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La chiamano «disaffezione»
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Quando apparirà questo articolo, temo che non lo leggerete. L’immane chiacchiera televisiva sui risultati delle elezioni regionali, le valutazioni dei mille «esperti» e «politici» nelle nottate non-stop,  vi avranno più che saziato: nauseato.  Non vorrete più sentire altro, e avete ragione.

Nelle ore in cui scrivo, la chiacchiera giornalistica è sulla «disaffezione», poi subito superata dai «risultati». Hanno votato meno italiani del solito. E’ un segnale? Un pericolo per la democrazia? Discorsi oziosi, alluvionali.

In realtà, hanno votato anche in troppi; le opposte tifoserie non demordono, in parecchi è valso un oscuro senso del dovere: vincere la «disaffezione» come si vince una tentazione. Perchè quelli che hanno votato l’hanno fatto con lo stesso sentimento degli astenuti: la stanca convinzione che l’uno o l’altro pari sono, che non faranno niente -  salvo la continuazione del saccheggio.

Quasi tutti i concorrenti sono «politici» che abbiamo già visto troppo in TV (anche dare ricette di cucina), e alla prova, e di cui conosciamo le collusioni, le incapacità, le furbizie. Non ci caschiamo più, non ci danno speranza alcuna. Eppure votiamo. Perchè?

Trovo la risposta possibile in un libro che sto rileggendo:

«La sfera politica, dopo essersi emancipata dalle sue radici religiose, muore per la sua stessa emancipazione. Scompare con gran clamore... e a noi non restano, in un mondo disertato dalla politica dopo esserlo stato dagli dei, che dei riti: delle fedeltà magiche a cui ci aggrappiamo».

Il voto è appunto il rito residuale di un culto (politico) scaduto: e la frase di cui sopra è una definizione perfetta della «superstizione». L’antica religione romana da secoli non ispirava più alcuna fede, ma ancora gli aruspici prendevano i fati dal volo degli uccelli (Cicerone si domandava come mai, incontrandosi per strada, due aruspici non scoppiassero a sghignazzare). Le superstizioni («ciò che resta», il residuo) durano molto più del loro significato: non si sta in 13 a tavola, non si passa sotto una scala,  non si può non-votare...

Vogliamo ricordare «ab origine» cos’era il voto? Riportarci alla memoria perchè nacquero i parlamenti?

Nacquero come rivolta di popolo (o meglio: dei contribuenti) per controllare e frenare le spese pubbliche del sovrano. Il sovrano era il potere esecutivo; il potere del parlamento gli era «contro».  La teoria politica, a posteriori, nel ‘600, chiamò questo un sistema «di pesi e contrappesi», di bilanciamento dei poteri istituzionali. Potere esecutivo controllato dal potere legislativo: anche se i primi parlamenti non emanavano leggi, piuttosto controllavano i bilanci  in nome del popolo-contribuente.

Oggi questo meccanismo basilare della politica (e della democrazia) non funziona più. Il motivo è chiarissimo: in quella che ci ostiniamo a chiamare «democrazia» il governo (il potere esecutivo) è espressione della maggioranza parlamentare, dunque fra i due poteri non c’è più antagonismo, ma collusione. Da gran tempo il parlamento, anzichè un freno alla spesa pubblica, è diventato la fonte inesauribile delle spese pubbliche più insensate; esige dal governo che spenda, fa leggi e leggine per ordinargli di spendere a favore di questo o quell’interesse di minoranze organizzate, per tenersi caro «l’elettorato» (1). Anzi, qualche volta - quando c’è un ministro con la testa sul collo come Tremonti - è il governo che cerca di frenare  la spesa pubblica  contro la volontà dei parlamentari, contro gli altri ministri (appoggiati dal parlamento, opposizione compresa) e anche contro il capo del governo, quando è un Salame euforicamente maniacale.

E’ chiaro che la più urgente riforma democratica è: ricostituire l’antagonismo fra governo e parlamento. E’ così evidente, che certo non sfugge nè a Bersani, nè a Formigoni, nè a Fini, nè a Vendola, nè a Bossi, e lo può capire persino Rosy Bindi benchè più bella che intelligente. Eppure nessuno dei politici che ci ammorbano in TV, e che minacciano «riforme» di continuo, propongono questa semplice ed essenziale per la democrazia. Mai. Nessuno.

Il perchè è altrettanto chiaro: perchè ci guadagnano. Tutti. Basta pensare com’è finito il «programma» di abolizione delle provincie; la Lega è stata la prima a cancellarlo di fatto, Bersani d’accordissimo. E’ incredibilmente bello poter moltiplicare i centri di spesa, mantenere clientele sempre più numerose e  parassitarie con i soldi dei contribuenti, senza alcun controllo. E per di più «legalmente», perchè secondo le procedure «democratiche» sancite dalla Costituzione.  Non è furto, sono le «regole».

Avrete notato che si parla meno di leggi, e più di «regole». Il testo che sto rileggendo mi ha dato una risposta:

«Il sistema non produce che regole, e mai principii».

Si guardino le tifoserie dal vedere qui una surrettizia difesa del berlusconismo, accusato dalle sinistre di infischiarsi delle «regole», quando nella canea pre-elettorale ha mancato di presentare in tempo le liste, e pretendeva di poter avere comunque il suo simbolo sulle schede.

Jean-Marie Guéhenno
   Jean-Marie Guéhenno
Il testo che sto rileggendo è stato scritto nel 1993, dunque prima che Berlusconi diventasse un politico di successo; il suo autore Jean-Marie Guéhenno, francese, filosofo della politica, non s’ispira alla cronaca, ma affronta il problema fondamentale: «La fine della democrazia», è il titolo (Flammarion).

«La democrazia viene progressivamente distrutta dalla scomparsa della politica, origine delle idee generali e delle grandi decisioni».

«Il dibattito politico tradizionale - dibattito di principii e di idee generali, dibattito ideologico, dibattito sull’organizzazione della società, si sbriciola», a forza di moltiplicazione dei centro di potere «autonomi», che ci vengono venduti come un «avvicinare il potere al cittadino di base», dunque per definizione democratici.

Guéhenno dipinge una situazione di frazionamento di poteri che ben conosiamo:

«Come il Comune non è più compreso nella regione, che non è più compresa nello Stato, così la piccola decisione non si deduce più dalla grande... Non vi sono più grandi decisioni da cui deriverebbero le piccole decisioni, leggi da cui deriverebbero i decreti».

Un governo lancia un piano per rammodernare il patrimonio edilizio privato, ma questo è vanificato dalle regioni, che hanno il loro programma urbanistico; e anche questo è bloccato dal più piccolo Comune, che difende gelosamente il suo «piano regolatore»: il risultato è la paralisi.

Il frazionamento di poteri «autonomi», e mai gerarchicamente subordinati, arriva fino all’impotenza del potere: che «piano regolatore» volete che sia quello di un comunello meridionale di 4 mila abitanti, se non l’abuso edilizio dei compari chiamati «elettorato»? Eppure è sovrano rispetto allo Stato. Naturalmente, la paralisi colpisce  solo «le grandi decisioni» politiche; non frena affatto le malversazioni, il saccheggio anzi ne è notoriamente favorito.

Una delle conseguenze di questa paralisi è così descritta da Guehenno:

«La funzione principale delluomo politico, impotente (...) consiste ormai nella gestione professionale delle percezioni collettive. (Ciò) lo costringe ad esistere in quanto prodotto mediatico».

Detto nel 1993,  mi pare profetico. E conferma quel che le tifoserie non capiscono: che Berlusconi non è il colpevole della morte della politica, ne è un prodotto. E’ ben prevista anche con anticipo la reazione dell’opposizione italiana:

«Il dibattito su un problema si trasforma in dibattito sullintegrità personale di un uomo, sul suo rispetto delle norme istituzionali, unico standard accettato di funzionamento di una società senza scopo».

Regole contro principii. I parlamenti si fanno indicare leggine dalle lobbies, dagli interessi particolari;  in USA, siccome i lobbisti costano, «solo gli interessi solvibili» (che pagano) vengono rappresentati. Lo stesso avviene in Italia, con più volgarità e furbizia. Quel che resta non rappresentato è «linteresse della collettività nel suo insieme. Per definizione, non esiste una lobby della nazione».

O meglio: sarebbe il parlamento. Era nato per questo, ora non adempie più il suo compito. E’ una inadempienza, un alto tradimento, che le «regole» non sono nemmeno capaci di definire, men che meno di colpire. Continuiamo a votare gente che, già lo sappiamo, non ci rappresenterà come popolo, ma (al massimo) come clientela privata.

Da qui la corruzione. Inutile l’indignazione moralistica (e selettiva) contro questo o quel personaggio, come se fosse questione di immoralità privata. Quando la corruzione è così sistematica, sono le istituzioni - non i singoli - che vanno chiamate in causa. La tangente, il servizio in camera della velina, sono un risultato della morte della politica.

«Dal momento che la potenza pubblica si contenta di dare servizi’, non è anormale, in una economia di mercato, che i servizi vengano remunerati».

Tanto più, in quanto il sistema post-politico seleziona delle nullità. In un mondo «relazionale» di poteri frazionati, autonomi e privi di gerarchie, alla persona cosiddetta importante che aspira a un posto importante non si chiede: «Chi sei?», bensì «Con chi parli?». Chi sei in grado di raggiungere al cellulare? Di quanti numeri importanti è piena la tua agenda?

Non è un caso se le intercettazioni telefoniche sono diventate l’arma totale della lotta (pseudo) politica; e la magistratura, il terzo potere inadempiente dotato di impunità superiore, la usi senza alcun riguardo alle «regole».

Regole al posto dei principii. Non c’è più un contratto sociale che preceda e superi tutti i contratti particolari, sicchè la regola «non è più espressione di sovranità, ma semplicemente un modo di ridurre il costo delle transazioni, aumentandone la trasparenza».

Già, la gran richiesta di «trasparenza». Ma cosa sono i principii che sono stati sostituiti? La solidarietà collettiva, ad esempio, il senso del destino comune.

«Invece di uno spazio politico, luogo di solidarietà collettiva, vi sono solo percezioni dominanti, tanto effimere quanto gli interessi che le manipolano... Una società che si frammenta allinfinito, senza memoria e senza solidarietà. Una società senza cittadini: dunque alla fine una non-società».

L’altro principio abbandonato è la verità. L’idea che, nella vita personale e collettiva, esista la verità e vada ricercata. Le regole, infatti, dicono questo:

«In fatto di verità non vi sono che istruzioni per luso. Qualsiasi regola che funzioni merita considerazione».

Questo è il motivo profondissimo per cui il futuro (post-politico) appartiene all’Asia, al Giappone e alla Cina: modelli compiuti di un mondo «dove la regola sostituisce il principio», che può «impregnarsi di altre civiltà (la «modernità» occidentale) restandone perfettamente impermeabile... che dall’Europa sa imparare tutto tranne una cosa, l’idea della verità».

La verità per cui Socrate accettò l’esecuzione, piuttosto che piegarsi al politicamente corretto e  rinnegare quella che la sua coscienza (il suo daimon) gli suggeriva: che la verità esiste, che è una, che si può trovare. La verità per la quale Cristo accettò il supplizio. L’Asia non ne ha bisogno, le bastano le «istruzioni per l’uso».

Ma è proprio la passione di Socrate e di Cristo a cui abbiamo rinunciato noi europei: la chiamiamo «tolleranza», pluralismo, e per questo siamo ostili ai «monoteismi» (cattolico o islamico) che  dicono che la verità esiste ed è una sola.

Ora si scopre che senza l’idea della verità muore la politica, e la democrazia. Accettiamo di vivere facendo

«Scomparire la battaglia delle idee in un mondo sufficientemente ben amministrato da far diventare inutile l’ambizione della verità».

Diventiamo a poco a poco cinesi, asiatici; ma siamo apprendisti, novizi, in questo mondo indifferente alla verità, in cui loro vivono da millenni.

Può non essere immediatamente chiaro perchè la rinuncia all’ambizione della verità comporta la morte della politica. E’ perchè l’ambizione di verità esige la libertà.

«La libertà ha due significati molto diversi: è stata il diritto di una collettività umana a prendere in mano il proprio detsino e dunque a dotarsi di un governo che esprimesse la sua volontà collettiva; ma è anche il diritto di ogni uomo di proteggersi dagli abusi del potere, la garanzia che la minoranza non sarà schiacciata dalla maggioranza».

Si è lottato per secoli, per queste libertà, per la «liberty» e per il «freedom». C’è voluto coraggio, il coraggio che viene dalla convinzione che la verità esiste, e che essa debba essere liberamente espressa o ricercata. Adesso, data per scontata la «conquista», c’è una deriva della libertà: potete mascherarvi da transex e andare in TV come Platinette, ma non affermare che la verità è una. Non affermare una decisione politica nell’interesse comune:

«La libertà che non riesce a esprimersi se non nell’irrisorio contribuisce a screditare la politica; questa ha perso la capacità di produrre autentiche decisioni».

Naturalmente il sistema post-politico è morbido:

«A differenza delle dittature delletà istituzionale, non si accanisce a soffocare la libertà: ha semplicemente rinunciato a farne la sua principale ambizione. Ma tutto questo importa ancora agli uomini di questa età?».

I poliziotti del pensiero che vi impediscono di affermare che la verità è una, non sono agenti del governo, sono i vostri vicini, il vostro prossimo. Siamo poliziotti di noi stessi.

«Abbiamo la sensazione di non essere mai stati così liberie compiangiamo i nostri antenati, sottomessi ad ogni specie di costrizione che non ci riguardano più. Sia che si tratti dei film che guardiamo, degli abiti che indossiamo, e - ciò che è più importante - dei sentimenti che proviamo, non cè più alcun divieto».

Ma come mai questa libertà di vestirci come Platinette e dichiararci trans ci lascia sapore di cenere in bocca? Chiamatela, se volete, disaffezione.

Sui risultati delle regionali mi limito a notare questo: la disaffezione e l’astensione, che dovevano  punire il Pdl, hanno penalizzato la «sinistra». Nonostante la Bonino, nonostante  i suoi continui  travestimenti, il PD continua a non crescere oltre il 25%, il che significa che è rifiutato dai tre quarti della popolazione. Ciò perchè i cittadini hanno capito che il PD è il partito della Casta, delle burocrazie inadempienti e predatrici, dei ricchi di Stato.

Fra il Salame e la Casta, la gente sceglie il meno peggio.

1) I governi presunti virtuosi, dove i contrappesi apparentemente funzionavano meglio dei nostri e per questo il debito pubblico era contenuto attorno al 50% del PIL, hanno di colpo aumentato l’indebitamento per salvare le banche e la lobby bancaria. Ormai gli USA e la Gran Bretagna hanno un debito pubblico sul 90%, non più tanto lontano dal nostro 102; e hanno creato il buco in pochi mesi. Il Giappone  ha un debito superiore al 220% del PIL.

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