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E Pechino si compra la Moldavia
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Per un miserando Paese dell’Est, di 4,5 milioni di abitanti, l’offerta è tentatrice: un miliardo di dollari di prestito, pagabili in 15 anni, al tasso favorevolissimo del 3%, e con i primi cinque anni di esenzione dagli interessi. Con in più l’impegno, da parte del creditore, di sottoscrivere l’intera economia del Paese, che ha un prodotto interno lordo di 8 miliardi di dollari, e un bilancio pubblico di soli 1,5 miliardi.

Il prestatore è la Cina, che di dollari ne ha a montagne, e il debitore è la Moldavia. Questo Paese  europeo, che è stato una parte della Romania e dove si parla romeno, benchè oggi disastrato dall’uscita dal comunismo, ha ottimi terreni agricoli in abbandono (le famose terre nere, come in Ucraina) su cui vale la pena di investire.

Ma lo scopo di Pechino è chiaramente politico.

Difatti in Moldavia è appena abortita una «rivoluzione colorata» pagata dagli USA e dalla UE. Il 6 aprile 2009, diverse organizzazioni non-governative «umanitarie» finanziate dall’estero, a forza di messaggi su Facebool e Twitter, hanno organizzato una protesta a Chisinau (la capitale), riuscendo a radunare 15 mila persone contro il governo, che è sempre stato in mano ai comunisti. La protesta  però si è trasformata in disordini, saccheggi e violenze, con l’incendio del parlamento e degli uffici presidenziali, il che ha dato alla polizia il motivo di stroncare la «rivoluzione» con i manganelli e centinaia di arresti. Tre i morti.

Il presidente, Vladimir Voronin, amico di Mosca, ha denunciato i fatti come un colpo di Stato,  tramato dalla  Romania. L’opposizione ha accusato Voronin di aver inserito nelle dimostrazioni agenti provocatori per avere la scusa di stroncarle.

Il 29 luglio ci sono state nuove elezioni, dove i comunisti hanno perduto voti, ma mantenuto una lieve maggioranza sia nel voto popolare sia nei seggi parlamentari. Ovvio il tentativo di abbattere quel governo, troppo filo-russo. La UE ha fatto promesse generose di integrazione della Moldavia nello spazio europeo: continuazione del classico progetto americano, visto che per volontà di Washington le stesse proposte sono state fatte a Ucraina e Georgia, per erodere lo spazio d’influenza moscovita. Mosca ha risposto a giugno, facendo alla Moldavia l’offerta di un prestito da mezzo miliardo.

E’ a questo snodo della disputa che si è inserita Pechino: a sorpresa, ha già firmato a Chisinau il prestito di un miliardo, un ottavo del PIL del paesello. Ma non solo. Nell’accordo firmato, la Cina si impegna a «garantire il finanziamento di tutti i progetti ritenuti necessari, e giustificati, dalla parte moldava», ben oltre il miliardo già affidato. E fa sul serio: il fido sarà canalizzato attraverso la COVEC, il colosso cinese delle costruzioni, capace di attuare progetti di modernizzazione energetica, sistemi idrici, impianti di trattamento delle acque, canalizzazioni agricole e industrie ad alta tecnologia.

Nel «grande gioco» centro-asiatico condotto da Washington, Pechino ha fatto la mossa del cavallo:  ha risposto alla penetrazione americana nel centro Asia, a ridosso dei suoi confini, penetrando lo spazio est-europeo, ossia la presunta zona d’influenza euro-americana, quella che gli occidentali stanno togliendo alla Russia. Sta cercando di fare della Moldavia il suo satellite economico, e la sua testa di ponte nel cortile di casa europoide. E Pechino, al contrario di Washington, i soldi per mantenere le sue promesse li ha davvero: una quantità di titoli in dollari che è meglio spendere che conservare.

Che cosa ha precipitato questa mossa geniale, silenziosa e improvvisa? Abbastanza evidentemente, i disordini islamici  della minoranza turcofona dello Xinjang, che Pechino ha interpretato come una «rivoluzione verde» teleguidata. Il Quotidiano del Popolo ne ha fatto allusione in un recente commento, in cui si legge: «Sotto l’amministrazione Obama, il significato e l’uso della ‘cyber-diplomazia’ è cambiato in modo significativo (...). Le autorità USA (...)  hanno eccitato torbidi in Iran attraverso siti web come Twitter…». Per poi ricordare che la signora Hillary Clinton, segretario di Stato, «ha detto che questa (la cyber-diplomazia) è l’essenza dello smart-power».

«Smart power», potere astuto, è la nuova versione dell’imperialismo americano, raccomandata dai poteri forti USA delusi dai disastri del «potere duro» di Bush e dei neocon: non più guerre ma «soft power», di cui la cyberdiplomacy è un ingrediente.

Ancor più ha certo allarmato Pechino il viaggio del vicepresidente Joe Biden in Ucraina e Georgia il 20-23 luglio scorso: una sfida aperta a Mosca, in quanto Biden ha proclamato di non riconoscere  le pretese del Cremlino a «sfere d’influenza da 19° secolo», ha confermato la volontà della nuova amministrazione Obama di «fare dell’Ucraina una parte integrante dell’Europa» e di inserirla nella NATO, ed ha promesso nuove armi alla Georgia (che infatti ha subito cominciato di nuovo a provocare la Russia in Sud-Ossetia). La Russia, ha spiegato Biden, è economicamente nei guai,  militarmente obsoleta, e sul piano demografico, è in via di sparizione; quindi nessun «appeasement» è necessario con Mosca: non è più una superpotenza, e non può opporsi alle intrusioni dell’«Occidente» nell’area di influenza ex-sovietica. Affermazioni poco «smart».

moldova_china.jpgPerchè Pechino ha sicuramente calcolato che, se l’integrazione dell’Ucraina e della Georgia nel sistema di difesa atlantico procederà come sembra inevitabile data la reale debolezza di Mosca, è solo questione di tempo perchè il Mar Nero diventi un lago della NATO, con una flotta NATO, e una posizione da cui il cosiddetto Occidente può avanzare verso il Caucaso e da qui verso l’Asia centrale, alle spalle della Cina stessa. In questo mosaico di nuovi e futuri satelliti occidentali, la Moldavia è la pedina ancora sostanzialmente «libera»; benchè non abbia sbocco sul Mar Nero (per pochi chilometri), controllare quella pedina significa inserire un cuneo strategico nel «grande gioco» geopolitico di Washington e dei suoi servi europei. E Pechino ha occupato la posizione, e s’è mangiato la pedina. Con il vantaggio di rafforzare il governo  locale, che è «comunista» come la leadership cinese.

La domanda è se Pechino, nel fare questa mossa in Moldavia, si sia coordinato con Mosca. L’ex ambasciatore indiano Bhadrakumar ritiene di sì (1), e ne dà alcuni indizi significativi: a 48 ore dai disordini «islamisti» nello Xinjang, il ministro degli Esteri cinese ha telefonato al suo collega russo, il quale ha emesso una forte dichiarazione a favore di Pechino, come era evidentemente stato richiesto. Per converso, i cinesi hanno sempre espresso appoggio agli interessi russi nel Caucaso.

Sia Mosca che Pechino, notoriamente, interpretano il «terrorismo islamico» e la cosiddetta Al Qaeda come un’arma di sovversione a disposizione di Washington. Entrambe hanno notato che i disordini nello Xinjang sono avvenuti lungo il percorso del gasdotto di 7 mila chilometri, che entrambi progettano di costruire per far portare il gas del Turkmenistan in Cina. Lo spionaggio russo aveva «previsto» i disordini degli uiguri fin dal 2008.

Vero è che Russia e Cina non si amano alla follia. La immensa Siberia russa, abitata da sei milioni e  mezzo di cittadini russi, confina con una provincia cinese che di abitanti ne ha 137 milioni; una silenziosa colonizzazione cinese della Siberia è, a Mosca, una preoccupazione acuta. Ma entrambi sono ben coscienti che in questo momento storico hanno un nemico comune, di cui è urgente contrastare la penetrazione (2). Ed è assai improbabile che Pechino abbia fatto l’offerta di «acquisto» alla Moldavia senza prima essersi consultata col Cremlino, che deve aver dato il via libera. Tutto, pur di contrastare la «rivoluzione colorata» moldava. Tanto più che l’Azerbaijan viene oggi riarmato da Israele, e il Kazakhstan (Paese riccamente petrolifero) ha con Israele rapporti economici e politici sempre più cordiali: il suo dittatore Nursultan Nazarbayev ha fatto visita ad Israele due volte, forse come cura preventiva ad una «rivoluzione colorata» che potrebbe detronizzarlo.

In questo gioco, il vero perdente è il servidorame europeo di Washington: ovvia conseguenza della politica eurocratica di adesione ai progetti americani, e della sua incapacità di condurre una politica  autonoma secondo i suoi veri interessi, che non sono quelli di confliggere con Mosca.

Ma questo è un discorso già fatto, invano, molte volte.




1) M.K. Bhadrakumar, «China dips its toe in the  Black Sea», Asia Times, 1 agosto 2009.
2) Si noti che la Cina, che fino al 2003 dipendeva al 50% delle sue forniture dal petrolio del Medio Oriente, è oggi il secondo importatore di greggio dall’Iran, dopo il Giappone. E l’Iran conta sulla Cina, finanziariamente e tecnicamente, per lo sviluppo dei giacimenti di nord e sud Pars, nel Golfo.
E’ un altro segnale di Pechino: la stabilità dell’Iran è per la Cina un fatto di sicurezza nazionale.


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