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Mica male, questi argentini
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Ed ora, salutiamo Francesco I. Papa laconico, il che è bello. Bello che la folla in piazza San Pietro, sentitone il nome, a tutta prima non lo conoscesse: l’uomo in questi giorni andava alle riunioni inosservato, si toglieva lo zucchetto rosso e nessuno lo intervistava. A Buenos Ayres, mi dicono, andava a visitare i quartieri poveri in bus. Alto e bello che si sia detto vescovo di Roma, come appunto è Pietro.

Può essere un progressista. Vediamo. Uno che sceglie di chiamarsi Francesco, ha trovato la strada per mettere pace e unità, superare tutto con l’essenziale. Francesco di Assisi cambiò la forma delle chiese, cambiò la predicazione, cambiò la Chiesa stessa, fu un immenso novatore, ma nessuno lo chiamò un progressista. Francesco vestiva di stracci ma voleva che il Calice, in cui il vino sarebbe diventato Sangue del Re Salvatore, fosse d’oro puro. Da Francesco si può accettare qualunque cambiamento di rito, sicuri che non ci porta fuori dal sentiero. Del resto la Chiesa – come mostra la splendida basilica – è molto Cinquecento, ha bisogno di molto Duecento.

E intanto, Papa Francesco ha già inventato un rituale nuovo, cinque minuti dopo la sua comparsa. Quando è stato lui a chiedere alla folla di fedeli di essere benedetto, e ordinato il silenzio s’è chinato per ricevere la benedizione sul capo. E di colpo la folla, chiassosa, ha fatto silenzio e s’è concentrata a invocare la Grazia su quella testa. Un rito nuovo, che i Papi futuri ripeteranno, ed è antichissimo. La Roma prisca lo conosceva:

«Chi è capo ci sia ponte»

Di colpo, quella folla in piazza ha adottato quello sconosciuto come suo pontefice. Chiesa militante. E con quel segno, Francesco ha sepolto chilometri di chiacchiera vaticanista e televisiva che ci è stata inflitta e che ci attenderà.

(E adesso finisco di scrivere la notizia che stavo preparando. Argentina anche quella)

Hector Timerman
  Hector Timerman
Il ministro degli esteri argentino si chiama Hector Timerman ed è ebreo. La presidentessa Cristina Fernandez Kirchner è mezza ebrea. Motivo sufficiente per lo stato d’Israele di ritenersi padrone anche di quel Paese.

Ha avuto una sorpresa quando, in ottobre 2012, la Kirchner e il ministro Timerman hanno annunciato di aver costituito con Teheran una «commissione di verità», formata da giudici dei due Paesi, per indagare sull’attentato che nel 1994, a Buenos Ayres, fece saltare l’edificio dell’AMIA (Associazione Mutua Israeliani in Argentina) provocando molte vittime: attentato di cui sono stati sempre accusati gli iraniani (su prove «scoperte» da agenti israeliani), e che ha gelato per tanti anni i rapporti fra i due stati.

Assordanti le proteste e i pianti della potente comunità ebraica locale, delle comunità ebraiche nel mondo, e ufficialmente degli Stati Uniti. Quanto alle pressioni che devono aver subito privatamente Timerman e la Kirchner, quanto caldi gli inviti a fare i bravi sayanim, nemmeno li possiamo immaginare. Ma la misura è stata colmata quando Israele ha ufficialmente «preteso spiegazioni» a Buenos Ayres sull’accordo con l’Iran. L’ambasciatore argentino in Sion è stato convocato al ministero degli esteri israeliano dove è stato trattato come un lacchè dal ministro, che poi lo ha lasciato al direttore generale per l’America Latina, Itzhak Shoham, che ha ripetuto di «esigere spiegazioni».

L’ambasciatore ha ovviamente informato Buenos Ayres del trattamento insultante ricevuto. A questo punto Timerman ha convocato l’ambasciatrice israeliana Shavit Dorit il 31 gennaio, e gli urli hanno consentito di ascoltare, al di là della porta, gli argomenti del capo della diplomazia argentina. Si è trattato di una lezione di base sui fondamenti del diritto internazionale:

«Israele non ha alcun diritto di esigere spiegazioni; siamo uno Stato sovrano», ha gridato Timerman: «Israele non parla a nome del popolo ebraico e non lo rappresenta. Gli ebrei che hanno voluto vivere in Israele sono partiti, e ne sono i cittadini; quelli che vivono in Argentina sono cittadini argentini. L’attentato (del 1994) ha colpito l’Argentina, e la voglia di Israele di intromettersi nella questione dà solo munizioni agli antisemiti che accusano gli ebrei di doppia lealtà».

L’ambasciatrice sionista, raggelata, ha poi raccontato che Timerman, «molto in collera», s’è «lanciato in un monologo» dove lei non è quasi riuscita ad inserire una parola. A far infuriare ancor più Timerman è stato che Israele, dopo aver convocato l’ambasciatore argentino, ne ha dato notizia alla stampa: un comportamento inaccettabile.

«L’Argentina non convoca l’ambasciatore israeliano per spiegazioni. Se volessimo, potremmo convocarla qui due volte al mese per esigere spiegazioni su un’operazione militare a Gaza o sulla costruzione delle colonie. Non lo facciamo, perché non vogliamo intervenire nelle vostre decisioni sovrane».

Riavutasi, la Shavit – dice – ha cominciato a rispondere con la stessa furia. Secondo Haaretz, ha gridato: «Come Stato ebraico, Israele si considera responsabile del bene di tutti gli ebrei e colpisce l’antisemitismo in tutto il mondo. Israele ha aiutato gli ebrei a lasciare l’Unione Sovietica, a portare gli ebrei dall’Etiopia, e in certi momenti, ha aiutato anche i giudei in Argentina. E sapete di cosa parlo». Allusione al fatto che negli anni ’80 il padre di Timerman era stato arrestato dalla giunta militare, in qualità di giornalista di sinistra. Era stato rilasciato per l’intervento dell’ambasciata sionista a Buenos Ayres; i militari avevano concesso anche a Timerman padre di lasciare il paese. Riparato per qualche tempo in Israele, il padre era tornato in patria alla caduta della dittatura.

Shavit ha poi cercato di medicare la cosa asserendo che il motivo per cui Israele voleva spiegazioni era che l’attentato all’AMIA aveva «somiglianze» con un attentato all’ambasciata israeliana a Buenos Ayres di due anni fa, visto che Israele ritiene che dietro ad entrambi ci siano stati gli iraniani o Hezbollah (ovviamente).

«Non so di un collegamento fra i due attentati», ha risposto duro Timerman, «se Israele ha informazioni su questo, vi chiedo di darcele al più presto». Poi lo scambio s’è fatto meno urlato, e s’è concluso con un accordo a calmare il gioco. A questo punto, la Shavit ha cercato la captatio benevolentiae: «Abbiamo la stessa bandiera!».

Hector Timerman: «Sulla nostra bandiera brilla un sole radioso, sulla vostra una stella morta». Niente male, Senor Timerman.

L’attentato all’AMIA, il 18 luglio 1994, fu gravissimo: 86 morti e oltre 200 feriti. I colpevoli non sono mai stati trovati. Fin dal primo giorno, il presidente Carlos Menem (il Berlusconi argentino, «grande amico di Israele» e «amico carnale» degli Stati Uniti, secondo le sue stesse parole) diede via libera al Mossad e all’FBI nella conduzione delle indagini.





Per una fortunata coincidenza, fu proprio un ufficiale dello spionaggio militare israeliano a scoprire tra le rovine della zona del delitto un pezzo di metallo su cui era impresso il numero di serie di un motore, il che consentì di risalire ad un minibus che avrebbe portato l’esplosivo sul luogo – anche se, particolare trascurabile, nessun altro pezzetto di quel veicolo fu mai trovato, né alcun testimone è mai riuscito a vedere il minivan arrivare. Uno dei sette tribunali federali argentini che si sono occupati del delitto ha «stabilito» che il van non si trovava perché «l’esplosione era stata così potente che il veicolo era stato sepolto in profondità davanti all’entrata dell’edificio AMIA». Esattamente come il Boeing che l’11 settembre 2001 colpì il Pentagono senza lasciare traccia di sé. L’avvocato difensore della persona formalmente accusata a quel tempo ha chiesto alla Corte che si scavasse sotto l’edificio, per trovare la fantomatica auto-bomba: la Corte ha ripetutamente rifiutato il suggerimento.

Nei successivi processi, sono emersi alla luce del sole insabbiamenti, depistaggi, falsi testimoni e giudici corrotti, che tutti miravano ad uno scopo preciso: accusare gli iraniani.

Per esempio: un giudice federale, Jorge Galeano, ha dovuto dimettersi quando è emerso che aveva autorizzato il pagamento di 400 mila dollari sottobanco a tale Carlos Telleldìn, un trafficante in auto rubate in quel momento detenuto, affinché fornisse falsi indizi sul coinvolgimento «di iraniani o siriani» nell’attentato. A stanziare i 400 mila dollari era stato il banchiere Rubén Beraja, padrone del Banco Mayo e allora anche presidente del DAIA (Delegazione Argentina delle Associazioni Israelite): prestigiosa figura della finanza internazionale, Beraja era stato scelto (da Paul Volcker della FED) nella Commissione dei Notabili che investigarono sui pretesi conti dormienti di ebrei in Svizzera, e per cui la Confederazione Elvetica, attaccata da una propaganda velenosa e violentissima, ha dovuto sborsare 1,25 miliardi di dollari a varie organizzazioni ebraiche globali.

Finalmente il 21 settembre 2006 il presidente Nestor Kirchner, con sua moglie (allora senatrice) Cristina e il suo ministero degli Esteri Jorge Tajana ebbe un colloquio riservatissimo a porte chiuse, al Waldorf Astoria di New York, con alti esponenti di otto organizzazioni ebraiche mondiali: fra cui l’Anti Defamation League, American Jewish Congress, World Jewish Congress e il B’nai B’Rit.

Non si sa che cosa questi gentiluomini abbiano detto; ma un mese dopo, il presidente Kirchner inviò il procuratore generale dell’Argentina, Alberto Nisman, ad incontrare agenti della CIA e del Mossad a Washington. Tornato con le istruzioni, il procuratore Nisman (del resto sionista militante: sono dappertutto) ha formalmente accusato della strage Ali Rafsanjani, al tempo presidente iraniano, e sette membri del suo governo, fra cui Ahmad Vahidi, poi divenuto ministro della Difesa sotto Ahmadinejad.

Itzak Rabin
  Itzak Rabin
L’Iran ha sempre protestato contro questa accusa. Sempre invano, fino ad oggi. Ora può emergere un’altra verità. Forse, quella di una sanguinosa vendetta interna contro gli ebrei argentini che – all’epoca – sostenevano il processo di pace avviato da Itzak Rabin: nel settembre 1993, Rabin strinse la mano di Arafat alla Casa Bianca, avviò accordi con la Siria per la restituzione delle alture del Golan, fermò gli insediamenti; nel luglio ’94, fece tornare Arafat in Palestina dopo 27 anni di esilio…

I fondamentalisti talmudici divennero pazzi di rabbia. Letteralmente. Nel febbraio ’94 Baruch Goldstein un giudeo di New York andato a stabilirsi nella «colonia» di Hebron, ammazzò 40 musulmani in preghiera alle tombe dei Patriarchi. Nel luglio ’94, l’attentato-strage all’Amia. Il 4 novembre 1995, un estremista ebraico uccise Itzak Rabin...


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