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L’inviato speciale, prima delle telecom
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«Caro direttore,

sono un giovane di 33 anni
, ho fatto il liceo classico e sono laureato in filosofia. Attualmente svolgo lavori saltuari di supplenza (quando mi chiamano) soprattutto in scuole private; il mio sogno è diventare giornalista, possibilmente inviato speciale e le invio un curriculum a parte nella speranza possa fare qualcosa per me. Lei una volta ha scritto che Montanelli scriveva pezzi magnifici come inviato speciale senza uscire dallalbergo (per esempio durante la guerra in Finlandia) e che poi larrivo delle televisioni (con la guerra di Ungheria) cominciava a rendere ardua questa modalità di approccio alla professione. Internet e i telefoni portatili ci sono da relativamente pochi anni; come comunicava linviato col suo giornale prima dellavvento di queste tecnologie?

Con ammirazione

Massimiliano M



C’è davvero un fenomeno per cui posso ripetere la celebre frase: «… Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare». La cosa che il lettore non può, anzi che nessuno potrà più immaginare, è il mestiere dell’inviato speciale prima del cellulare e del computer portatile.

Ho fatto parte della generazione che inviata in una zona di crisi, ancora partiva con la Lettera 22 Olivetti (pesantissima) e senza un telefono in tasca, perchè ancora non c’erano. Dunque, un’ossessione: telefonare il pezzo. Era un incubo che nessuno può nemmeno immaginare, oggi che si parte col notebook con satellitare incorporato: essere in grado di dettare il pezzo alla redazione a Milano.

Africa, Libano, Yugoslavia, Albania, si piombava in albergo (era questo il motivo per cui si sceglievano hotel di lusso, o almeno internazionali) e si sollevava il telefono in camera per verificare che funzionasse. Per lo più, non funzionava, o serviva solo a chiamare un’altra camera nello stesso albergo. Le linee esterne erano difficili, con l’estero, per lo più, morte. Sudando freddo, si cominciava a domandare in giro, a colleghi, come se la cavavano loro. Ci si metteva insieme a caccia di un posto telefonico funzionante; si implorava l’ambasciata d’Italia per avere un aiutino (risposta di solito seccata e negativa, oppure: il signor ambasciatore è in ferie...); negli alberghi di lusso si provava a convincere, dietro congruo pagamento, il telescriventista a lavorare per noi fuori orario (cosa difficile, che diventava impossibile quando questi doveva scrivere il nostro pezzo, in una lingua a lui sconosciuta); più facile che ci lasciasse picchiettare il nostro pezzo su una telescrivente in stand-by, la quale trasformava il pezzo in un nastro di carta perforata da spedire in seguito.

In certe cittadine yugoslave, ricordo, il solo posto per telefonare all’estero era l’ufficio postale, che ferreamente chiudeva alle 2 del pomeriggio. Convincere le arcigne signore allo sportello a riaprire l’ufficio alle otto di sera era un’impresa di corruzione e di corteggiamento, che qualche volta riusciva e qualche volta no… In un modo o nell’altro si riusciva a chiamare Milano o Roma e a dettare, a volte grazie ad una scrivania di una compagnia di import-export che aveva la linea, in piedi in corridoi di case private a cui si offrivano compensi principeschi, altre volte in modo che non voglio ricordare o che ho cancellato dalla memoria (mi hanno tolto anni di vita e di salute).

A Bucarest, alla caduta di Ceausescu, l’albergo di lusso (non ne ricordo il nome, solo la hall cavernosa, con velluti rossi incrostati di polvere d’età staliniana) aveva sì un telefono abilitato con l’estero: uno solo però, piazzato nella hall cavernosa, sotto una lampadina a 20 candele. Ci si metteva in fila per dettare, una fila indiana alle otto di sera, e tutti sentivano quello che si gridava allo stenografo di redazione (una figura oggi scomparsa, come del resto i linotipisti, entrambi distrutti dalle nuove tecnologie).

Anche dettare il pezzo era un esercizio a sè a suo modo estenuante: per quanto velocemente si dettasse, un articolo prendeva sempre da15 a 20 minuti, il che faceva salire alle stelle il costo della telefonata. Lo stenografo doveva capire al volo, specie i nostri spelling a mitraglia dei nomi stranieri: «Il mediatore americano Roma Imola Como Hotel Ancona Roma Domodossola Hotel Otranto Livorno Bari Rovigo Otranto Otranto Kursaal Empoli…», si gridava tutto d’un fiato, e lo stenografo decodificava «Richard Holbrooke». Si pensi un po’ un articolo in cui i nomi stranieri erano una decina. Si usciva dalla dettatura tutto un sudore e con una fame da lupi (credo fosse l’effetto collaterale dell’uso prolungato di toni stentorei).

Quando è cambiato tutto questo? Secondo i miei ricordi personali, durante l’assedio di Sarajevo. Ci sono stato inviato molte volte, per lo più atterravo all’aeroporto (tenuto dall’ONU) e poi cercavo un passaggio sui mezzi blindati dell’ONU (in realtà, della Legione Straniera) per penetrare in città;
l’attesa del mezzo blindato con un posto per un civile poteva durare giorni, nei casi peggiori. Una volta arrivati, noi inviati prendevamo alloggio all’Holiday Inn, parzialmente bombardato, dove non funzionavano più gli ascensori e l’acqua non usciva più dai rubinetti, ma funzionava – a cura del governo Izetbegovich – una specie di mensa per giornalisti. Telefonare era difficile o impossibile, a volte si penetrava a Sarajevo, ci si stava due o tre giorni, poi si doveva uscire per telefonare i pezzi.

In uno di questi arrivi, non ricordo bene quando, i colleghi mi informarono che ora a Sarajevo c’erano due telefoni satellitari. Uno era del governo, aperto al pubblico in certe ore (alle 4 del mattino, ad esempio), ovviamente con precedenza ai cittadini assediati, e si facevano pagare solo 4 marchi al minuto. Altrimenti c’era il satellitare dell’agenzia Reuters, felicemente installato in una suite dell’Holiday Inn stesso. Anche lì c’erano code, ma meno che presso l’apparecchio governativo, perchè facevano pagare 18 marchi tedeschi al minuto. Dettare un pezzo costava dunque sui 200-250 marchi, e i malvagi operatori Reuters accettavano solo contanti (secondo me, se li intascavano).

Comunque, andando nelle stanze della Reuters, ebbi l’occasione di vedere il primo satellitare della mia vita. Lo so che oggi non mi si può credere, ma era una grossa valigia Samsonite aperta su un letto senza materasso, irta di manopole e quadranti; gli operatori Reuters stavano presso una scrivania per operare l’apparecchio, imbacuccati nel gelo – perchè c’era un’antenna ad ombrello che doveva per forza essere piazzata sul davanzale, e la finestra non si chiudeva.

La Reuters aveva dovuto affittare anche una stanza contigua, per piazzarvi un motore Diesel generatore di corrente, per far funzionare il satellitare; il generatore non poteva restare là dove agivano gli operatori, perhè li avrebbe asfissiati; ma bastava ad impestare di gasolio tutto il piano; tuttavia serviva anche a ricaricare batterie di telefonini, computer ed altri apparecchi. Potei comunque dettare i miei pezzi quasi dal vivo, spendendo migliaia di marchi; il satellitare-Samsonite, nonostante le sue dimensioni, non inviava dati, solo voce.

Pochi mesi dopo – era quasi primavera – il giornale mi rimandava a Sarajevo. Stavolta, la segreteria di redazione mi fornì di un satellitare proprio: un oggetto dell’apparenza di un notebook, (ma molto più leggero), la parte superiore era di fatto l’antenna, che andava orientata verso un preciso satellite (una bussola incorporata, e le istruzioni, aiutavano nella bisogna); dentro c’era la cornetta di un telefono, si poteva chiamare la redazione e – incredibile dictu – inviare i pezzi collegando il satellitare al computer: invece di 15-20 minuti di dettatura, 15 secondi di trasmissione dati.

In pochi mesi, le dimensioni si erano ridotte enormemente, e l’efficacia pratica enormemente aumentata. Poi ci sono state altre versioni, con l’intesa evidente di trasformare un satellitare, dimensioni e uso, in un cellulare. Ricordo un primo aggeggio del genere di cui la segreteria mi dotò per andare in Afghanistan: si chiamava Iridium, era grosso come una mezza dozzina di cellulari, aveva persino un treppiede incorporato per tenerlo verticale al suolo o su un piano d’appoggio; doveva captare tre satelliti contemporaneamente e non ci riusciva mai, perchè uno dei tre era sempre appena sotto l’orizzonte (specie se dovevi trasmettere da un cortile afghano, a 10 sottozero, e l’orizzonte era il muro di cinta); non riuscii mai a trasmettere dati, si doveva tornare a dettare. Per fortuna, Iridium è fallito, ed ora effettivamente un satellitare non è molto diverso da un normale cellulare.

Da allora la vita dell’inviato è cambiata in modo che chi non ha vissuto prima non può nemmeno immaginare. Ora, non c’è più bisogno di contattare ansiosamente i colleghi che ci sono già stati (Afghanistan, Timor Est, tsunami indonesiano) per chiedere loro come si telefona. Si parte con il laptop e il proprio satellitare, gonfi di un senso di autosuffcienza e di libertà che nessuno che non abbia vissuto il mestiere prima conoscerà più.

L’autosufficienza ha cambiato il senso del mestiere anche per le direzioni dei giornali, e non sempre nel modo giusto: mandando l’inviato a Kabul si aspettano il primo pezzo dopo quattro ore, come se lo avessero mandato a Catanzaro. Altre volte, l’autosufficienza telecomunicativa dà un senso di potere e di libertà mal riposto – di cui probabilmente è stata vittima la Cutuli (1). In certi posti, la segreteria crede di aver fatto tutto dando all’inviato laptop e satellitare, invece doveva dare anche un elicottero e una scorta armata. E nell’insieme, non direi che la facilità dei mezzi, con tutto il tempo che fa risparmiare e la calma che instilla, si traduca in un miglioramento profondo degli articoli giornalistici.

Il tempo risparmiato dalla ricerca di un telefono è stato divorato dalla concorrenza, che ti sta sul collo ed ha anche lei i suoi satellitari in tasca; tempo per riflettere, ce n’è sempre meno, e meno per scrivere posatamente.





1) Nel novembre del 2001, mentre Maria Grazia si trovava nei pressi di Sarobi, sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, a circa 40 chilometri dalla capitale afghana, lì per conto de Il Corriere della Sera, venne uccisa in un attentato, forse causato da un gruppo di talebani, con l’inviato di El Mundo Julio Fuentes e due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.



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