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Un’arma segreta del Pentagono: il Viagra. E le altre
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Fra i generi di conforto che il Pentagono fornisce alle truppe in zona di guerra, c’è il Viagra. Da anni. Precisamente dal 1998 (il farmaco «voluttuario» era ancora una novità), quando destinò a questa spesa 50 milioni di dollari. «Il prezzo di 45 missili da crociera Tomahawk», commentò critico, allora, il Los Angeles Times.

Ma l’utilità di render più “duri” i soldati americani almeno «lì sotto» non è mai apparsa dubbia agli strateghi di Washington. Come ogni spesa del Pentagono, anche questa è aumentata esponenzialmente: nel 2014, lo stanziamento per Viagra ed altri rafforzatori chimici dell’erezione è salito a 544.816 milioni di dollari. Come ha calcolato il Washington Free Beacon (un blog politico della capitale), con questa spesa il Pentagono «ha fornito 80.770 ore, 33 minuti e 36 secondi di rafforzamento sessuale, posto che ogni erezione non duri (come consigliano i medici) più di quattro ore».

L’efficacia bellica di quest’arma segreta è attestata dalle statistiche. Degli stupri di caserma, o altre molestie sessuali. Nel 2012, per esempio, «26 mila casi di contatti sessuali non voluti sono stati denunciati da soldati e soldatesse, un numero senza precedenti», secondo un articolo apparso su Globalresearch.

Violenze sessuali etero ed omo nell’esercito americano sono diventate un fenomeno travolgente. «La Air Force Academy a Colorado Spring conta più violentatori di ogni altro college in USA».

Il fatto istruttivo, ricorda la Pravda in un ottimo articolo, è che gli americani hanno accusato Gheddafi di fornire alla propria soldataglia la pillola blu per «usare lo stupro come arma»: l’accusa fu elevata formalmente da Susan Rice, allora ambasciatrice all’ONU, nell’aprile 2011, per convincere i dubbiosi che l’intervento armato in Libia era una necessità morale, per salvare le povere donne libiche dalla suprema vergogna.

«Stupri, intimidazione fisica, molestie sessuali e anche i cosiddetti ‘test di verginità’ sono ampiamente usati non solo in Libia, ma in tutta la regione», asseverò Hillary Clinton dichiarandosi «profondamente preoccupata». Subito Luis Moreno-Ocampo, un volonteroso argentino, procuratore del Tribunale Penale Internazionale ( International Criminal Court) si dichiarò pronto ad incriminare Gheddafi per «la politica dello stupro applicata in Libia contro gli oppositori del governo»; e aggiunse che «abbiamo informazioni su questo» .

Il guaio è che la tv via cavo MSNBC chiese lumi a «esponenti militari e dell’intelligence USA» i quali risposero che «le denunce della Rice non hanno fondamento alcuno» ( there is no basis for Rice's claims). «È vero che l’uso dello stupro come arma viene denunciato in vari conflitti, ma dalla Libia non c’è stata alcuna accusa in questo senso». Amnesty International smentì la favola del Viagra dato ai soldati libici per bocca della nostra Donatella Rovera, che si trovava da tre mesi in Libia dall’inizio del conflitto: «Non abbiamo trovato alcun indizio né una sola vittima di violenza, né un solo medico che sapesse che qualcuna era stata stuprata». Liesel Gerntholtz, esponente tedesca di Human Rights Watch per i «diritti delle donne», assentì: «Non siamo stati capaci di trovare alcuna prova».

Le accuse della Rice, insomma, avevano la stessa consistenza delle altre che hanno giustificato l’intervento occidentale a protezione dei nostri valori. Come le armi di distruzione di massa che Colin Powell era sicuro possedesse Saddam. Come l’accusa al regime siriano di gassare i suoi stessi cittadini (erano stati i ribelli, islamisti moderati), o ai combattenti russofoni del Donbass di aver abbattuto il MH17, l’aereo passeggeri della Malaysia airlines con un missile per ordine di Putin, nonché l’invasione di carri armati russi a dar manforte a quelli del Donbass, come dice e continua a ripetere anche Barack Obama, ancorché non sia stato mai capace di comprovarle con uno straccio di foto satellitare.

A queste si può aggiungere la «prova», recentissima, pubblicamente esibita da parte del senatore James Inhofe (Oklahoma): foto di carri armati russi con le loro insegne ben in vista che percorrevano una strada dell’Ucraina, fornite all’ottantenne senatore da una delegazione di parlamentari ucraini; foto che sono servite al senatore per tenere un furente e fremente discorso sull’urgenza di «fornire armi letali» a Kiev. Poi s’è appurato che erano foto prese nel 2008, erano state scattate dall’agenzia AP, e si riferivano al conflitto in Georgia (come Inhofe avrebbe dovuto sospettare vedendo i corazzati di Putin percorrere in un bel sole estivo una strada di montagna, paesaggio introvabile in Ucraina), insomma che la delegazione di Kiev aveva raggirato il vecchio. Il quale è rimasto fermo nella sua convinzione: fornire armi letali a costoro, contro l’aggressore moscovita.




Qui, forse, bisogna invocare meno il ricorso cinico alla menzogna e l’arte dei false flags come machiavellico pretesto per fare guerre, quanto un fenomeno psichiatrico: la tendenza, sempre più pronunciata nel potere americano, a credere vere le proprie menzogne – pur sapendo che le ha diffuse per ingannare le opinioni pubbliche e i Governi altrui – una volta che queste menzogne gli rimbalzano diffuse dagli obbedienti media occidentali. «Basta andare sul web e sui siti social», ha spesso risposto Jen Psaki, la portavoce del Dipartimento di Stato, ai giornalisti che le chiedevano se aveva prove d’intelligence dell’invasione russa.

L’articolo della Pravda identifica in molte affermazioni dell’Amministrazione il sintomo psichiatrico, ben descritto da Freud, della cosiddetta «proiezione»: quel meccanismo psichico di difesa che consiste nell’attribuire al prossimo (proiettare) le proprie cattive intenzioni e sentimenti odiosi che si provano dentro di sé, ma che non si vuol riconoscere come tali. Un comportamento, spiegano i testi di psichiatria, proprio «di personalità di livello primitivo».

Personalità primitive

Un esempio? L’asserzione del Segretario di Stato John Kerry nella conferenza stampa del 2 marzo 2014, con l’intenzione di infamare l’annessione della Crimea da parte di Mosca: «È un atteggiamento da 19° secolo; nel 21° secolo non si invade un altro Paese con falsi pretesti allo scopo di affermare i propri interessi». Naturalmente Kerry non ebbe il minimo sentore di star dipingendo il comportamento del potere americano, dall’invasione dell’Afghanistan a quella dell’Iraq, fino all’aggressione della Libia, e alla fornitura di armi, addestratori e mercenari al regime di Kiev perché sconfigga quella parte dei suoi concittadini situata sul Don.

Ciò può indurre la seguente domanda: non sarà una «proiezione» psichica anche l’accusa falsa fatta al defunto Gheddafi di usare lo stupro come arma? La quantità di Viagra data ai Marines dal Pentagono non sarà intesa forse come incoraggiamento ad adottare quest’arma nelle occupazioni? O almeno, è un attribuire al nemico delle cattive intenzioni che si coltivano in proprio, come fanno «personalità alquanto primitive»?

Perché Putin è ottimista

Mentre a Washington si continua a gridare: «Diamo a Kiev armi letali!», la sacca di Debaltsevo è stata chiusa dai separatisti; migliaia degli ottomila soldati ucraini che vi erano rinchiusi si si sono arresi.

Un’altra offensiva delle truppe ucraina è da escludere, ha spiegato YuriyBiryukov, il consigliere militare di Poroscenko: «Non abbiamo più soldi. Ci occorre una linea difensiva dietro cui trincerarci».

Le forze armate di Kiev si stanno disintegrando, hanno avvertito i servizi tedeschi il Governo Merkel: le perdite sono più vicine alle 50 mila vite, che alle cinquemila raccontate finora da Poroshenko. Una ditta ucraina già si sta rivendendo – accetta solo contanti – i corazzati Saxon AT 105, vecchi mezzi dismessi dalla polizia britannica e regalati da Londra alla nuova democrazia occidentalista di Kiev.

Il cessate il fuoco imbastito a Minsk dal duo Merkel-Hollande con Putin, dunque, regge: per forza, si può dire. La giunta «europeista» di Kiev dovrà ora vincere la battaglia più disperata, quella della pace. Anche l’economia sta collassando a ritmi accelerati, come riconosce il New York Times: i 17 miliardi e mezzo di dollari prestati dal Fondo Monetario agli amici non sono nemmeno la metà dei 40 miliardi che mancano al Paese per sopravvivere, e ciò senza contare «le miniere che crollano e delle industrie obsolete che un tempo erano tenute in vita solo da contratti con la Russia o da sussidi che Kiev non può più permettersi di pagare», scrive il grande giornale americano.



E cita le migliaia di lavoratori messi «in mobilità» della Yuzhmash, un colosso industriale di Dnipropetrovsk produttore di parti di missili, motori a razzo ed altro materiale dell’industria spaziale, che aveva come cliente quasi unico Mosca; la Vetreria Merefa, fabbricante di bottiglie dal 1896, inoperosa perché la sua fornace è guasta, e perché non ottiene più alcune materie prime essenziali che prima comprava dalla Crimea, ed adesso le sanzioni hanno reso irraggiungibili: altri duemila disoccupati. La Mriya Agro Holding, grosso conglomerato di produzione agricola, è stata fatta fallire dai creditori, che reclamano pagamenti arretrati per un miliardo di dollari. La Nadra Bank, undicesima dell’Ucraina per dimensione, ha dichiarato insolvenza; e sarà presto seguita da altre, preconizza il NYT, essendo «il settore bancario notoriamente infestato da corruzione, incompetenza e sprechi», in una «condizione disastrosa» secondo la Banca della Ricostruzione e Sviluppo.

Gasolio e carburante sono rincarati del 50% – lo ha preteso il fondo Monetario come contropartita ai suoi «aiuti» – mentre il potere d’acquisto la hrvinia, la moneta, è collassato: risultato, i maggiori introiti incamerati dall’azienda ucraina del carburante sono stati inceneriti dal fatto che essa deve pagare i suoi fornitori (ancora essenzialmente Gazprom) in dollari. I tassi d’interesse sono stati alzati dalla Banca Centrale al 19,5 %, dunque mancano i capitali per tentare una ripresa «scatenata», dicono loro, dalle liberalizzazioni che «disincaglieranno il potenziale produttivo del paese». Al mercato di verdure in Zhitny, ha constatato l’inviato statunitense, la gente non riesce più a comprare nemmeno le patate offerte dai contadini locali.

Forse non aveva del tutto torto Victor Yanukovitch, il presidente cacciato a furor di popolo (e di Nuland) dalla rivolta di Maidan, quando rifiutò di «aderire» all’Europa, o meglio alle condizioni poste da Barroso e Ashton, ossia di rinunciare al commercio con la Russia, il principale partner, il cui interscambio valeva 160 miliardi di dollari, ed ora è vaporizzato. Ma il sistema è molto lontano dall’ammettere una cosa del genere. Georges Soros e Bernard-Henri Lévy hanno scritto una colonna a due mani sul NYT per reclamare – subito subito – dall’Occidente altri 15 miliardi per l’Ucraina, per tenerla nell’area occidentale. Aspetta e spera.

Già «diversi membri della oligarchia kleptomane sono scappati in Israele, dove con il regolamentare versamento di un milione di dollari hanno la cittadinanza e la protezione dello stato ebraico contro estradizioni e sequestro di beni». E frattanto, gli eurocrati di Bruxelles – inconsci di aver perso – hanno pensato bene di imporre nuove sanzioni alla Russia, aggiungendo nuovi nomi alla lista dei personaggi di cui vengono bloccati i beni e i viaggi all’estero. Fra i sanzionati c’è Iosif Kobzon, «un cantante enormemente popolare (in Russia e in Ucraina) – scrive il Saker – che ha vissuto da giovane nel Donbass. Il suo crimine? Non solo ha appoggiato la Novorossia, ma è andato a Donetsk a cantare in concerto mentre la città era bombardata dalle «forze anti-terroriste», ed ha anche invitato Zakharcenko (il capo delle file russofone) sul palco a cantare con lui».

Oltretutto, Kobzon è ebreo, ha 77 anni, un cancro alla prostata in fase avanzata; non potrà curarsi all’estero. La decisione di Bruxelles ha aumentato il disgusto dei russi verso «i nostri valori», e fatto salire ancora il tasso di popolarità di Vladimir Putin: sopra l’85% approvano la sua azione.

Sicché – ammette lo Spiegel – Putin non si mostra affatto preoccupato dalle tonitruanti minacce americane di fornire ancora più «armi letali» a Poroshenko e Yatseniuk, né dalle farneticanti velleità di rivincita che si sentono in Ucraina, ma anche in Europa, in Polonia e nei paesi baltici.

Personalità «addentro alle cose del Cremlino» sentite dallo Spiegel hanno riferito in questo modo il pensiero di Vladimir: «Quanto più in ritardo le potenze occidentali e l’Ucraina arriveranno ad accettare un compromesso veramente stabile (che per lui significa: federalizzazione e neutralità), tanto più debole sarà la loro posizione negoziale». Insomma, ciò che i cretini non hanno accettato oggi, dovranno accettare e peggio, domani

Si chiama pensiero strategico duro.

E senza nemmeno bisogno di Viagra.



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