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No, non sono antisemita
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«Antisemitismo» è appunto un termine del genere. Non serve a definire, quanto a screditare e demonizzare, perchè ognuno che viene etichettato «antisemita» è automaticamente associato a «nazista» e a «razzista», in un amalgama massicciamente adottato dal conformismo e dai media, guardiani dei limiti del politicamente corretto. In più, assistiamo ogni giorno all'evidente sforzo di catalogare come «antisemita» ogni critica ad Israele, anche la più giustificata.

Il lancio della parola «antisemitismo», parola tabù, mira ad intimidire e ad imporre il silenzio. Occorre un motivato coraggio per sfidare questo tabù e rivendicare il diritto di critica. Un coraggio di cui nessuno ci è grato, visto che anche qualche lettore (cedendo al conformismo ambientale) trova dell'antisemitismo nelle nostre a volte veementi critiche ad Israele e ai suoi alleati neocon americani.

Suggerirei di non usare con leggerezza irresponsabile un termine tanto demonizzante e carico di conseguenze. Ai lettori in buona fede, per parte mia, vorrei cercare di spiegare la mia posizione, delimitando nello stesso tempo il termine nei suoi confini legittimi.

Il sottoscritto non è antisemita. Rifiuta per sè questa definizione, come rifiuta quella di «razzista» che le equivale, o di «nazista» che vi aleggia attorno. Una ohimè lunga esperienza di vita e di popoli diversi ha insegnato a chi scrive che i caratteri «razziali», ammesso che esistano, sono secondari e insignificanti. In ogni caso, non sono mai decisivi.

Ciò che è decisivo nell'unire e nel dividere uomini, nazioni e collettività, non è la (presunta) razza, bensì la cultura.
La cultura intesa nel senso più vasto ed elementare: l'insieme di credenze, convinzioni, atteggiamento di fronte al mondo e agli altri uomini che i genitori trasmettono ai figli, o che intere comunità trasmettono ai loro membri. Nella vita  sociale o politica, non si ha mai a che fare con «razze», ma con «mentalità» e visioni del mondo: e lo scontro e l'incontro avvengono qui, a livello culturale. Accade che mentalità e culture siano inconciliabili con quelle di altri gruppi; accade che siano pericolose, e persino intollerabili per la civiltà, e debbano essere per questo combattute.

Prendiamo il caso di una comunità che imprima ai suoi membri l'idea di essere «superiori» rispetto all'intera famiglia umana; e che lo faccia da millenni, basando la sua superiorità su un libro sacro, fino al punto che i suoi sacerdoti e teologi possano chiamare gli altri uomini «animali parlanti», ed elaborare una escatologia (una dottrina dei tempi ultimi) in cui tutti coloro che non sono della comunità saranno ridotti a servi degli eletti, o loro animali da soma e da lavoro. In questa comunità, i genitori insegneranno ai figli il disprezzo degli altri esseri umani, non appartenenti al gruppo (etnia) eletto e privilegiato.

Vi si praticherà l'endogamia più rigorosa, su base razziale. Vi si predicherà l'autosegregazione dei «puri» dagli impuri altri umani: e tale segregazione verrà di fatto praticata, quando se ne abbia la forza, con ogni mezzo, anche costruendo un enorme muro attorno al proprio Stato. Dovunque questa comunità domini, tenderà a costituire un sistema di apartheid, e di oppressione dei soggetti e dei vinti.

Una tale comunità finirà per coltivare una ostilità radicale contro i popoli fra cui vive o su cui domina, a non sentirsi responsabile del comune destino, a rigettare ogni giudizio degli «inferiori» e degli «impuri» sugli eletti. Una tale comunità rifiuterà l'obbedienza ad un sistema giuridico universale, non riconoscerà un diritto «delle genti», nè la pari dignità di ogni essere umano. Una sorta di gigantesco egoismo e narcisismo «etnico», di auto-adorazione, sarà la bolla psichica in cui vivrà questa comunità «eletta».

Secessionismo, particolarismo, oppressione (e magari sterminio degli «altri») saranno la nota dominante di tale comunità.
Il loro Dio sarà un dio nazionale, esclusivo, separatista, che promette salvezza e pienezza al solo popolo «eletto», con esclusione di tutti gli altri. Se tale comunità esiste, sarà obbligatorio combatterla. Non sterminarla, ma combatterne la mentalità, forzarla a rettificare il suo sistema di credenze, criticare il suo modus operandi, nella speranza che essa torni a confluire nella famiglia umana.

Perché combatterla? Perchè questa comunità, se è o diviene potente, è pericolosa  per la civiltà quale noi la conosciamo e la vogliamo. Occorre ripetere (visto che la nozione di civiltà sta diventando confusa) che cosa sia per noi la civiltà?
Essa si fonda su una «cultura» politica che è l'esatto contrario del secessionismo mentale, del particolarismo razziale di quella comunità «eletta»: la generosa forza di Roma, illuminata e portata a compimento dalla luce di Gesù il Messia.
 
Occorre ricordare che cosa fu per Roma la guerra: non mai (salvo qualche feroce eccezione) lo sterminio di nemici irriducibili, bensì al contrario, il preludio all'associazione dei vinti nel potere e nella responsabilità di Roma. Il nemico di oggi fu colui con cui si sarebbe dovuto convivere domani; e non in regime di apartheid. Ogni popolo vinto fu poi fornito da Roma di uno status giuridico assai preciso - e la precisione ne indicava anche i limiti entro cui poteva esercitare con sicurezza la libertà – e migliorabile col tempo. Il nemico vinto, inizialmente soggetto e tributario, veniva poi sollevato al rango di alleato (socius) a vario titolo e con diversi limiti (giuridicamente definiti) e poteva aspirare a quello superiore e supremo: di «cives romanus».
Il segreto del potere di Roma fu proprio questo: di non riconoscere mai nemici radicali ed eterni, né «inferiori» o «impuri» assoluti.

Contrariamente a quel che crede il conformismo corrente, Roma regnò meno con la forza delle armi che con la pace. Non ebbe molti nemici, perché ogni nemico di Roma sapeva che Roma l'avrebbe chiamato, prima o poi, a partecipare al potere romano: senza distinzione di «razza» (cui Roma fu sempre indifferente), ma a patto che – a fianco della propria cultura etnica e particolare – il vinto accettasse la cultura di Roma. Che era, precisamente, la sua universalità. Roma chiamò «genti diverse a fare qualcosa di grande insieme»; represse con forza le genti renitenti alla chiamata, ma aprì generosa ogni porta a chi, capendone la grandezza, l'accettava. Non escluse alcuna razza dalla partecipazione al potere romano. Nel 200 dopo Cristo, Roma estese la cittadinanza a tutti, a ciascun abitante del suo impero: aprendo a ciascuno e a tutti le cariche, locali e centrali, militari e civili, senza discriminazione alcuna.
 
Così, si capisce perchè il cristianesimo potè innestarsi sul vecchio tronco di Roma. Gesù l'ebreo contrastò e spaccò il particolarismo ebraico, dichiarando la salvezza universale di tutti gli uomini. Assicurò che il Padre non voleva che «alcun peccatore perisca, ma che si converta e viva»: frase perfettamente iscrivibile nella politica romana, il cui scopo non fu lo sterminio dei nemici, ma la loro «chiamata» nella romanità. Paolo, ebreo, disse che dopo Cristo «non c'è più nè giudeo né greco».

Non gli venne affatto in mente di aggiungere «nè romano». Perché «giudeo» o «greco» erano etnie, «romano» era invece uno stato giuridico che prescindeva da razze e particolarismi; diventando cristiani, non si cessava di essere «romani», ossia cittadini e corresponsabili della civiltà, del diritto, della cultura universale. E responsabili anche della sua difesa militare.

Questa è ancor oggi la civiltà: quella a cui dobbiamo tendere su scala globale, anche se la sua costruzione è imperfetta e conosce oggi un fatale oscuramento. Fa parte della civiltà («romana», e ancor oggi nostra) che l'esercizio del potere sia aperto e leale, ossia legittimo, e non già dietro le quinte ed occulto: perchè questo secondo tipo di esercizio non è responsabile. Chi comanda non apertamente, ma occultamente con complotti, non si assume responsabilità delle sue azioni, si sottrae al giudizio del resto degli uomini. Questo sistema di governo occulto non può che essere conseguenza, e provocare,  un'idea di esseri «eletti» e separati che manipolano e strumentalizzano altri, spregiati come «animali parlanti».

Ho parlato di ebrei? Ho parlato dell'ebraismo come «cultura», oggi particolarmente potente e pericolosa.  So che esistono ebrei che si oppongono a questo ebraismo egemone, e li ammiro: oltre al coraggio di sfidare le loro autorità, hanno il coraggio di sfidare in se stessi la mentalità e la loro «cultura» etnica, e so quanto questo sforzo costi, fino all'eroismo.
Il fatto che proprio loro vengano privati del diritto alla parola, nell'Israele odierno, ci dice però che essi  sono minoranza.

Dovremmo aiutarli a parlare e a denunciare l'ebraismo talmudico, per quello che ha di secessionismo spirituale, di disprezzo degli altri (e a cosa porti questo disprezzo lo sanno gli oppressi umiliati palestinesi), di razzista. Per intanto lo fa, modestamente e a suo pericolo, il sottoscritto. Ecco perché non sono, e non voglio esser chiamato, «antisemita».

Io voglio che tutti gli ebrei vivano. Voglio poterli non riconoscere più come ebrei (perché la razza è insignificante), ma come cittadini della comunità umana, responsabili, aperti, leali cittadini e anche governanti del potere mondiale. Più a fondo, voglio la loro liberazione dalla catena talmudica, che li fa segregati e segreganti, che li obbliga a vivere nella paura.

In che consista questa liberazione l'ha detto molto meglio di me Israel Shamir, grande e coraggioso «giudeo» di nascita, divenuto cristiano ortodosso: lui si dichiara uscito «dalla paranoia dell'odiare ed essere odiato» e di essere andato verso la gioia «di amare ed essere amato».

Roma e Cristo: chi l'adotta non ci perde nulla, non deve rinunciare alla sua etnia, e guadagna tutto.




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