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La globalizzazione del «ciascuno per sé»
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Non ci avevano promesso che l’euro e l’Europa Unita erano necessari per far cessare le guerre intra-europee, contenere la Germania, e creare uno spazio di prosperità, solidarietà e concordia?

Qualche titolo di giornale: «La Germania preferirebbe che Londra lasciasse la UE» (così resterebbe sola a comandare sulla prigione dei popoli, senza un critico incomodo) (1). Un altro: «La cooperazione militare germano-polacca è un pilastro che crea una tendenza per lo sviluppo di strutture militari europee integrate»: lo ha detto la ministra delle difesa germanica Ursula von der Leyen (CDU) alla firma dell’accordo a Varsavia. Secondo tale accordo, la Polonia – che ha già oltre 130 carri armati Leopard 2 – ne riceverà altri 120 nel 2015. Le due marine militari hanno firmato l’accordo di integrazione l’anno passato; basato, questo, sul fatto che entrambe usano lo stesso sistema missilistico robotizzato, RBS 15 MK3, 200 chilometri di gittata, capace di «manovre evasive imprevedibili nella fase finale del volo». L’accordo è rigorosamente bilaterale, i membri della UE non sono stati invitati, e fa dell’armata polacca un’appendice della Bundeswehr. Ma ci saranno altri inviti, sempre bilaterali: questo accordo «crea una tendenza», come ha detto la ministra.

Giriamo pagina. Ecco un altro capitolo che si apre nell’Europa della pace.

«Grecia-Turchia: sale la tensione tra i due Paesi»: Ankara ha inviato una nave sismografica, scortata da un sottomarino, nelle acque territoriali della Repubblica di Cipro, per fare prospezioni petrolifere. È l’area in cui stanno facendo ricerche l’ENI in società con la coreana Kogas. La Turchia non riconosce la repubblica di Cipro, quindi a maggior ragione non riconosce le sue acque territoriali. Come risposta, Atene ha mandato in quelle acque una fregata e un sottomarino. Cipro ha attivato i canali di alleanza che la uniscono (oltre che alla Grecia) al Cairo, con il quale condivide la zona di mare esclusiva potenzialmente petrolifera. Cipro e Grecia sono membri della UE, Turchia è membro della NATO: due enti che avevano troppo da fare a minacciare la Russia per sventare la possibile guerra elleno-turca come ai bei tempi di Santorre di Santarosa.

«Ucraina: le elezioni (dei russofoni del Donetzsk) sono illegali, non saranno riconosciute, sono un nuovo ostacolo alla pace». Così la nostra (meglio, la loro) Federica Mogherini nei nuovi panni di Lady PESC. Le elezioni legali per la UE quelle che le convengono.

Avrei un’altra notizia, per mostrare come i nostri tecno-eurocrati sono dominati da idee pacifiche. Questa:

José Mauel Barroso: «Se non avessimo fatto entrare la Bulgaria e i baltici nella UE, Mosca ne avrebbe fatto un solo boccone»: così nella sua ultima tavola rotonda come presidente della Commissione, il 29 ottobre. Un delirio? C’è del metodo in questa follia. Barroso deve ingraziarsi Washington, perché vuol farsi nominare segretario generale dell’ONU. Altrimenti deve tornare nel Portogallo che ha devastato al vertice della UE.

Passiamo al capitolo «prosperità» che la UE ci ha garantito.

La BCE che veglia su tutti noi euro-vittime
, fatti gli stress test, ci ha tranquillizzato: «solo» 25 banche su 130 sono mal messe, cosa vuoi che sia. Due giorni dopo però, forse per disattenzione, rende nota una cifra che i media hanno nascosto pudicamente nel rumore di fondo informativo: le banche europee hanno 880 miliardi di euro di crediti dubbi (ossia che i debitori sono in ritardo di pagamento da oltre 3 mesi). Ma subito aggiunge: è solo il 4% dei loro bilanci. Sì, appunto: 4% corrisponde alla leva bancaria media: per esempio, Paribas ha 1800 miliardi di crediti in essere, ma solo 72 miliardi di fondi propri, che appunto sono il 4%. Ora, quando i crediti a rischio insolvenza ammontano ai fondi propri, ciò vuol dire che le banche sono virtualmente fallite. Se quei debitori non ricominciano a pagare, basta la caduta di una banca per provocare una catastrofe a catena.

A proposito di soldi:

Parigi ha sforato il bilancio oltre il famoso 3%. Corretta con la matita rossa da Bruxelles, ha proclamato che sì, sforerà anche quest’anno, anzi sforerà ancora per due, e chisseneinfischia... come nel 2000, quando Berlino e Parigi avevano deliberatamente ignorato le regole del Patto di Stabilità. Un’orgogliosa affermazione di sovranità, finalmente. Poi, però, il loro ministro competente, Michel Sapin, ha tagliato il deficit di3,6 miliardi per evitare le sanzioni di Bruxelles. il nostro Matteo Renzi aveva fatto lo stesso: prima una sfida da sbruffone, poi i tagli richiesti dal padrone.

La Spagna, profetizzò Bruxelles, dal deficit del 6% nel 2012 sarebbe passata a 4,5% nel 2013 e al 3 nel 20914. Come al solito, previsione sbagliata: è al 5,7% quest’anno, l’obiettivo è rimandato. Di Grecia e Portogallo inutile parlare. Ma anche Vienna ha dovuto rimandare l’agognato – ancorché arbitrario – obiettivo del 3%. Bruxelles ha «chiesto spiegazioni», come ha fatto all’Italia, anche all’Austria, a Malta, alla Slovenia per le loro derive di bilancio.

La belva Katainen ha dovuto far finta di contentarsi: «Nessun caso di mancamento grave» al Patto di Stabilità. Tutti gli scarti dal programmo han finito per essere ammessi visto che sono generalizzati. Nessuno osa però gridare che sono le politiche di riduzione dei deficit pretese dalla UE che provocano la depressione economica la quale impedisce direttamente di raggiungere le riduzioni pretese da Bruxelles. E una volta constatato che quasi nessuno Stato rispetta gli obiettivi e le popolazioni soffrono, dal 2008, e la deflazione è ormai un fatto, mica si pone in essere qualche grande sforzo comune per far convergere quel che diverge. No, al contrario: sotto la sferza dell’istitutrice di Berlino, ogni nazione fa da sé, senza riceve e alcuna solidarietà dalle altre, e tutte le convergenze divergono e si allargano: torna lo spread fra i debiti pubblici dalla stessa moneta (l’euro), i mercati a delle obbligazioni vanno su e giù asincronici, i partiti di Governo si usurano ciascuno per conto suo e vanno verso catastrofi elettorali come se fosse un fenomeno naturale, a cui non si può sfuggire. Ma è, naturalmente, perché hanno l’apparenza di essere responsabili, di governare in questa rovina prodotta dall’euro, ad applicare un’austerità senza prospettiva che dura da anni.



Non si vuol vedere un dato semplice e netto: tutti i Paesi dell’euro-zona (meno uno) hanno oggi più disoccupati di quando sono entrati nell’euro. La Spagna era al già impressionante 14,5 %, oggi è salita al 24: 700.000 famiglie spagnole non ricevono più alcun reddito proveniente da un lavoro, dall’indennità della disoccupazione o da qualsiasi altra forma di sostegno statale. Solo la Caritas Espana li aiuta: nel 2007 assisteva 350 mila poveri, oggi oltre un milione. La Grecia entra nell’euro nel gennaio 2001 con il 10,5% di tasso di disoccupazione, oggi è al 26,4. Persino l’Austria, paesetto-modello ben governato, entrò nell’euro con il 4% di disoccupazione, oggi è al 5,1%.

Il solo Paese che abbia oggi meno disoccupati di quando è entrato nella moneta unica potete immaginarlo: è la Germania. Nel 1999 aveva un tasso di disoccupazione del 9%, oggi è al 5. Nel 1999 sforò come ha sforato oggi la Francia o l’Italia, aveva un deficit dei conti correnti di 31 miliardi di euro. Nel 2014 è in attivo per la titanica cifra da 237 miliardi. In una zona monetaria vera, dovrebbe distribuire una gran parte di quella cifra alle regioni meno competitive (come fa la Lombardia con la Sicilia). Nient’affatto: Berlino non dà niente. Comanda, ma non paga. Ovviamente gode del sistema disfunzionale di moneta unica a concorrenza totale, che fa da aspirapolvere: risucchia la ricchezza dai Paesi meno competitivi e l’accumula al più competitivo. Se poi un giorno qualcuno degli schiavi si mettesse a protestare che non può più continuare a ricevere senza dare, ha in serbo la strategia: uscirà dall’euro sbattendo la porta, con i suoi satelliti nordici. Speriamo.

Strana Europa. Doveva unirci, e invece mai come oggi le società europee sono divenute grumi di «identità» incontrollabili e irriducibili; scozzesi che non vogliono vivere cogli inglesi, catalani rivoltati dagli spagnoli, lombardi che ne hanno le scatole piene dei terroni. Non è solo sulle rive del Dnepr che si costruiscono nazioni sul rigetto dell’altro. E dovunque crescono l’incivismo, la disgregazione di antiche solidarietà; a Milano ci sono strade abitate da immigrati in cui è pericoloso passeggiare, i rom occupano case popolari di poveri momentaneamente assenti, giovinastri si abbandonano allo sport di prendere a pugni sconosciuti, senza motivo e di sorpresa, così tanto per divertirsi.

La perdita di ogni residuo di patria (tutto assorbito nell’europeismo tecnocratico) ha reso meno integrabile anche l’immigrazione (non abbiamo da trasmettere alcun valore, visto che non ne abbiamo), che tuttavia è imposta obbligatoriamente senza limiti; agli occhi degli immigrati, e di molti nativi marginali, la società «normale» – dove il consumismo è eretto a valore dominante ed unico – è illegittima, sicché la delinquenza ha motivo di auto-giustificarsi quindi, rafforzarsi e conquistare nuovi addetti. La legge e il diritto hanno perduto definitivamente ogni prestigio agli occhi dei cittadini e dei nuovi arrivati, come anche delle classi dominanti che sanno troppo bene come le leggi vengono «fabbricate» nei Parlamenti o, peggio, dalle lobbies d’affari a Bruxelles. La costruzione troppo artificiale e burocratica della «casa comune» ha portato al suo contrario: una prigione di gruppuscoli fra loro ostili, e peggio, la crescita di una «società antisociale», di una società senza volontà, incapace di incanalarsi verso una qualunque etica comune.

«Ogni crisi è fondamentalmente una crisi di coscienza», diceva trent’anni fa Yves Le Gallou, intellettuale francese: «Il rifiuto, o l’incapacità morale, di riconoscerla annuncia il nostro declino». È appunto questo lo scacco della UE, delle sue tecnocrazie, dei suoi miliardari, dei suoi politici irresponsabili e parassitari: l’incapacità morale di vedere che il disastro, la disgregazione, è nata da loro, dal «progetto europeo» stesso.

Ma nulla unisce davvero noi europei? Ah sì, qualcosa c’è: dovremo pagare il conto dei farabutti ucraini e i piatti rotti dai loro complici americani nell’Est europeo. Per esempio, quest’inverno non abbiamo altra scelta che pagare le bollette del gas e petrolio agli ucraini per evitare che ci rubino il gas russo che è destinato a noi europei, e che la Russia ci fornisce, forzatamente, attraverso il territorio dello Stato-canaglia di Kiev. Siamo noi che paghiamo il costo delle sanzioni decise dagli USA, e siamo sempre noi che paghiamo il riscaldamento degli ucraini mentre loro fanno le sfilate naziste, e i loro oligarchi rubano a man bassa. Contenti? Qualcosa abbiamo in comune.

E la stessa crisi – crisi di disgregazione, ostilità e ognun-per-sé – avviene nel vasto mondo, e avviene precisamente a causa del progetto grandioso che, secondo la propaganda, doveva curare tutti quei mali: la globalizzazione. La formazione del mercato unico globale avrebbe creato l’interdipendenza; le nazioni, diventando dipendenti le une dall’export delle altre, non avrebbero più potuto farsi la guerra; il mercato unico avrebbe dato origine quasi naturalmente al Governo Unico Mondiale...pace, pace. E fine della storia, finalmente.

Pace? Washington – la promotrice del Mercato Globale – s’è messa a 1) occupare l’Afghanistan per catturare Bin Laden; 2) distruggere l’intero Iraq fino a portarlo all’età della pietra, e ridurlo a un’arena di sangue e di attentati dove sunniti dissanguano sciiti, sciiti esplodono sunniti, kurdi si battono contro il sorprendente Califfo... e tutto perché Saddam Hussein aveva le armi di distruzione di massa. 3) Portato le primavere arabe in Tunisia, Libia, Egitto, con tanta soddisfazione dei popoli coinvolti; 4) Tentato di rovesciare il regime laico in Siria con terroristi islamisti, e tentato ancor oggi quando in teoria combatte quei terroristi islamici che prima aveva armato; 5) Liberato la Libia da Gheddafi a suon di bombardamenti umanitari, rendendola il luogo del caos sanguinario permanente e del benessere perduto per sempre; 6) En passant, piazzato sistemi missilistici sempre più a ridosso delle frontiere russe, e imposto sanzioni alla Russia; 7) Sovvertito l’Ucraina; 8) ogni tanto (dipende dai segretari di stato in carica) minacciato di bombardare l’Iran; 9) da ultimo, ricominciato a bombardare la Siria e l’Iraq, più precisamente quelle parti di Siria e Iraq conquistate oggi dal Califfato, che è un golem di fabbricazione USA, ora elevato al rango di nemico mondiale numero uno. 10) di recente, tentato di cambiare il regime in Brasile, con lo scopo di staccare il Brasile dai BRICS, a forza di provocazioni e con una campagna di diffamazioni contro la donna che ha vinto le elezioni, Dilma Roussef...

Se ne stupisce Tyler Durden di Zero Hedge: « Finiti per sempre i giorni in cui Putin e Bush si stringevano la mano, in cui la Cina prestava agli americani (comprando i titoli del debito pubblico Usa) i soldi per comprare le merci cinesi; finito il mercato ricco europeo». È che gli USA hanno fatto finire tutto, persino la neutralità militare del Giappone (che hanno aizzato contro la Cina), e la tradizionale subordinazione dell’Arabia Saudita che adesso fa le sovversioni e le invasioni per conto suo.

Qualche critico ha concluso che la guerra è probabilmente lo stato normale, il fondamento costitutivo degli Stati uniti, e della globalizzazione secondo Washington. Sulla rivista Rivarol, un certo «Hannibal» rievoca il modo speciale in cui gli Yankee fanno la guerra, fin dalla guerra di secessione: bombardano le fabbriche e le vie di comunicazione, bruciano le città, bloccano i porti. Come disse nel 1991 il Segretario di Stato Baker a Tarik Aziz, il cristiano Ministro di Saddam: «Non è che vogliamo debellare l’esercito iracheno, vogliamo portare l’Iraq indietro di 25 secoli». E ci sono riusciti. La guerra americana è per definizione, dunque, contro i civili: affamarli, concentrarli in campi (l’hanno imparato dai britannici, guerra anglo-boera), bruciarli col fosforo nelle loro case, incenerire le città, le fabbriche che danno loro lavoro, come minimo imporre sanzioni che rendano impossibile importare medicinali.

Ci sono dei virtuosismi bellicisti che spesso tendiamo a dimenticare: per esempio, negli anni ’50, Washington finanziò ed armò i Viet Mihn (futuri Vietcong, comunisti) che stavano combattendo contro i francesi in Vietnam. Cinque anni dopo, inaugurata la guerra fredda e finita la bella collaborazione (antinazista) con Stalin e Mao, Washington finanzia i francesi perché tengano il Vietnam, cosa ormai impossibile avendo compromesso la situazione di Parigi; altri dieci anni, e saranno loro, gli americani, sostituiti i francesi come volevano, ad affondare nella palude Vietnam, a sterminare e farsi sterminare dai Viet Mihn che avevano pagato ed armato tre lustri prima.

È un’abitudine, scopre «Hannibal». Nel 1953 gli USA firmano con l’Arabia Saudita (wahabita) e il Pakistan (estremismo Tablighi) un patto a tre per la stabilità della regione e la fornitura sicure di petrolio. Il patto istruisce i sauditi a diffondere il wahabismo e pagare i terroristi islamici contro i regimi laici dell’area, il Pakistan diffonderà la sua versione di estremismo. Verrà bene quando i sovietici entrano in Afghanistan a sostenere il regime comunista di Kabul: allora gli studenti islamici addestrati dal Pakistan, i Talebani, con il sostegno fiammeggiante del saudita Osama bin Laden, prendono il potere con la benedizione di Washington. Non dura molto: dopo l’11 settembre i Talebani, subitamente cattivi, devono essere cacciati con un’invasione americana, e Bin Laden assurge al rango di nemico pubblico numero uno.

A voler sottilizzare, si scopre lo stesso modus operandi nel passato. Nel 1914, i banchieri americani (Schiff, Warburg, Kuhn & Loeb) finanziano il cambio di regime nella Russia zarista sostenendo, pagando ed assistendo i bolscevichi; 35 anni dopo, l’America troverà il suo nemico principale, di cui ha tanto bisogno, nell’URSS staliniana. Ma naturalmente dopo essere andata d’accordissimo con Stalin per la distruzione totale della Germania – pardon contro Hitler. il mostro del momento. Andavano a tal punto d’accoro, che prima di morire Roosevelt stava preparando la conferenza di San Francisco, che avrebbe sancito definitivamente il condominio americano-sovietico sul mondo, e specialmente dell’Europa, privata di sovranità, dei suoi Imperi coloniali, in una parola di eliminarla come entità politica potenzialmente competitiva, e ridurla a semplice mercato di import-export, pieno di basi militari del padrone. E adesso, eccola contro la Russia a staccarla dall’Europa con cui si stava pacificamente integrando, armando e finanziandogli estremisti ucraini, e ordinando agli europei di pagare il conto.

«Ma perché fate questo?», ha chiesto Putin agli americani nel suo storico discorso al Valdai Forum, «perché segate il rami in cui siete seduti, obbligando noi a diverse contro-misure contro di voi, fra cui la de-dollarizzazione?».

È la domanda di una persona ragionevole di fronte al pazzo globale super-armato, che moltiplica i disastri coi suoi interventi internazionali. Soprattutto, è l’osservazione di una persona realista, che non capisce quello che è la «guerra americana» feroce contro i civili, continua e devastatrice e caotica, persino auto-distruttiva, ma inarrestabile, è una guerra «rivoluzionaria», volta al trionfo di un’ideologia forsennata almeno quanto quella di Lenin.

Hannibal, che ha studiato la Rivoluzione Francese, lo capisce meglio. Ricorda che nell’Anno II di detta Rivoluzione – l’anno del colpo che pose fine alla dittatura di Robespierre – le prime vittorie delle armate rivoluzionarie di sanculotti contro i Governi europei furono salutate, dai superstiti rivoluzionari del Terrore Robespierrano, come il trionfo della imminente «repubblica universale». Il militarismo era sentito da costoro come l’esportazione dei princìpi giacobini al mondo intero. Ora, «repubblica universale e governo globale, sono due espressioni della stessa cosa», conclude Hannibal. Dall’inizio della rivoluzione americana, con i mezzi della superpotenza, fa la guerra e semina il caso per promuovere «un Governo mondiale che organizzerà un potere d’apparenza democratica e di principii massonici».

È la mistica dell’espansione della democrazia: armata, azzeratrice di civiltà, e benedetta da Wall Street.




1) Il britannico Cameron aveva proposto una qualche modifica di Schengen, ossia un limite alle frontiere aperte a tutti e ciascuno, che risucchia negri africani fin nella Manica. La Merkel non vuole cambiare Schengen. O meglio, se deciderà, sarà lei a cambiarlo, e allora imporrà la riforma a tutti noi.


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