appena sconfitto in guerra dei re locali, si sottomette a lui senza combattere, e gli dà la decima parte del suo bottino. Cioè si dichiara suo subordinato, e con ciò – lui che è devoto al Dio che chiama Shaddai, l’Onnipotente – subordinato all’Altissimo, El Elion.

Chi è questo Melchisedek lo spiega San Paolo, che è – non dimentichiamolo – uno studente del grande rabbino Gamaliele, dunque esperto dei significati nascosti delle Scritture. Melchisedek, significa, spiega nella Lettera agli Ebrei (7, 1-3)  «Re di Giustizia». In quanto al re di Salem, significa «Re di Pace» (e non di Gerusalemme, che non esisteva ancora). Dunque il personaggio è Re di Pace e di Giustizia, che è la definizione stessa del sovrano universale mitico (o più precisamente archetipico), il re-sacerdote che esercita il Rigore (la giustizia del giudice supremo nell’ultimo giudizio) (1) e insieme la Clemenza e la Misericordia  (la pace che spetta sulla terra «agli uomini di buona volontà»).

Paolo spiega molto chiaramente che qui non si sta parlando di un reuccio locale. Melchisedek è «senza padre, senza madre, senza genealogia, la cui vita non ha principio nè fine, ma che in tal modo è reso simile al Figlio di Dio; questo Melchisedk rimane sacerdote in eterno» (Ebrei, VII, 1-3).

Paolo dichiara che il sacerdozio dei Leviti ebrei è subordinato al sacerdozio secondo Melchisedk: «Levi stesso, che prende le decime (dal popolo ebraico) le ha pagate per così dire» per mezzo di Abramo, perchè «Levi era nei lombi di Abramo» quando il Re di Pace e Giustizia si fece incontro ad Abramo (VII, 9-10). E insiste: «Qui (nel sacerdozio levitico) sono uomini mortali che prendono le decime; ma là è un uomo di cui è attestato che è vivente» (VII, 8).

Attestato da chi? L’affermazione è sorprendente. Sorprendente come la risposta di Gesù ai sadducei che non credevano all’immortalità: «Non avete letto nel libro di Mosè (...) come Dio gli disse: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe?», e dopo aver elencato questi patriarchi tutti regolarmente defunti, conclude: «dunque, Egli non è Dio dei morti, ma dei viventi».

I provocatori sadducei ammutoliscono, e si guardano dal replicare che Gesù  è in contraddizione, perchè ha nominato dei morti. E infatti c’è da ammutolire e piegare il ginocchio, perchè qui c’è donato un lampo del «punto di vista» divino: Cristo non dà alcuna prova, ma «attesta» che i patriarchi sono vivi. E chi può mettere in dubbio l’attestazione del Re? Lui sa: «Prima che Abramo fosse, Io Sono».

Dunque, sembra che Melkisedek sia da identificare col Verbo. E benedicendo Abramo e accettandone la decima, apre in lui una porta spirituale, una «via di grazia» sacramentale, che dura tutt’ora. Nel senso che i sacramenti che la Chiesa impartisce sarebbero vani gesti, inefficaci, se non si collegassero a questa apertura originale.

Si tratta qui di una sfera supremamente arcaica, ormai incomprensibile, temo, ai contemporanei (anche cristiani, anche prelati) che dei sacramenti possono cogliere tutt’al più, se va bene, il senso di «conforto» psicologico e sentimentale. Invece sono atti d’imperio, che in alcuni casi imprimono un carattere indelebile, immediatamente efficaci nel «mondo dei viventi» non appena un sacerdote debitamente ordinato li impartisca nei modi dovuti. Ciò, persino nel caso che il sacerdote sia peccatore e non sia consapevole di partecipare a questa indicibile tradizione.

Persino René Guénon, che non ha stima della Chiesa cattolica (secondo lui troppo «exoterica»), deve ammettere che la partecipazione alla tradizione di Abramo, anche quando non è cosciente, «tuttavia non è meno reale come mezzo di trasmissione degli influssi spirituali», della grazia. L’intellettualità, e persino la moralità, non c’entrano nulla con la sfera dell’Essere (2): i sacramenti agiscono «ex opere operato», per sè, perchè ciò che ordina il Re, il «Sono colui che Sono» è ontologicamente efficace. E non può essere altrimenti.

Del resto, la Chiesa ne conserva una coscienza, visto che l’ordinazione dei suoi sacerdoti la impartisce con la formula «tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melshisedek». Che è nientemeno la definizione di Cristo.

Ex opere operato
   Ex opere operato
Capito? Il nostro pretino di campagna, il vecchio prete nell’ospizio, il prete negro e anche il prete pedofilo, sono «in eterno». Sono «alter Christus». E le loro mani consacrate «secondo l’ordine di Melkisedek» impartiscono sacramenti validi, per il solo fatto che attingono al canale di grazia aperto dall’antico Re in Abramo e nella sua discendenza. Senza collegamento a questa discendenza, i nostri preti non servirebbero a nulla, il pane e il vino resterebbero pane e vino e non Corpo e Sangue del Re sacerdote e vittima.

Resta da notare che il rito di Melchisedek fu appunto l’offerta di pane e vino, non il rito ebraico dello sgozzamento di animali. L’Eucarestia dunque, lungi dall’essere un rito «nuovo» rispetto all’ebraismo, è il rito sacramentale più antico, il più arcaico, il più «originale», nel senso di «originario». E’ il rito primordiale e allo stesso tempo quello perenne, perchè non dipende dal «sangue» e dalla «genealogia», come il rito ebraico. Difatti, una volta perduta la linea genealogica di Aronne, il rito ebraico non può più essere compiuto in modo efficace.

Non avrei osato affrontare questo tema, perchè qui c’è il rischio di sviare negli esoterismi alla Guénon (che tratta di Melchisedek nel «Re del Mondo», collegandolo al mito di Agartha). Però lo stesso Paolo, dopo aver detto che Gesù per primo è stato «proclamato da Dio sommo sacerdote secondo lordine di Melchisedek», aggiunge che su questo punto esiste una sapienza non-detta, alquanto «esoterica»:


A questo proposito abbiamo molte cose da dire, e cose difficili da esporre, perchè siete divenuti pigri a capire». E rimprovera i suoi lettori che, non dimentichiamolo, sono ebrei tentati dal ritorno ai riti e all’esclusivismo giudaici: «Infatti, mentre per il tempo dovreste essere maestri, avete nuovamente bisogno che uno vi insegni i rudimenti degli oracoli di Dio, e siete diventati bisognosi di latte, non di cibo solido» (Ebrei, 5, 11-14).

Come bambini siamo tutti noi, davanti a questi misteri. Ma un po’ di latte, Paolo ce l’ha dato.

Qui finisce la mia esposizione, e basta per far capire – spero – perchè il nostro collegamento ad Abramo, e dunque agli ebrei, è ontologicamente necessario: se diventassimo marcioniti, l’offerta del pane e del vino diverrebbe quel che è per i luterani, una «rievocazione» vuota, non «pane dei viventi» in eterno.

Tuttavia, non credo inutile proseguire per accennare all’altro incontro di Abramo, descritto in Genesi 18:


«1 Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva allingresso della tenda nellora più calda del giorno. 2 Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dallingresso della tenda e si prostrò fino a terra, 3 dicendo: ‘Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto lalbero. 5 Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo. Quelli dissero: ‘Fa pure come hai detto’.Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: ‘Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce’. Allarmento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. 8 Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentregli stava in piedi presso di loro sotto lalbero, quelli mangiarono.

Se in Melchisedek compare un uomo, qui compaiono tre «uomini», uomini che mangiano, eppure Abramo vi riconosce il Signore, e si prostra, e si affanna a rifocillarli. Qualcosa suggerisce che i tre misteriosi pellegrini sono, forse, quell’uno che si chiamò Melkisedek...



marcionismo.jpg



Nel XIV secolo il monaco Rubliev dipinse questa scena indicibile, con tutta la sua enigmatica meraviglia, nella più splendida icona mai dipinta dall’intelligenza mistica amorosa: i tre sono angeli, sono uomini, sono la Trinità che ci visita (3): El Elion ossia Emmanuel, Dio con Noi.





1
) Michele, che sta in eterno in faccia a Dio, è spesso rappresentato con la bilancia e la spada come Angelo del Giudizio (ultimo): sono i simboli più precisamente del Re di Gistizia.
2) Di qui si vede l’errore fatale dei genitori moderni, magari cristiani, che non battezzano i loro figli neonati perchè «lo faranno se vorranno, quando saranno in grado di capire». Qui non c’è nulla da capire. Si tratta di essere.
3) Riporto qui, anche se lungo, una interpretazione dell’icona di Rublev che ho trovato su internet e mi ha colpito. Specialmente bello il fatto che il Padre (la figura a sinistra) sia raffigurato giovane come il Figlio (al centro) e lo Spirito: non il vecchio con la barba, ma l’eternamente giovane coetaneo di Suo Figlio.

«Accostiamoci all’icona e osserviamola attentamente, tenendo presente la ricchezza dei simboli usati dal pittore per sottolineare la comune natura divina dei Tre e la Loro identità. Essi sono raffigurati come Angeli con le ali, i Loro volti sono uguali e nessuno è più giovane o anziano dell’altro: in Dio non c’è un prima e un dopo, ma un perenne oggi. Tutti e tre tengono in mano il bastone del viandante, segno della stessa autorità; anche le aureole, di giallo luminoso, sono tutte e tre uguali senza alcun segno di distinzione e ancora l’azzurro, colore divino, è in tutte e tre le figure che sono sedute su troni uguali, segno della stessa dignità. Il monaco Andrej Rubljov sa che Dio nessuno l’ha mai visto, sa però che Gesù ci ha manifestato tutto nella vita di Dio Padre, Figlio, Spirito Santo.
Dopo aver meditato il Vangelo e pregato a lungo, Andrej cerca di tradurre in pittura quanto ha udito. Egli vuole dircelo tramite i colori ed i gesti dei tre Angeli che hanno visitato Abramo.
Tutti e tre portano il colore azzurro, segno della Divinità.
L’intero dipinto è intessuto di una luce intensa che si riverbera su chi lo guarda.
Le tre figure sono in un atteggiamento di riposo, sono molto simili e si differenziano solo per l’atteggiamento di ciascuno nei confronti degli altri due: un solo Dio in tre persone che si completano l’una l’altra in un rapporto circolare, inesauribile, di comunione amorosa: l’atteggiamento delle tre persone divine, disposte a cerchio aperto verso chi guarda e in conversazione tra di Loro, esprime l’Amore trinitario.
Nonostante la Loro somiglianza, gli angeli hanno però identità diverse riferite alla loro azione nel mondo. L’identificazione è suggerita dai colori degli abiti, dalle posizioni dei corpi, dai gesti delle mani, dalla testa, dalla simbologia delle forme geometriche.

E solo con la Trinità di Rubljov che l’uguaglianza pittorica delle due figure raggiunge livelli così elevati, e soprattutto è solo con Rubljov che la terza figura, lo Spirito Santo, abbandona il simbolismo della colomba - tipico delle raffigurazioni trinitarie - per assumere esplicitamente una sembianza umana del tutto simile a quelle delle altre due figure.
Nel Padre (Angelo di sinistra) il color azzurro è nascosto: Dio Padre nessuno l’ha mai visto, se non tramite la bellezza e la sapienza della sua creazione (manto rosa). E’ Lui il punto di partenza dell’immagine. Il mantello ha i colori regali: oro e rosa con riflessi verdi, simbolo della vita. Al centro della mensa luminosa sta un calice-coppa con dentro l’agnello. Se si osserva attentamente l’immagine, l’angelo centrale (Figlio) è contenuto nella coppa formata dai contorni interni degli altri due angeli (Padre e Spirito).
Il Figlio (Angelo di centro) è uomo (tunica rosso sangue ed è anche il colore dell’amore che si dona sino al sacrificio); ha ricevuto ogni potere dal Padre (stola gialla) e si è manifestato come Dio attraverso le sue opere. Tutti abbiamo visto la sua Divinità: ‘chi vede me, vede il Padre!’. Ha il mantello azzurro che lascia scoperta una spalla: è il Figlio, figura centrale della Redenzione, è ripreso nel momento in cui ritorna all’interno della Trinità. Due dita della mano destra appoggiata alla mensa rivelano la duplice natura: umana e divina.
Lo Spirito Santo (Angelo di destra) è Dio e dà la vita (verde, colore delle cose vive e della speranza). La vita di amicizia con Dio ci viene da Lui! Sembra sul punto di mettersi in cammino e raffigura lo Spirito Santo che sta per iniziare la Sua missione. Ha un atteggiamento di assoluta disponibilità e di consenso alle altre due figure. Entrambi hanno il viso rivolto verso il Padre, che li ha mandati».

Il resto potete leggerlo qui.

http://www.internetica.it/rublev.htm


Home  >  Cattolicesimo                                                                             Back to top


>La casa editrice EFFEDIEFFE, diffida dal riportare attraverso attività di spamming e mailing su altri siti, blog, forum i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright ed i diritti d’autore.