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E il Katar chiede scusa ad Assad...
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Il nuovo emiro del Katar, lo sceicco miliardario Tamim bin Hamad al Thani, ha scritto una lettera al presidente siriano Bashar al-Assad, «in cui esprime il desiderio di migliorare le relazioni con Damasco». La notizia-bomba è apparsa sul quotidiano libanese As Safir, indipendente di sinistra e simpatizzante per Hezbollah, il quale precisa che la lettera dell’emiro è stata consegnata materialmente da Abbas Zaki, esponente di alto livello di Al Fatah, approfittando del fatto che Zaki aveva in programma una visita a Damasco per un colloquio con Assad; dove la lettera è stata consegnata il 7 ottobre. (www.assafir.com)

È praticamente una resa. Ed altamente umiliante. Il ricchissimo emirato del Katar ha rivaleggiato con la monarchia saudita per armare e finanziare i «ribelli» anti-Assad, preferendo spiccatamente i ribelli di tipo qaedista e takfirita; al costo di parecchi miliardi di dollari, di cui Al-Thani ha abbondanza eccessiva (ne ha dati 7 miliardi anche ai Fratelli Musulmani d’Egitto, nel vano tentativo di tenerli in sella).

Nessun reame più del Katar ha premuto e sperato per l’intervento americano-occidentale a Damasco, perfino teorizzando un’invasione araba «per la democrazia e i diritti umani in Siria», dizione alquanto comica per una micro-monarchia in cui lo sceicco è il padrone dei suoi sudditi, e i lavoratori stranieri sono impiegati come schiavi, negando loro perfino l’acqua da bere, e provocando la morte di poveri immigrati nepalesi (almeno cento all’anno secondo Human Right Watch «decedono ogni anno per crisi cardiaca dovuta alla forte calura e disidratazione», soggetti come sono a ritmi di lavoro massacranti; e spesso non ricevono la paga dai padroni arabi, i quali sottraggono loro i passaporti per incatenarli ed impedire loro la fuga).

Ora, la situazione è stata così cambiata dalla sorprendente iniziativa diplomatica di Putin che Assad ha sostenuto (e disarmato Washington), che il Katar ammette – di fatto – la sconfitta. E dato che aveva rotto i rapporti diplomatici col regime di Damasco, lo deve fare attraverso il governicchio palestinese: si è appreso che lo sceicco Al Thani aveva invitato a Doha, il 28 agosto, il presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) per un abboccamento a quattr’occhi, e gli ha chiesto aiuto per «sgonfiare la tensione» con il regime siriano, se non altro informandolo che «il Katar vuol adottare una nuova politica estera», ma «gradualmente senza introdurre cambiamenti radicali nel breve periodo». Sic.

A parlare con Abbas è stato evidentemente il «nuovo» sceicco Tamim Al Thani – il quale aveva da meno di un mese sollevato dall’incarico lo sceicco-padre Hamad bin Khalifa Al Thani, il vero colpevole della costosa politica anti-Assad, in un piccolo golpe domestico fortemente «incoraggiato» dagli Stati Uniti; però su calda pressione dell’Arabia Saudita, che vedeva nel Katar un rivale-avversario nella gestione, diversione e finanziamento delle «rivoluzioni islamiche» (anti-sciite) in corso.



Basta ricordare che in Egitto il Katar sosteneva i Fratelli Musulmani di Morsi, mentre Ryiad ha inneggiato ai generali che li hanno rovesciati, staccando immediatamente un assegno di 4 miliardi per la giunta di Al-Sisi (altri 4 li ha sborsati il Kuwait e 3 gli Emirati Arabi Uniti, ma sono dei satelliti dei Saud). All’emiro è stato fatto capire energicamente che le sue ambizioni di dettare la linea sulla Siria e l’Egitto erano smodate per il reuccio di un regno di 220 mila abitanti. Il sovrano uscente ha annunciato in tv che d’ora in poi il Paese avrebbe dedicato tutti i miliardi in più al grande evento futuro della politica estera di Doha, la coppa mondiale di calcio del 2022, e subito dopo la sua graziosa volontà di lasciare il trono al figlio.

La mano pateticamente tesa ad Assad dal nuovo emiro non è solo un duro colpo per i ribelli sul campo, e anzi forse segnala che essi stanno ogni giorno perdendo terreno. Segnala anche, secondo il sito del giornale iraniano Mashad (Qods online), «lo sgretolamento della coalizione anti-siriana» formata dalla Turchia di Erdogan, dai sauditi e dal Katar. È dal marzo 2011 che questi tre Paesi si sono ingeriti nella crisi siriana, trasformando la protesta dei siriani contro Assad nella sanguinosa guerriglia a cui partecipano stranieri fanatizzati dal settarismo salafita, deformati dai predicatori wahabiti e sognanti il Califfato fino a Cordova (Spagna). Secondo il giornale iraniano, le milizie terroriste hanno ricevuto qualcosa come 36 miliardi di dollari da Katar e Arabia, concorrenti che rivaleggiavano nel nutrire ed equipaggiare i loro takfiriti; mai un investimento così gigantesco è andato a finire così male.

Adesso per giunta pare che Doha abbia diviso i suoi destini da Ryiad e da Ankara con molta discrezione – cioè a loro insaputa, e senza consultarli – utilizzando appunto un esponente palestinese per contattare Assad. C’è il fondato sospetto che l’emiro non voglia perdere la grande occasione d’investimento dei suoi petrodollari in eccesso: ossia partecipare alla ricostruzione della Siria, che i suoi miliardi e i suoi mercenari hanno devastato e raso al suolo, provocando immani sofferenze umane. Le ricostruzioni post-belliche sono sempre un grosso e lucroso business; in Libia, su cui si puntavano le speranze di tutti gli «investitori» (che si identificano con i bombardatori e gli aggressori di prima), il business è rovinato dalle bande armate previamente chiamate «ribelli per i diritti umani». Così ammaestrati, gli investitori cominciano ad apprezzare la permanenza in Siria di un regime autoritario, laico, modernizzatore e col monopolio della violenza nelle sue mani.

Per adesso, Damasco non ha accusato ricevuta della lettera dell’emiro, ma gli iraniani dicono che non avrebbe niente in contrario a normalizzare le relazioni con un così ben fornito investitore tornato nano politico (la Siria ha bisogno di enormi prestiti, dopo la catastrofe). Da questo business rischia di esser tagliata fuori Ankara, rimasta a fianco dell’Arabia Saudita a reggere il cerino, e subire l’isolamento politico globale che consegue ad una tanto grave sconfitta. I contraccolpi si vedranno nei prossimi mesi. Per adesso, il regime saudita – miserabilmente vendicativa – espelle i pellegrini siriani che tentato di fare il pellegrinaggio alla Mecca, ed ha affidato ad una ditta israeliana specializzata in «sicurezza» il filtraggio (con schedatura) di tutti i pellegrini che si recano alla Mecca: la G4S Hasmira, che ha grossi contratti per la sorveglianza delle prigioni israeliane e dei carcerati palestinesi. (Saudi Hires Occupation-Friendly Company for Hajj Security)

Negli Stati Uniti, le conseguenze politiche della disfatta diplomatica sono tutte da decifrare (come una volta nel Cremlino sovietico). È possibile che uno di tali contraccolpi sia il simultaneo e rapidissimo licenziamento, la prima settimana di ottobre, di ben due generali, e quali! Sono il vicecomandante della forze nucleari Usa, ammiraglio Tim Giardina, e il generale maggiore Michael Carey, che sovrintendeva a tutti i missili nucleari, comandando la 20ma unità Air Force che conduce giorno e notte programmi di deterrenza atomica, tenendo il dito sul pulsante della risposta ad un attacco nucleare. Di entrambi gli individui s’è fatto ufficiosamente filtrare che sono stati sollevati per «personal misconduct» (l’ammiraglio Giardina avrebbe presentato ad un casinò dello Iowa delle fiches false…). Accuse che possono sostituire quelle di alto tradimento, per evitare una condanna a morte e lo scatenamento di una purga generale nella forza armata americana. Ma si deve ricordare che certi settori alti dell’apparato militare sono affollati di estremisti politici e fanatici religiosi protestanti, certo frustrati quando l’offerta di Assad i consegnare le armi chimiche ha rimandato l’Armageddon, tanto annunciato dai più popolari telepredicatori.

Potrebbe anche darsi che i due gallonati volessero cominciare la guerra mondiale senza attendere ordini dalla Casa Bianca? Va ricordato lo strano e mai spiegato incidente avvenuto nell’agosto 2007: quando un B52 caricato con sei missili da crociera a testata atomica decollò dalla base Air Force di Minot (Nord Dakota) e atterrò ore dopo alla base di Barksdale, Louisiana; doveva essere solo una tappa di rifornimento, essendo il mega-bombardiere diretto a una non chiarita lontana destinazione oltremare; il personale a terra addetto al munizionamento si accorse che le testate erano state caricate ed armate in violazione di tutti gli obblighi di sicurezza, e diede l’allarme, sventando forse un’apocalisse atomica scatenata «per errore». Mai è stato chiarito a chi avesse obbedito l’equipaggio del bombardiere e coloro che l’avevano caricato di bombe; si disse che era qualcuno «estraneo alla catena di comando» (e si sospettò il vice-presidente Dick Cheney). Anche allora, alcuni generali furono sollevati dal comando. Inoltre sei militari della base di Minot, fra cui due piloti di B52, e tutti fra i 20 e i 33 anni, sono stati uccisi da misteriosi incidenti d’auto e suicidi. Si favoleggia anche che una delle testate atomiche portate dal bombardiere sia ancor oggi smarrita.

Forse un giorno riapparirà in mano ad «Al Qaeda», chissà.




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