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Ecco l’Europa. Poveri noi.
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«L’Europa ridiventa ciò che è: potente nei sogni, impotente in verità». Il titolo di Les Echo è il miglior commento al cosiddetto vertice dei 4 grandi europei per «salvare il sistema bancario», concluso con un ridicolo e tragico nulla di fatto.

La proposta di Sarkozy, di creare un fondo di 500 miliardi di euro di salvataggio, è stata colata a picco - in primo luogo - dalla Germania. Angela Merkel - un’altra comunista che non cita Marx, una ex della Statsi che deve farsi vedere più liberista di Bush - ha detto no perchè nella proposta di Sarko sospetta (come tutti i tedeschi, a dire il vero) un trucco dei «latini indebitati», il cosiddetti Club Med (Italia, Spagna, Grecia e Francia) per farsi salvare dai contribuenti germanici. Ogni nazione salvi le sue banche, ha proclamato. «Chi ha fatto il danno, paghi».

Forse la Merkel non era stata avvisata in tempo di cosa sono piene le banche tedesche. Le credeva sane, la vecchia spia della Stasi, neofita del capitalismo terminale. Subito, ha dovuto bruciare 20 miliardi di euro, e alla fine ne dovrà bruciare un centinaio dei contrbuenti tedeschi per cercare di salvare la Hypo Real Estate, uno di quei colossi germanici, che è esposto per 400 miliardi di euro.

Si noti: 400 miliardi di euro sono i 700 miliardi di dollari del piano Paulson, pensato per l’intero sistema americano e bastano appena (se bastano) per una singola banca europea. Il salvataggio dell’Hypo, ammesso che riesca, costerà ai contribuenti tedeschi il 4% del loro PIL nazionale. Quello delle banche USA e Wall Street costerà almeno l’8% del PIL americano.

E poi ci raccontavano che il liberismo è efficiente, che non spreca capitali. E quante volte ci sentiamo ripetere in questi giorni che le banche europee sono sane, che non sono come quelle USA?

La UBS ha attivi (esposizioni) per 5 volte il prodotto interno lordo svizzero (il 484%) la ING per tre volte il PIL olandese (290%), che va aggiunto al 121% della Rabobank olandese. La banca Kaupthing in Islanda ha esposizioni pari a 6 volte il PIL islandese, è in crisi e può spargere la sua crisi sulla Gran Bretagna: questa banca islandese che si è molto «allargata» all’estero, detiene conti correnti di 150 mila cittadini britannici (L’Islanda ha in tutto 320 mila abitanti). Insomma nessun Paese da solo può salvare le sue proprie banche, che si sono indebitate per più volte il prodotto nazionale.

E’ dubbio che basti l’intera Unione; ma il peggio è fare, come la Merkel, il «ciascuno per sè», specie avendo una Deutsche Bank esposta per l’equivalente del PIL nazionale. Si tenga presente che l’esposizione delle tre più grandi banche americane, tutte nei guai fino al naso, è «solo» il 35% del PIL americano.

E’ proprio vero che l’Europa è più solida, come ci ripetono?

Due giorni fa, la Merkel aveva rimproverato col ditino alzato l’Irlanda, colpevole di aver garantito i depositi dei risparmiatori nelle banche irlandesi (il solito sospetto tedesco: lo fanno con l’euro, quindi coi soldi nostri); due giorni dopo, la Merkel imita l’Irlanda ed estende le stesse garanzie sui depositi nella banche tedesche.

Il ciascuno per sè voluto dai tedeschi apre un interessante dilemma: a salvare le banche commerciali di ogni Paese devono essere le Banche Centrali di ogni Paese, ciascuna per sè; ma queste Banche Centrali non hanno alcun potere di espandere la liquidità, perchè non possono batter moneta: la creazione di euro spetta, come sappiamo, alla BCE. Ciò per il Trattato di Maastricht: piccolo paradosso che i nostri europeisti pensavano di poter ignorare. L’articolo 104 di Maastricht vieta positivamente alle Banche Centrali nazionali di prestare ai loro propri Stati.

Adesso, dunque, uno si domanda: dove mai l’Irlanda prende gli euro (miliardi) per garantire i depositi? Da dove la Germania, se è alla BCE che devono chiedere la moneta fresca ex-nihilo? La mente si perde in questo enigma.

L’articolo 103-2 dice che in circostanze eccezionali, i governi centrali possono chiedere, supplicare una esenzione delle regole alla BCE: insomma inginocchiatevi alla Banca, vero «governo unico», e tutto  diventa possibile.

Il fatto è che nè Irlanda, nè Grecia (che ha esteso parimenti la garanzia) nè la Germania hanno fatto la richiesta formale alla BCE. Dunque, con quali euro coprono i depositi? Con pseudo-moneta che non c’è?

Solo una cosa è chiara: che il trattato di Maastricht è diventato, alla prima vera crisi, carta straccia. Quanto durerà, in queste condizioni, l’Unione Monetaria in cui Prodi ci ha trascinato con tanti sacrifici (nostri) e trionfo (suo)?

Domande, domande. Alcune ci assillano su Unicredit: tre giorni fa, dichiarava Profumo, andava benissimo, e i suoi problemi erano dovuti a «voci» e a «speculazione». Poi domenica si riunisce il consiglio, e decide un aumento di capitale di 3 mila miliardi (chissà chi comprerà quelle azioni nuove), e una vendita di «attivi», fra cui la partecipazione in Generali, oltre che immobili per 1,8 miliardi. Per raccogliere 6 mila, anzi no 9 mila miliardi.

In un mercato drammaticamente calante, queste vendite faranno abbassare i valori azionari e quelli immobiliari? Anzi: riusciranno a vendere quel che dicono, visto che oggi tutti tendono a vendere e nessuno a comprare? Questo «rafforzamento» del capitale Unicredit è una mossa disperata come sembra, da apocalisse imminente? Qualunque cosa facciano questi, proclamandoci che «dobbiamo avere fiducia», contribuisce ad aumentare il panico.

Ma la prima domanda è: questa crisi è cominciata un anno fa, nell’agosto 2007. Profumo, come la Merkel, come Berlusconi e Draghi, e Trichet e Sarko, avevano tutto il tempo di preparare un piano pensato e coordinato. Invece sono stati tutti zitti, sperando che il problema, occultato, si risolvesse da sè.

Conclusione: questi non hanno la minima idea di cosa fare, e forse nemmeno delle dimensioni del buco nero, e sicuramente della natura stessa del problema.

A cosa deve servire il Fondo pari al 3% del PIL europeo, che vorrebbe Berlusconi con Sarko? Vogliono imitare un piano Paulson, farne una pattumiera degli «attivi tossici» di cui le banche europee sono ancor più piene di quelle americane?

Non mi pare che nessuno avanzi l’ipotesi sana, proposta da Luigi Zingales: comprare sì gli attivi tossi delle banche fallite, ma in cambio della loro proprietà azionaria, di fatto espropriando gli azionisti attuali e scacciando i manager come Profumo, assumendo una gestione diretta degli istituti. Insomna, una nuova IRI «vera», cioè fascista, magari pan-europea.

Ma no, l’assillo è salvare gli azionisti attuali, che si sono scelti i Profumo, o il management di Deutsche Bank o di UBS. Fiumi di denaro che dovrebbero essere usati per programmi di rilancio keynesiano della domanda, attraverso la costruzione di infrastrutture, sono sprecati per salvare i banchieri.

Ma intanto, con loro o senza di loro, è cominciato il grande «deleveraging»: riduzione dell’effetto leva, possiamo tradurre «dis-indebitamento». Ma con il moltiplicatore: perchè le banche non si sono accontentate di prestare dieci volte più del loro capitale, ma molto di più, con capitale preso a prestito. Ora, per rientrare, devono precipitosamente vendere attivi, onde rimborsare i debiti, diminuendo l’effetto-leva.

Ciò è possibile quando la banca nei guai è una sola. Ma quando lo sono tutte o la maggioranza, tutte vendono i loro attivi, e nessuno glieli compra. E gli «attivi» si rivelano-azioni o immobili - pezzi di carta senza valore, o a valore calante a precipizio. Le vendite innnescano la spirale ribassista che fu tipica del post-1929.

Il credito si fa scarso o nullo. Il denaro (lo pseudo-denaro creato dalle banche) diminuisce drasticamente. Aziende falliscono, la disoccupazione cresce. I consumi diminuiscono.

E’ il ciclo della deflazione. Che appare già instaurato: il petrolio è calato, come il rame e il mais; le prime diciannove materie prime sono calate del 10% in una settimana, il più rapido declino dal 1956. Sono calati i prezzi delle case in USA, in Spagna, in Inghilterra, in Irlanda e presto anche da noi. Il Baltic Dry Price Index, che segnala il prezzo dei trasporti navali di merci, è calato, da maggio, del 75%.

Al contrario dell’inflazione, che favorisce i debitori riducendo il loro debito reale, la deflazione schiaccia i debitori: gli interessi che devono pagare, comunque abbassati, diventano eccessivi, impagabili.

Pensate alle famiglie americane, indebitatissime. A quelle italiane col mutuo. Alle aziende con fidi che non possono più permettersi. Pensate allo Stato italiano, col debito pubblico immane. Chi comprerà i BOT che deve emettere per rifinanziare il debito? Con quali soldi, se il denaro e lo pseudo-denaro sono rivoli esangui? E se emettiamo BOT in euro, la Germania ci accuserà di rubare i soldi dei suoi cittadini.

L’Europa Unita, alla sua prima prova seria, è vicina a spaccarsi.

Il peggio è che avevano un anno per fare qualcosa di sensato. E invece hanno lasciato fare a Trichet, che combatte un’inflazione ormai inesistente, e - in piena deflazione - mantiene i tassi al 4 e passa per cento. Ci ucciderà tutti, esattamente come nel ’29  la deflazione uccise economie intere.

D’altra parte, anche Trichet non ha tutti i torti: spera, coi tassi altissimi, di evitare di imbarcare l’inflazione USA, creata dalla «liquidità» iniettata a fiumi da Bernanke. Perchè è la Federal Reserve che dovrebbe alzare i tassi oggi, anche per continuare a convincere Pechino a comprare ancora i suoi BOT. Ma se alza i tassi, le sue famiglie indebitate americane vanno a ramengo, più velocemente di come ci stiano andando.

E per adesso, la crisi premia Bernanke: i BOT americani li vogliono tutti gli speculatori, disperati perchè non sanno più come «investire», e si tengono «liquidi» arraffando i titoli di debito dello Stato superpotente, che - credono - non può fallire, anche perchè può sempre stampare dollari a volontà. Gli interessi dei BOT americani sono praticamente zero, eppure li comprano ancora. A danno dell’Europa e dell’euro. E alla fine, a danno di tutti.


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