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Si smantella il globalismo. Senza dirlo.
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«Libera circolazione di merci, uomini e capitali». Ricordate? E’ il primo comandamento del liberismo globale. Nessuno Stato imponga dazi, nè impedisca l’entrata di lavoratori esteri, nè tantomeno ostacoli l’entrata e uscita di capitali stranieri. La violazione di uno di questi atti equivale a farsi definire fascisti, o protezionisti, magari sovietici, o comunque paria mondiali, passibili di emarginazione politica-economica, di multe del WTO e di riprovazione morale dell’Occidente.

Fino a ieri.

Qualche giorno fa la Thailandia ha introdotto una tassa del 15% sui Buoni del suo Tesoro ed altre obbligazioni nazionali detenuti da stranieri. Con trattenuta alla fonte. Deve farlo, perchè la produzione fluviale di dollari da parte della Federal Reserve e il tasso zero di USA, Europa e Giappone fa entrare colate laviche di capitali roventi in Thailandia alla ricerca di interessi più alti, distorcendo l’economia nazionale, gonfiando bolle speculative rovinose e rafforzando la divisa thailandese (bhat), il che distrugge l’export.

La stessa cosa fa la Corea del Sud, per gli stessi motivi: proteggere le sue esportazioni contrastando il rialzo della sua moneta, troppo richiesta dai mercati speculativi.

Il Brasile ha raddoppiato l’imposizione fiscale sugli investimenti stranieri, e studia di offrire titoli pubblici in reais con scadenza 30 anni. Vi interessano i nostri titoli brasiliani? Allora investite qui per 30 anni. Addio ai capitali roventi che si muovono con un click.

Russia e Taiwan hanno già norme di restrizione sui flussi di capitale. La Cina, non ne parliamo: il valore della moneta e del suo rapporto con le altre è un diktat di Stato. E presto, gli altri Paesi emergenti - a cui affluiranno i capitali roventi tenuti fuori da Corea, Thailandia e Brasile, facendo rincarare le rispettive divise - dovranno imitare la Thailandia.

Ciò significa controllo sui movimenti di capitale. Controllo pubblico, non abbandonato ai mercati ma imposto politicamente. Qualcosa che non si usava più da decenni, era brutale interventismo, era di cattivo gusto, da maleducati nell’arena globale.

Mahathir bin Mohamad
   Mahathir bin Mohamad
Ne sa qualcosa il signor Mahatir, l’uomo forte di Singapore, che nel 1997 - quando la Malaysia fu attaccata dagli hedge fund americani - ricevette la proposta di aiuto dal Fondo Monetario, con attaccate le solite ricette: aumenta i tassi d’interesse per trattenere i capitali roventi che se ne vanno dal Paese, poi applica misure di austerità. Invece Mahatir fece il contrario: abbassò i tassi d’interesse e stroncò la fuga dei capitali esteri esercitandovi il controllo di Stato. Addirittura, sostenne il corso delle azioni malaysiane comprando, con denaro pubblico, alla Borsa di Singapore.

Anatema! Interventismo! Antisemita! (Mahatir si prese anche questo epiteto: aveva accusato Soros della speculazione distruttiva del suo Paese).

«Fu severamente criticato da tutta la comunità finanziaria e dal Fondo Monetario», scrive scrisse l’economista Stiglitz anni dopo, «ma molte delle sue poltiche furono un successo... La recessione in Malaysia fu meno profonda e più breve di quella di tutti i Paesi» colpiti dalla stessa speculazione.

Invece, per fare un esempio, il venerato maestro Carlo Azeglio Ciampi a suo tempo emise BOT in dollari da vendere sul mercato di Londra – senza nessuna necessità, dato che i risparmiatori italiani prendevano tutti i BOT emessi - insomma ci indebitò in una moneta straniera, giusto per fare vedere a Washington e a Londra e alle logge quanto era moderno e globalista.

Oggi, Washington ha pochi numeri per ergersi a difensore della spontaneità dei mercati globali: dopotutto, l’iniezione di liquidità di triliardi di dollari emessa dalla FED non è un fatto naturale. E’ un intervento di Stato, solo al rovescio. Washignton tenta ostinatamente di sgretolare la propria moneta per diluire il proprio immenso debito estero, creare inflazione (stimolo ai consumi) e danneggiare i grandi esportatori, Cina in primo luogo.

«Washington vincerà la guerra delle valute», scriveva pochi giorni fa Martin Wolf, il super-guru del Financial Times, «perchè ha munizioni in quantità infinita: non cè limite alla quantità di dollari che la Federal Reserve può creare».

Può darsi. Ma intanto la risposta degli altri Paesi - almeno di quelli che hanno ancora una sovranità, senso della nazione e non sono servili (il che esclude noi europei) - è il controllo sui movimenti di capitali. Ossia l’inizio dello smantellamento del liberismo globale.

Tim Geithner
   Tim Geithner
Del resto, Tim Geithner, il segretario al Tesoro di Obama, ha avuto la faccia (o la disperazione) di proporre al G-20 di Seul un tetto globale e ufficiale ai deficit e ai surplus commerciali: nessun Paese deve importare o esportare più del 4% del suo PIL. Una proposta che il ministro tedesco all’Economia Bruederle ha definito educatamente «un ritorno alleconomia pianificata e alle sue dottrine» (Unione Sovietica, sei vendicata).

Già, perchè la Germania vuol esportare sempre di più, e ci riesce pure con l’euro forte. I suoi prodotti non sono tanto sensibili ai prezzi (alti) che costano, nemmeno in tempo di recessione globale, per l’alta qualità intrinseca. Che abbiano qualcosa da imparare i Marchionne e la CGIL?

Nei Paesi asiatici esportatori l’uscita ha suscitato, più che irritazione, una certa tendenza al sarcasmo, anche più preoccupante per l’autorità americana.

«Obama esige che Giappone e Cina comprino per decreto più merci americane», ma dove sono le merci americane?, si legge su Asia Times. «Non sono i mercati a limitare lexport USA: è che non ci sono beni americani da esportare. E chi non comprerebbe granaglie americane, coi prezzi attuali alle stelle, se ce ne fossero nei silos americani?».

Insomma nessuno là obbedisce più agli Stati Uniti e al suo dogma globale. E persino il Fondo Monetario ammette che il controllo sui capitali è uno strumento legittimo purchè a breve termine. Nemmeno il Tempio crede più al dogma.

A parte Jean-Claude Trichet, voglio dire. Il governatore della BCE ha aggiunto la sua voce di critica (anglo-americana) del controllo sui capitali operato dalla Thailandia: dire no al protezionismo, niente politiche di svalutazione a danno del vicino (beggar thy neighbour policies).

Infatti la BCE è la sola virtuosa: non fa nè come gli Usa, nè come la Cina, nè come la Thailandia. Non partecipa alla guerra delle valute, perchè l’ideologia glielo vieta, ignara di essere l’ultima a credere al falso dio invecchiato. E assiste con sovrana indifferenza alla perdita di quote di mercato e di posti di lavoro industriali che procura l’euro forte a tutti gli altri europei, a parte la Germania.

Già, perchè la Germania si è ripresa, anzi passa adesso a un periodo di boom (oggi il 47% dei beni esportati dall’Europa in Cina sono tedeschi) ha sottratto quote di mercato a Francia e a Italia in una sua propria svalutazione competitiva dei sistemi sociali, e presto esigerà da Trichet o da chi sarà al suo posto alla BCE un rincaro del costo del denaro per raffreddare la sua economia troppo calda. Il che sarà la rovina dell’eurozona, e la sua esplosione a danno dei Paesi non-competitivi, come l’Italia.

Non solo dovremo esportare con una moneta forte che si scrive euro e si legge marco, ma avremo tassi d’interesse alti quando ce ne servirebbero bassi, deflazione quando ci servirebbe un po’ d’inflazione. E anche questo, per interventismo dirigista - solo a rovescio, come al solito. Di questo dovrebbe occuparsi Trichet, visto che l’EU è nelle sue competenze, dopotutto.

Ma non ci speriamo troppo: nei libri sacri del globalismo questo tipo di problemi non sono contemplati, nè le soluzioni previste.



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