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La Sicilia, purtroppo
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Una mail:

«Gentile  direttore,

seguo molto volentieri il suo giornale perchè mi interessano molto gli argomenti internazionali. Però mi interessa altrettanto il mio Paese  e qui secondo me il giornale  non è attento come dovrebbe; mi piacerebbe leggere  notizie approfondite  su chi potrebbe essere L'UOMO DELLE ISTITUZIONI della 1 repubblica all'epoca del governo Amato che dopo le stragi di Capaci e  via Adamelio  trattava con la mafia; mi piacerebbero approfondimenti  sul ministro Alfano. Interessantissimo sarebbe  fare l'autopsia  del signor MARCELLO DELL'UTRI della  PROCURA DI  CATANZARO  e ALTRE».


Ha ragione, caro lettore. Se mi occupo di estero è perchè non abbiamo i mezzi per condurre inchieste approfondite sulla situazione e sulle persone siciliane che mi nomina – inchieste, dico, capaci di resistere a costosissime querele.

In via del tutto generale, posso dirle questo: ho più che l’impressione che Berlusconi, per ottenere la maggioranza in Sicilia, abbia fatto un patto, e dato mano libera, a poteri che possono dirsi in senso lato mafiosi o contigui alla mafia. In ciò, non ha fatto altro che continuare una semi-secolare tradizione, democristiana e non solo democristiana. Magari ci si poteva aspettare, da un governo essenzialmente «nordico», un diverso atteggiamento. Ma Berlusconi, per carattere, segue la linea di minore resistenza, tende ad accordarsi con certi poteri più che a contrastarli.

Inoltre, da «perseguitato» della magistratura, non cova una esagerata passione della legalità. Come dimostra del resto il «lodo Alfano», il rispetto del diritto non ha fatto passi avanti con questo governo. Ma con ciò non si devono dimenticare le responsabilità gravi di magistrati «professionisti anti-mafia» e insieme anti-berlusconiani, alla Caselli o Violante; anch’essi non hanno dato esempi di adesione oggettiva alla maestà del diritto. Anzi l’hanno, secondo me, forzato e violato ai loro fini.

Fatto sta che il governo regionale alleato con Berlusconi sta vacillando in una oscura lotta interna, dove la «mafiosità» è la sola cosa che salta agli occhi. E che Palermo è sepolta dai rifiuti come Napoli, mentre la «società civile», tanto per essere d’aiuto, brucia centinaia di cassonetti che sono proprietà pubblica. E ciò avviene con 2 mila netturbini (penso che Shangai ne abbia meno, con 12 milioni di abitanti) tutti assunti senza concorso, dunque per chiara selezione mafiosa.

Non sarà Berlusconi a mandare in Sicilia un prefetto Mori. Ma guardiamoci negli occhi: anche il prefetto Mori, oggi, che potrebbe fare?

Non esiterei a dotarlo di tutti i poteri, persino di compiere assassinii mirati. Ma anche gli estremi rimedi funzionano finchè la criminalità organizzata abbia dalla sua, diciamo, il dieci per cento della popolazione. Ma se sono i due terzi, o i tre quarti della popolazione a stare da quella parte, non bastano nemmeno i bombardamenti.

Chiamo in causa, come ha capito, la «mentalità» siciliana, di cui anche il «professionismo dell’antimafia» è parte integrante. Quella chiusura e speciale ottusità mentale dei siciliani – e precisamente di quei siciliani che dichiarano ad ogni piè sospinto di amare la loro isola, e che invece l’hanno irreparabilmente compromessa, compromettendo il futuro dei loro figli migliori.

Sono i siciliani che devono cominciare a cambiare da dentro. Ma questo, come sappiamo, non è mai avvenuto. Secondo me, non avverrà mai.

Mi spiego con un fatto recente: ho appreso che le presenze turistiche della Regione Piemonte sono aumentate, dalle olimpiadi invernali, del 43%. Il Piemonte non ha nemmeno una decimo delle attrattive naturali e storiche della Sicilia (a cominciare dal mare); come ci è riuscito, mentre in Sicilia, la cui vocazione turistica è evidente, e in cui il turismo (attività che richiede relativamente poco capitale e molti lavoratori, anche qualificati) resta una promessa mai mantenuta?

Certo, in Piemonte c’è un buon governo regionale, che ha promosso con intelligenza e competenza la bellezze locali, che ha ripulito le zone di degrado di Torino. Ma la ragione profonda di questo successo è – spiace dirlo – la civiltà generale dei piemontesi.

Il punto è che il turismo non è una merce che si produce nel chiuso di una fabbrica. E’ un servizio a cui partecipa, lo sappia o no, la società tutta intera, e dalla società intera dipende se una regione è accogliente per lo straniero e il visitatore.

I netturbini mafiosi che lasciano marcire montagne di spazzatura, come i «normali» siciliani che bruciano i cassonetti, sono gravemente colpevoli di sabotare l’industria turistica, non meno delle miriadi di costruttori di casotte abusive a cinque metri dal mare, di cui la Sicilia è orlata.

E’ esattamente come se gli operai di Melfi facessero uscire le auto nuove della Fiat che fabbricano con rigature sulla carrozzerie o coi fari non funzionanti. In questo caso, sarebbe  però chiaro che gli operai provocano un danno non tanto alla Fiat, ma ai clienti, e devastano una industria nazionale. Ma i siciliani che «amano tanto la Sicilia» sono consapevoli che la stanno sabotando?

No. Sono anzi certi di essere calorosamente accoglienti e generosi. In realtà, non sono capaci di mettersi nei panni del visitatore, e di capire quello di cui ha bisogno. Della buona volontà di servirlo, non parliamone neppure.

Racconto un episodio, accaduto a due amiche genovesi (una di origine siciliana) atterrate a Siracusa per assistere agli spettacoli nel teatro greco. Arrivano di sera e si presentano in un albergo a cinque stelle. La receptionist, che parla anche inglese e francese (dunque ha fatto una scuola), dice loro: purtroppo non abbiamo stanze libere. Però posso arrangiare il vostro soggiorno in un altro albergo, da noi garantito.

La ragazza fa una telefonata: «Sì, hanno stanze libere», e dà loro un indirizzo. Le due donne prendono un taxi (carissimo) e si trovano davanti a una stamberga non finita e poco rassicurante, dove il proprietario – un losco individuo, vagamente minaccioso – le «invita» a stare lì più notti. Siccome è tardi, le due amiche prendono la stanzuccia offerta (con due brande e bagno puzzolente, inenarrabile) e ci si chiudono a doppia mandata.

Il mattino dopo, tornano all’albergo a cinque stelle per protestare. Per loro fortuna, la receptionist della sera prima non c’è, è assente per turno, e al banco accettazioni c’è la proprietaria. Quando le spiegano il fatto, la signora le implora di firmare una denuncia contro la receptionist.

«Fa sistematicamente così, manda i clienti in quell’altro, diciamo, albergo; ma non riesco a licenziarla perchè non ho le prove della sua infedeltà». Le due amiche firmano ben volentieri; la receptionist –come sapranno un anno dopo dalla padrona – è stata effettivamente licenziata.

A quanti stranieri sarà successa la stessa sgradevole disavventura? Quanto turismo è stato danneggiato da questa sola  combutta fra la receptionist e il losco albergatore? Ma soprattutto, vorrei far notare la mentalità di quest’ultimo: una volta stretto l’accordo illegale con la ragazza dell’albergo a cinque stelle, non ha mai nemmeno pensato di offrire un servizio equivalente, di trasformare la sua locanda in modo non dico da soddisfare, ma almeno da non rivoltare i clienti che riuscirà ad arraffare. Tutto la sua attività «turistico-imprenditoriale» si riduceva a quel trucco. Ad arraffare per una notte clienti che avrebbe perso per sempre la notte dopo.

Ecco quel che intendo quando parlo della speciale «ottusità», meridionale in genere, ma siciliana in particolare – e particolarmente dolorosa proprio perchè riconosco ai siciliani delle qualità di carattere, che non si trovano, ad esempio, in Campania. E’, in realtà, un miscuglio di ristrettezze mentali complesse e plurime.

C’è anzitutto una mancanza di professionalità, di volontà di capire di cosa ha bisogno un visitatore che arriva da fuori, e di offrirglielo. Ma questa stessa incapacità nasce, secondo me, da una indifferenza e ostilità fondamentale verso «il forestiero», uno che «non è dei nostri», e dunque può essere truffato e spennato, perchè «non è furbo» e «non sa come vanno le cose da noi».

Chissà quanti siciliani impegnati nel turismo saranno andati a Londra e a Parigi, o magari avranno visto degli alberghi in Kenia. Sembra che non abbiano constatato e visto nulla di come si opera nel turismo professionale, di come si presentano quelle città, di come siano gentili i negozianti, i tramvieri e persino le donne delle pulizie; di come gli alberghi kenioti siano «tipici» e moderni, in un paesaggio che si cerca di tenere «incontaminato» e di cui si cerca di salvaguardare il colore «tropicale»: non stanze anonime ma bungalow di paglia (però con bagno ed aria condizionata); per la colazione non un refettorio da orfanatrofio, ma un’ampia tettoia africana di paglia e legno, ornata di fiori; sui tavoli, non le confezioni di marmellata senza nome di tipo sovietico, nè il caffè fatto coi fondi (una piaga dell’hotelleria italiota) ma una quantità strepitosa di frutta locale di stagione. A nessun siciliano, abbia fatto i soldi con la mafia o no, viene in mente di applicare il modello nella terra «che tanto ama».

Un altro esempio. Molti anni fa – ero ancora al Giornale di Montanelli – vengo inviato in Sicilia per una inchiesta sull’economia regionale. Ovviamente prendo contatti con l’ufficio-studi del Banco di Sicilia; mi indicano un loro giovane funzionario. Personaggio notevole, studi in America, ricco di informazioni e anche di critiche all’andazzo locale. Insomma, fraternizziamo. Al punto  che il giovane funzionario mi invita a cena a casa sua, la sera stessa. Casa bellissima (a Mondello), accoglienza generosa alla siciliana, cucina ottima. Si chiacchiera del più e del meno. Siccome mi capita di dire che sto pagando il mutuo per il mio appartamento a Milano, allora a tassi del 12% (era l’epoca dell’inflazione), lui esclama: «Ma come! Lascia fare a me, annulla il contratto e ti faccio dare un mutuo del Banco di Sicilia al 5,6%!».
Ci conoscevamo da quattro ore. E lui già mi offriva un favore incredibile. Si noti che il mio mutuo, essendo dato dal nostro ente previdenziale giornalisti, era già più favorevole di quelli che facevano le banche. Il mutuo che mi offriva il mio nuovo amico, per pura generosità e senza secondi fini, configurava un danno per il Banco di Sicilia, i suoi clienti e depositanti. Mi stava regalando denaro non suo, ma della ditta.

Questo piccolo episodio mi ha insegnato di più, sull’economia siciliana ed i suoi mali, di ore di lezione alla Bocconi. La Sicilia è un posto dove «per amicizia» personale, uno può danneggiare e vivere a danno della società nel suo insieme, che è impersonale, che non protesta, che non viene sotto casa ad aspettarti con la lupara. Ho detto che quella offerta mi è stata fatta per pura generosità, e senza secondi fini. E’ vero. Ma è anche vero che, se l’avessi accettata, «mi obbligavo» verso il nuovo amico. Che avrebbe trovato naturale, domani, chiedermi un favore per suo conto a Milano: un favore che, magari, non avrei potuto nè voluto fare, perchè a Milano l’ambiente non consente certi favori – almeno, non alla portata di un semplice giornalista o funzionario di banca. A quel punto, non sarei stato più un amico, ma un «infame».

E’ questa la mentalità che chiamo «mafiosità». Non so quante infinite volte ho constatato che, in Sicilia, la pretesa di un «posto», specie se pubblico, non implica, nella mente di chi ha la fortuna di averlo ottenuto, la minima idea che egli debba corrispondervi un servizio, una prestazione utile. Il posto è lo stipendio, punto e basta. Degli altri, nonostante tutte le generosità siciliane, ce ne infischiamo. Perchè non li conosciamo. Non sono «dei nostri». Non hanno l’odore della nostra tana, che tanto amiamo.

Come vincere questa mentalità? Come diffondere la nozione che spennare il forestiero, truffarlo, presentargli una città sporca e piena di macerie inagibili, dove si respira un senso di pericolo magari non vero (ma indotto dalla maleduzazione e dall’arroganza dei più) e una spiaggia lurida e soffocata dalle costruzioni abusive di egoisti, fa male a tutti?

Quando io ero bambino, le maestre elementari ci insegnavano alcune cose fondamentali: che l’Italia era priva di risorse naturali, che doveva importare petrolio e ferro pagandolo in valuta, e che il turismo era una delle risorse che ci permetteva di guadagnare valuta: e quindi, dovevamo fare la nostra parte per svilupparlo e non sabotarlo, magari, con scritte sui muri e sporcizia nelle strade.

Ma la scuola meridionale e siciliana, insegna qualcosa? Non sapete quante insegnanti o addetti agli uffici pubblici ho trovato sulla spiaggia di Messina nelle ore in cui avrebbero dovuto essere al lavoro. Ricordo un’insegnante giovane che, essendo stata comandata a Lampedusa, parlava incessantemente di come fare – quali «amicizie» e maniglie attivare – per farsi trasferire di nuovo a Messina. Parlava di Lampedusa come Solgenistin parlava del lager delle Solovky, sul Mar Bianco;
sentiva il «sacrificio» dello spostamento come al di sopra delle energie di una giovane, povera donna appena sposata... Sulla sua cultura generale, stendo un velo pietoso. Chiaramente, aveva ottenuto il posto in un concorso dove le «amicizie» contavano. E di casi come questi, ne ho trovato tanti, mica uno solo.

Capisco di dare un dolore a tanti giovani amici siciliani, gente seria e ben formata che conosco e stimo. Disoccupati. E disoccupati perchè onesti, o senza le «maniglie».

La vera tragedia è che per farsi valere, per farsi riconoscere un diritto, anche gli onesti devono per forza entrare nella tana di «noialtri», chiedere un favore e «impegnarsi» con chi lo dà, chiedere che sia fatto a suo pro qualche piccolo o grande abuso, perchè con diritto e giustizia non si ottiene nemmeno ciò che spetta. Anche chi non vorrebbe, deve adattarsi alla «mafiosità» generale. Per questo non ho molte speranze sulla Sicilia.

Berlusconi o Dell’Utri non migliorano nulla della situazione, ma c’entrano poco in ogni caso. Sono i siciliani che devono cominciare a svegliarsi: in Piemonte, il turismo è cresciuto del 43%, e da noi?



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