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Etnicismi e imperi
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«Se 3,7 milioni di georgiani etnici hanno il diritto di staccarsi dai 142 milioni di persone della Federazione Russa, perchè non dovrebbero 100 mila osseti abitanti in Georgia staccarsi anch’essi, e formare il proprio Stato? La maggior parte di loro ha passaporto russo e non vuol avere a che fare coi georgiani. Gli osseti parlano da un millennio una variante del persiano, e hanno avuto un regno nel Medio Evo...».

Buona domanda del personaggio che si firma «Spengler» su Asia Times (1). Dove finisce la regressione verso i particolarismi etnici? Dove porre il limite? Quali secessionismi sono da incoraggiare e quali no?

Questo è uno dei problemi più insolubili del diritto internazionale, problema che l’Occidente ha risolto caso per caso in base al tornaconto, con infinita ipocrisia e gran consumo di politicamente corretto.

Certe volte - come nel caso degli Osseti - si insinua che la popolazione troppo esigua fa mancare il diritto alla secessione. Ma la NATO ha bombardato la Serbia per strapparle il Kossovo (2 milioni di abitanti), ma non fa la guerra alla Cina per la libertà del Tibet (5,4 milioni, con una propria cultura profondamente diversa da quella cinese), e men che meno per il buon diritto degli uiguri, musulmani di lingua turca, che sono decine di milioni e subiscono l’oppressione e la pulizia etnica degli han, i cinesi maggioritari. I curdi, minoranza repressa in tre Stati, non vedono parimenti riconosciuti i loro «diritti».

E’ politicamente corretto, da qualche decennio, «rispettare» le etnie, le «specificità». E per «rispettare» s’intende, più o meno, che ogni etnia ha diritto ad avere il suo proprio Stato. Con ciò, si apre il vaso di Pandora delle divisione corpuscolare all’infinito, la scissione degli Stati, che significa il ritorno allo stato tribale o - più ipocritamente e modernamente in Europa - ai «diritti» di gruppi d’interesse localistici.

Una futura, ipotetica Padania non ci metterebbe molto ad assistere alla secessione dei veneti; i croati costieri di Dalmazia e quelli sulla Sava sono diversi abbastanza, per mentalità ed esposizione al vasto mondo, da «giustificare» una futura suddivisione. La Dalmazia non è mai stata croata, essendo abitata da italiani parlanti veneziani; c’è voluta una feroce pulizia etnica per creare la «nazione-Stato».

Perchè gli etnicismi sono anche questo, irriducibili razzismi che perseguono con deportazioni una irraggiungibile purezza identitaria.

Il fenomeno - per quanto gli etnicismi e secessionismi amino esibire loro radici in un passato remoto, e per lo più fantastico - è essenzialmente moderno, anzi post-moderno. Non è un fenomeno «originario», bensì il risultato della degradazione degli Stati di diritto, della caduta di ogni autorità, e più precisamente dello smarrimento delle ragioni per cui gli Stati nacquero: riunire ed unificare quante più genti possibile, per «fare qualcosa di grande insieme».

Il feroce secessionismo basco si è manifestato solo nel ‘900; nel mezzo millennio in cui la Spagna ebbe e governò un impero dalle Americhe alle Filippine, i baschi parteciparono all’impero come soldati, navigatori, mercanti, come tutti gli altri.

Il più mellifluo e benigno separatismo scozzese si è manifestato in anni recentissimi, e non se n’era sentito parlare finchè l’Inghilterra ebbe il suo impero mondiale.

La caduta dello scopo, e delle grandi prospettive, produce separatismi: che così manifestano la loro radice meschinamente egoista.

E’ lo stesso fenomeno che cresce anche nelle società: ogni individuo si vuole «Stato sovrano», vuole perseguire «i suoi diritti» che sono per lo più piaceri privati: così cose come «i diritti degli omosessuali» o le rivendicazioni «delle donne» o il diritto all’eutanasia e o all’aborto, diventano un argomento politico, quale non erano mai stati («Politico» viene infatti da «polis», la città e la comunità, non la cura degli interessi privati pullulanti e infiniti, irriducibili ad unità).

Su Radio Radicale, collettore fognario di tutte queste rivendicazioni regressive, ho sentito che s’è formato un gruppo che pretende come «diritto» di potersi risposare, dopo il divorzio, senza attendere i tre anni previsti dalla leggeitaliana: veniva avanzato il caso particolarissimo di un tizio che s’è unito ad una extracomunitaria, e non può ottenere per lei il passaporto se non fra tre anni, quando potrà sposarla. Radio Radicale annuncia un progetto di  legge. Con tanto di appello al presidente della repubblica, per ridurre i tre anni a un mese: persino questo è diventato un tema «politico».

Il sintomo non può essere più chiaro: non abbiamo più niente da fare. Niente da fare come popolo. Niente di grande.

La colpa primaria è ovviamente delle classi dirigenti che gestiscono la sovranità: in qualche modo, sono queste a fare per prime secessione dal popolo, e dal destino comune; non si curano più di indicare la cosa grande «da fare assieme». Senza ordini dal comando, la truppa si sbanda, ognuno torna a casa, alla capanna tribale.

Ma la tribalizzazione che ne segue, i particolarismi che via via ottengono «riconoscimento» e «diritti» e «autonomie», sono un disastro immedicabile: perchè configurano una caduta di visione e di cultura (come quando si passa da una lingua storica e letteraria a un dialetto, in cui è impossibile esprimere concetti filosofici o scientifici), e trascinano ad un regresso complessivo della civiltà; in una parola, se non frenati, ci portano alla barbarie.

Per convincersene basta viaggiare in Africa: dove ogni trenta chilometri una tribù diversa parla una lingua completamente diversa da quella vicina, e con cui è in guerra da sempre; il tribalismo africano, che mette i Paesi africani alla mercè delle potenze unitarie della Terra, e li abbandona al saccheggio delle Sorelle petrolifere o minerarie, non è originario, è ciò che resta di antichi imperi unitari, il detrito finale. Ma nulla riesce a ricondurre ad unità quei detriti.

Secondo me, l’Italia è appunto avviata verso questa regressione.

Il secessionismo parolaio lumbard è solo buon ultimo, viene dopo secessioni già compiute di fatto: per non parlare di quelle di Aosta e dell’Alto Adige, basta ricordare quelle irpine e calabresi, sicule e lucane e campane; dove il malaffare che impera è «l’autogoverno» della «nostra» tribù, e dove arretra persino la lingua comune, e i dialetti - basta andare a Napoli - ridiventano sempre più spessi e più ermetici per chi viene da fuori.

Naturalmente, in dialetto non si può far nascere nè filosofia nè scienza, nè religione nè cultura alta (Giambattista Vico, napoletanissimo, scriveva in italiano); ma questo non importa, la tribù non ha ambizioni di «fare cose grandi», ed è questo l’arretramento più fatale: il rimpicciolirsi delle menti, l’immeschinirsi nel «locale» e nel «vernacolare», la mozzarella, il «mangiare», il caciocavallo, il tifo calcistico (è secessionismo anche questa «appartenenza» frenetica e divorante  alla «squadra del cuore», la vera patria per cui molti italioti sono disposti ad uccidere), la mazzetta, il pizzo. Le urla biascicate di Bossi stanno sullo stesso piano, d’accordo. Ma ciò non consola.

Oltretutto, mettersi sulla via delle rivendicazioni identitarie oggi, con il Paese affollato di immigrati, ci prepara un futuro che andrà a tutto danno degli italiani.

Una volta affermata la cosiddetta «etnia padana», poniamo, con quale diritto si rifiuterà il riconoscimento delle piccole comunità nazionali che qua e là stanno per diventare minoranza? Come non riconoscere ai romeni il diritto di avere scuole romene (oltretutto migliori delle nostre) in lingua romena? E ai musulmani quello di esprimere la loro «specificità»? E poi, bisogna vedere quali: i tunisini accetteranno di stare in unità coi marocchini e i senegalesi?

Non c’è in vista una fine alla divisione della materia umana; c’è sempre una «ragione» per non andare d’accordo.

Oggi è impossibile ricordare che, dai secoli di Roma fino alla prima guerra mondiale, il «politicamente corretto» dettava il contrario. Dettava l’integrazione, la chiamata universale a partecipare al destino comune indicato dallo Stato, l’insegnamento di una lingua unitaria, e soprattutto, il diritto, che è il meccanismo unificante per eccellenza: non conosce nè maschi nè femmine, nè omo nè etero, nè negri nè bianchi, ma solo «cittadini» con certi diritti politici e certi doveri, uguali per tutti.


Roma seppe risolvere l’insolubile problema, attaendo a sè le «gentes», contemperando una forte autonomia delle «nazioni» (etniche, biologiche) con la cittadinanza comune, che apriva senza discriminazioni alle cariche pubbliche. Con ciò, liberava anche dall’etnicismo chi voleva esserne liberato - perchè l’etnicismo è una catena di costumi, a volte aberranti - con il sempre possibile ricorso a Roma, ossia al diritto universale naturale: come San Paolo, perseguitato dagli ebrei, ricorse a Roma.

La lingua offriva l’accesso ai giudici giusti, alle carriere, la milizia nell’esercito apriva le porte alla cittadinanza dei provinciali, e soprattutto alla cultura universale ellenistico-romana. Che allargava le menti, le apriva contro le chiusure vernacolari, i pregiudizi identitari.

Ciò fu perseguito anche con brutalità estrema nella «citoyenneté» post-rivoluzionaria. Nessuna piange sulla Vandea monarchica, vittima di un genocidio spaventoso; eppure la Vandea aveva più fondate ragioni di secessione che i padani, o dei calabresi che si autogovernano con la N’drangheta.

Gli stati del Sud avevano diritto alla secessione, e serii motivi, culturali e spirituali, per reclamarla; eppure, il giudizio «politicamente corretto» sulla guerra di secessione americana dà ragione a Lincoln, agli Sati del Nord industriali che hanno stroncato la valorosa secessione sudista.

Su RAI nei giorni scorsi è andata in onda la lagna sulle «atrocità» commesse dagli italiani nelle colonie, in Libia e in Etiopia; si è taciuto che gli inglesi fecero di peggio in India (informatevi con quali stragi fu stroncata la rivolta dei Sepoy, negli anni ‘50 dell’Ottocento); che i francesi in Vietnam trattavano quel popolo civile, letteralmente, con la frusta nelle piantagioni; che i belgi commisero mostruosità schiavistiche indicibili nel Congo. Senza nemmeno la pretesa italiana, che mirò almeno nelle intenzioni a «portare la civiltà», ad integrare.

E tuttavia, anche fra le atrocità, ciò che è stato lasciato dai colonialisti europei ai Paesi che dominarono ha un valore universale: l’India, proprio perchè ha una grande antica cultura, con l’indipendenza non ha getttato via l’inglese, comprendendo benissimo che esso apre l’accesso al vasto mondo del pensiero, della cultura, delle classi al potere mondiale. Al contrario, l’Algeria ha gettato via il francese - il solo patrimonio gratuito lasciato dai francesi - chiudendo la sua gioventù ad infinite possibilità di crescita, a prospettive mondiali, condannandola nella prigione identitaria, da ultimo nel retrivo estremismo islamista.

La verità è forse questa: non tutte le «nazioni» meritano di farsi Stato, di avere la sovranità, non foss’altro per la ragione che non sono capaci di autogoverno, non sanno reggersi con dignità  e indipendenza nel mondo.

I kosovari, ad esempio: sì, potevano e dovevano essere sottratti al tallone di Belgrado, ma non per questo si doveva accontentare la loro pretesa di indipendenza. E lo prova il fatto che, immediatamente, a prendere il «governo» del Kossovo è stata la criminalità organizzata, trafficante in droga e donne, che prospera sotto il protettorato reale americano. I ceceni hanno dimostrato fin troppo bene che la loro pretesa di indipendenza è assurda, facendosi guidare da cosce delinquenziali.

Non lo dico per disprezzo razzista: dubito che l’Italia stessa sia capace di governarsi da sè, non per caso è stata semppre divisa e soggetta a poteri stranieri, che spesso gli italiani hanno chiamato perchè li aiutassero nella sola guerra che amano, la guerra civile, contro il nemico interno. Lo stesso vale per le regioni nostrane che si danno nelle mani delle camorre e delle mafie, e chiamano questo «autonomia».

Fino ad ieri, si capiva e si poteva dire che l’accontentare le etnie e le paturnie tribaliste era solo portatore di disordine, instabilità e delinquenza.

Nel 1919, Loyd George cercò di opporsi alla pretesa polacca di incamerare Danzica, città da sempre tedesca, strappata alla Germania sconfitta, con queste parole: «La proposta della commissione polacca, secondo cui noi dovremmo mettere due milioni di tedeschi sotto il controllo di un popolo (...) che non ha mai dimostrato in tutta la sua storia la capacità di autogovernarsi in modo stabile, è destinata a provocare prima o poi una nuova guerra nell’Est europeo».

Nonostante tutto, gli alleati, ciechi e faziosi, diedero Danzica alla Polonia. E nel ‘39 accadde esattamente ciò che Loyd George aveva previsto. Ma almeno, allora, si poteva ancora scrivere, in un memorandum diplomatico, che la Polonia (come l’Italia) «non ha mai dimostrato la capacità di autogovernarsi in modo stabile» - parole supremamente politically incorrect, che oggi sarebbero impensabili.

Infatti la Polonia, di nuovo «sovrana», appena uscita dal protettorato sovietico, s’è messa sotto protettorato americano. E già comincia a provocare una nuova guerra nell’Est europeo, accettando i missili contro Mosca.




1) Spengler, «Putin for US president - more than ever», Asia Times, 13 agosto 2008. Secondo Spengler, paradossalmente, «la rapida e decisive azione di Putin in Georgia ha mostrato precisamente quella capacità decisionale - e quel pensiero strategico - di cui ha bisogno l’America».  In Georgia «non era in questione nessun fondamentale interesse americano», mentre interessi fondamentali per la Russia erano in gioco; e la Russia ha agito con una chiara visione dei suoi interessi fondamentali (Ma sappiamo che l’America non risponde più ai suoi interessi, bensì a quella del piccolo popolo). Tuttavia Spengler ha qualche ragione quando nota: «Metà della popolazione mondiale oggi abita nei tre maggiori Stati del mondo, Cina, India e Stati Uniti. Questi non sono Stati multi-etnici, bensì supra-etnici, la cui identità trascende tribalismi e nazionalità».
E’ la definizione degli imperi: sopra-nazionali e non pluri-etnici.
Ma ovviamente la Cina - non avendo conosciuto Roma - è uno Stato essenzialmente razziale, basato sull’oppressione dell’etnia Han sopra le altre. Non a caso, alle Olimpiadi, la parata delle minoranze etniche nei loro costumi nazionali era composta -- ridicolo - tutta da individui han. Tuttavia, ancora Spengler non ha torto quando aggiunge: «Il numero di punti da cui può conflagrare la violenza mondiale è aumentato in proporzione inversa alla loro importanza: il mondo è pieno di tribù non-morte con illusioni di grandeur, e di popoli in via di estinzione che preferiscono andarsene con uno scoppio anzichè con un sospiro. Gli Stati sopra-etnici hanno un comune interesse a contenere le mascalzonate che possono essere compiute da questi perdenti». Naturalmente, «Spengler» essendo ebreo e neocon, incita Cina, Russia, USA e India ad unirsi nella lotta all’Islam. «Se l’America vuol recuperare dalla sua umiliazione nel Caucaso, dovrebbe per esempio sferrare un attacco aereo contro le fabbriche nucleari dell’Iran». La solita ossessione etnicista ebraica. I grandi Stati del mondo dovrebbero  mettere le loro armate al servizio della ultima, microscopica, essenziale «tribù non-morta con manie di grandezza», la Casa di Giuda.


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