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POLITICA E VIRTÙ: consigli ai governanti
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Introduzione

Dopo gli ultimi avvenimenti della vita politica nel Comune di Roma (dicembre 2014) mi sembra opportuno porgere al lettore alcune riflessioni fatte da Aristotele, da san Tommaso d’Aquino e dagli scolastici della Controriforma sulla necessità dell’armonia tra politica come morale sociale e vita morale individuale.

Il buon senso stesso consiglia la vita virtuosa non solo nei singoli, ma soprattutto nei governanti, che non debbono rispondere solo di se stessi ma anche degli altri.

Quando san Pio V fu eletto Papa disse: «da semplice frate ero molto speranzoso della mia salvezza eterna, quando fui fatto vescovo cominciai a trepidare e adesso che debbo governare la Chiesa universale mi sentirei umanamente disperato se non avessi la speranza soprannaturale nell’onnipotenza ausiliatrice di Dio».

Infatti il governante (civile  e soprattutto religioso) non deve solo rispondere dei suoi atti, ma anche di quelli dei suoi sudditi. Ecco la gravità della responsabilità del governo politico e religioso. Purtroppo la malizia umana è talmente grande che porta gli individui a ricercare il governo visto come appagamento dell’orgoglio e dell’avarizia e non come ònere riguardo all’arte di condurre i sudditi al loro fine temporale e spirituale.

Nella prima parte tratterò delle virtù necessarie al buon governo. Dopo seguiranno le considerazioni teoriche sul perché del distacco della politica moderna dalla morale individuale, distacco dovuto 1°) alla filosofia nominalista, soggettivista e individualista, che rinnega la morale oggettiva e naturale; 2°) alla ideologia naturalistica e a-morale di Machiavelli.

LA VIRTÙ È INDISPENSABILE AL GOVERNANTE


La seconda scolastica: Ribadeneyra e Bellarmino


Gli autori scolastici[1] asseriscono che nessun uomo è un buon governante per nascita, ma solo perché ha determinate qualità o virtù, ossia non si diventa capi per meriti di famiglia (tranne che nella monarchia ereditaria), ma per meriti personali.

S. Tommaso d’Aquino insegna: «Solo la scienza, la virtù e altre prerogative del genere rendono una persona idonea ad esercitare l’autorità» (S. Th., II-II, q. 102, a. 1, ad 2um). Il politico, e soprattutto il prelato, oltre alla scienza deve avere la virtù perché è impossibile che un uomo senza prudenza, giustizia, fortezza e temperanza possa promuovere il bene comune della Società. «Nessuno dà quel che non ha / nemo dat quod non habet». Ora il governante deve procurare il bene comune temporale della società e dei suoi sudditi (mentre il prelato quello soprannaturale). Quindi deve avere la prudenza sociale che è l’essenza della politica per poter assicurare il bene comune ai suoi cittadini. Infatti se non ha il bene, il vero e l’ordine in sé non può darlo agli altri. A maggior ragione ciò vale per il prelato che si situa ad un livello superiore a quello puramente naturale.

S. Tommaso insegna che la saggezza e la potenza sono sorelle della vera religione, che il capo il quale guarda più alla ragion di Stato che alla legge di Dio perderà sicuramente il suo Stato. Così il prelato il quale mira più al funzionamento del suo governo che alla salvezza delle anime perderà il suo gregge. Questo è il dramma della politica moderna, che a partire da Machiavelli guarda principalmente alla ragion di Stato e non alla virtù di prudenza nel vivere sociale per assicurare il bene comune.

L’errore è causa delle rivoluzioni nei sudditi

Gli errori filosofici e le eresie teologiche sono la causa delle rivoluzioni e della rovina degli Stati. Poiché la legge di Dio ci insegna ad obbedire ai nostri capi, nelle cose che non son contrarie ad essa, colui che obbedisce a Dio necessariamente obbedirà al governante. Invece quando l’uomo si scatena a causa dell’errore e dell’eresia, perde la soggezione che deve a Dio e, simile ad un cavallo senza freno, trascura anche l’obbedienza al suo capo. Colui che tradisce il proprio Dio tradisce anche il suo principe. Dunque dalla slealtà e dalla disobbedienza nascono le ribellioni contro i prìncipi, le rivolte e le divisioni dei regni, l’incendio e la devastazione degli Stati. «Dietro i sofismi filosofici vengono le eresie teologiche e dopo le eresie è il turno del boja» (Donoso Cortès). Ogni rivoluzione sociale è preceduta da un’eresia e questa da un errore filosofico. Di qui la necessità per i governanti e i prelati di vigilare sulla retta dottrina e la sana condotta morale dei loro sudditi.

La virtù di giustizia nel Capo

Il principe deve fondarsi sulla giustizia per dare a ciascuno ciò che è suo per diritto. Gli onori e le ricchezze che possiede appartengono più alla società che alla sua persona, quindi non può disporne a piacimento, ma deve ripartirli in base ai meriti e ai servizi resi alla comunità. Per ben amministrare le risorse della società, il principe non deve tener conto di patrimoni e di lignaggi, ma delle virtù e delle opere di ciascuno. Favorire un ricco solo perché è tale, significa dargli un’occasione in più per arricchirsi e scialacquare le sue sostanze. D’altro canto, onorare un uomo solo perché i suoi antenati furono valorosi fondatori della nobiltà del suo casato significa disonorare la virtù e recare affronto agli stessi antenati. I poveri e coloro che non sono di sangue nobile, ma hanno la speranza di progredire, se si animano con lo stimolo dell’onore e del premio, compiranno azioni meravigliose al servizio del bene comune. Dal canto loro i nobili, vedendo che a nulla vale essere tali solo per nascita, per non perdere l’eredità degli antenati si sforzeranno di conservare vive le splendide tradizioni della loro casa. Perciò il principe deve anteporre il povero virtuoso al nobile dissoluto, l’uomo di basso lignaggio ma capace, alla falsa nobiltà, perché solo la virtù è la vera nobiltà. A maggior ragione il prelato deve anteporre la virtù dei soggetti ad ogni altra considerazione nel conferimento delle cariche ecclesiastiche.

Le tasse giuste


Il buon principe è equo nell’imporre le tasse.
Il principe giusto è chiamato anche pastore, perché deve reggere e governare, come il buon pastore, il suo gregge, difendendolo dai lupi e dai malanni e cercando di realizzare il suo bene. Soprattutto in una cosa il buon principe assomiglia al pastore: come il pastore tosa il gregge senza scorticarlo, così si comporta il buon principe nell’imposizione dei tributi, che non dovrebbero superare il 20% del guadagno del capo famiglia[2], il quale con il suo solo stipendio dovrebbe poter mantenere decorosamente la sua famiglia (Leone XIII, Enciclica Rerum novarum, 15 maggio 1891). Quindi la prima preoccupazione del principe in materia fiscale è di non ascoltare gli adulatori che, per interesse, cercano ogni giorno nuovi arbitrii per dissanguare il regno. La seconda preoccupazione è di mostrare che le tasse son dovute alla necessità dello Stato e non al suo capriccio, in modo che i cittadini lo aiutino e non si sdegnino davanti allo spettacolo di un capo che, non essendo ricco, dilapida il pubblico denaro in spese inutili. Inoltre è giusto che un governante sia ricco per poter far del bene a chi ne ha bisogno, per resistere ai nemici; però queste ricchezze non vanno accumulate a discapito della ricchezza dello Stato, ma con cautela, poiché si ammassano grosse ricchezze più con lo spender poco, che col ricever molto.

Giustizia e misericordia del governante


Il principe virtuoso deve avere oltre la giustizia anche una gran clemenza e specialmente deve averla il prelato che governa direttamente le anime. Infatti ogni cosa riguardante la giustizia deve essere accompagnata dalla misericordia, poiché se la misericordia senza giustizia è debolezza, una giustizia senza misericordia si converte in crudeltà. Perciò i prìncipi troppo severi e rigorosi si rendono antipatici e, tirando troppo la corda, la spezzano.

La necessità di buoni consiglieri


Di qui deriva la necessità di avere dei buoni consiglieri. Ogni principe ha necessità di un buon consiglio, a causa della debolezza e della miseria dell’uomo, che ha bisogno di molti appoggi e aiuti per non cadere. In contingenze particolarmente gravi ogni uomo deve ricorrere ad un consiglio e non fidarsi soltanto del suo parere per la debolezza dell’intelletto e la forza delle passioni che accecano e annientano anche la più forte delle volontà. La vera prudenza insegna anche a saper trarre giovamento dagli altrui consigli. Chi non si attiene a questa regola finisce con il peccar di presunzione. S. Giovanni Crisostomo afferma: «È proprio solo di Dio il non ricorrere ai consigli altrui, come invece debbono fare tutti gli uomini» e san Bernardo da Chiaravalle: «Chi dirige se stesso è diretto da un asino».

La schiettezza del consigliere


S. Gregorio Nazianzeno dice che un consigliere deve essere dotato di grande esperienza, molta carità e libertà di parola.  Conviene, dunque, che i prìncipi e i prelati si servano di uomini in grado di affrontare le più disparate questioni o, in mancanza, di vari consiglieri, ciascuno specializzato in un particolare genere di problemi. Una dote grandemente necessaria al consigliere consiste nel saper esprimere liberamente il proprio parere, non serve a nulla che il consigliere sia prudente, scrupoloso e abile nella soluzione dei problemi, se poi non ha il coraggio di esporla. Una cosa è essere prudenti e virtuosi, un’altra essere un buon consigliere, perché senza questa libertà la prudenza e la virtù non danno alcun frutto. A volte per non offendere il principe o il prelato, altre volte per compiacerlo, succede che il consigliere taccia oppure che dica il contrario di ciò che pensa. I consiglieri sono deboli a volte per un cattivo comportamento del principe, che alle volte chiede  consiglio per pura formalità, avendo già deciso le sue azioni, e mostra di mal sopportare chi lo contraddica. Tale comportamento è nocivo e spinge i consiglieri a dire solo ciò che al principe fa piacere. Il buon principe non deve offendersi se qualcuno non è d’accordo con le sue idee, ma al contrario deve incoraggiarlo con pazienza e benignità.

Il gran pericolo degli adulatori


Occorre difendersi dagli adulatori mediante la prudenza che è necessaria anche per distinguere il vero amico dal falso, per riconoscere l’adulatore e il consigliere fedele. L’uomo, alimenta nelle viscere un amor proprio che lo acceca, lo illude, gli fa credere di meritare molto, di dover essere anteposto agli altri e lo incita ad aver stima di sé e disprezzo per gli altri. In genere è un sentimento più forte nei prìncipi e nei prelati, perché la corruzione della natura umana aumenta con il lusso e il comando. Ora se la fiamma che regna nei prìncipi  viene alimentata dall’adulazione, cosa ci si può aspettare se non che consumi il principe stesso, trasformando in cenere tutto il suo Stato? Con parole e consigli più viscidi dell’olio gli adulatori trafiggono come frecce acute i cuori dei prìncipi. Il più pericoloso tra gli animali feroci è il tiranno e tra gli animali domestici l’adulatore. L’adulatore, che corrompe la verità, è peggiore del falsario. Purtroppo alla fine gli adulatori prevalgono assoggettando l’animo di chi li ascolta, perché le loro parole sono conformi all’amor proprio, cioè a quell’adulatore interiore che noi tutti possediamo e che falsamente ci predica di noi stessi.

Sapere discernere veri e falsi consiglieri


Come discernere il vero amico dal falso? Nulla è più difficile e più utile che conoscere se stessi perché senza ciò gli adulatori oscurano la luce che Dio ha infuso nelle nostre anime e senza la quale non possiamo né vedere né conoscere. Riguardo ai veri e ai falsi amici, è molto difficile distinguerli, perché, pur seguendo finalità opposte, si servono di mezzi molto simili. La vera sostanziale differenza consiste nel fatto che il vero amico ama con amore sincero, senza scopi personali, mentre l’adulatore ama per primo il proprio interesse e in vista di vantaggi personali. Il vero amico, nel giudicare un affare, per prima cosa guarda al bene o al male che possono derivarne al principe o alla società; l’adulatore subito considera che guadagno o danno la cosa può causargli. Il vero amico cerca di accontentare per quanto è possibile, senza tirarsi indietro quando è il momento di dire la verità, cosa che fa con modestia e libertà, perché preferisce recare un effettivo giovamento al suo signore piuttosto che compiacerlo quando non è il caso. L’adulatore si preoccupa di dire ciò che fa piacere, allontanando tutto ciò che potrebbe corrucciare il principe, per meglio ingannarlo e convincerlo. Per sapere se un amico è vero o falso, il principe deve mostrare di preferire ciò che poco prima lo disgustava e viceversa: subito l’adulatore gli darà ragione dicendo che prima si era meravigliato del suo parere. Al contrario il vero amico, che conosce la differenza tra bene e male, non si comporterà mai in tal modo. Inoltre il principe deve seguire la propria coscienza e, se questa lo rimprovera mentre l’adulatore lo loda, capisca che si tratta di una chiara menzogna, e non di vera lealtà.

Anche san Roberto Bellarmino[3] dà ottimi consigli ai governanti che riassumo qui brevemente.

I governanti non sono padroni assoluti ma amministratori di Dio


I re della terra non sono padroni assoluti del loro principato e i prelati delle loro diocesi, ma governatori solo durante il tempo di regno concesso loro dal Re supremo, con l’obbligo di rendergliene conto nel giorno del giudizio. Dal Signore fu loro dato il potere ed Egli esaminerà le loro opere e scruterà i loro pensieri. Se ministri del suo regno, non avranno governato rettamente, rigorosissimo giudizio sarà fatto di quelli che stanno in alto. Infatti c’è molta differenza tra i peccati dei prìncipi e quelli dei privati cittadini, toccando i primi gli interessi di molti e i secondi gli interessi di pochi. Quindi i governanti saranno giudicati non solo quanto alle loro azioni ma anche quanto a ciò che han fatto fare ai loro sudditi.

Il confessore del governante

Il sacerdote confessore del principe o del prelato è giudice ed ha la potestà nel foro interno di legare e sciogliere. Ne è segno evidente il fatto che durante la confessione il sacerdote siede col capo coperto, mentre il penitente, chiunque esso sia, anche se re e imperatore, vescovo o Papa, è genuflesso, ed è a capo scoperto. Ora la salvezza del principe dipende in modo particolare dal confessore. Guidare le coscienze dei prìncipi è un compito immane e richiede un uomo non solo esperto, bensì anche molto prudente e costante e che non abbia alcun desiderio personale, non abbia ambizione alcuna, ma cerchi e voglia solo la salvezza eterna del suo principe e dei suoi popoli. Se il confessore non ha il coraggio di rifiutare l’assoluzione ad un uomo così importante, ascolti ciò che dice lo Spirito Santo: ‘Non cercare di diventar giudice, se non hai la forza di sradicare le ingiustizie, perché tu non abbia a temere in faccia al potente’ (Sir., VII, 6). Non è integra la confessione di un principe o di un prelato che confessa solo i peccati commessi come privato cittadino e non manifesta, invece, i peccati commessi in quanto principe o vescovo. Non mancano prìncipi che, per quanto riguarda la propria persona, sono molto pii e giusti, ma non conoscono per negligenza i peccati dei loro collaboratori e frattanto i poveri vengono oppressi, i processi stravolti e i piccoli scandalizzati. L’ignoranza scusa il principe solo se è invincibile. Perciò egli deve riflettere seriamente sulle qualità dei suoi ministri ed indagare sul loro comportamento e sul loro modo di governare. Se un sindaco chiama dei malavitosi al governo come minimo è sconsiderato. Il confessore, dunque, non deve contentarsi della confessione che il principe fa come uomo privato, specialmente se sa dall’opinione pubblica, o in altri modi, che i suoi ministri non si comportano bene nell’amministrazione dello Stato. Il confessore che si accorgesse che con qualche principe o prelato perde il suo tempo, perché questi non vuol seguire i suoi giusti ammonimenti, chieda umilmente di essere esonerato e, se non gli viene concesso, prenda da solo la decisione. Infatti è meno grave sopportare l’ira del principe terreno che quella di Dio.

Infine Bellarmino mette in guardia il principe a non lasciarsi dominare dalla moglie. Infatti abbiamo esempi nelle S. Scritture dai quali possiamo conoscere quanta sia l’incapacità della donna a contenersi e a quali orrendi precipizi le mogli abbiano spinto i loro mariti: Eva la moglie di Adamo e Dàlila la moglie di Sansone. Questo è un difetto che i prelati non dovrebbero avere se fossero veri prelati.

POLITICA MODERNA E TRADIZIONALE


Occam e Machiavelli


In filosofia politica la modernità individualista e soggettivista (G. Occam † 1349, N. Machiavelli† 1527, T. Hobbes† 1679, J. Locke † 1704) ribalta la dottrina sulla natura socievole dell’uomo e lo presenta come un individuo «apolitico» o «asociale» poiché la natura o l’essenza universale e stabile sono inesistenti per la modernità, che è figlia del nominalismo occamista. Quindi l’ordine sociale e politico non è più un dato naturale, ma un qualcosa di artificiale e soggetto a manipolazioni individuali e soggettivistiche umane.

Machiavelli (1469-1527) è il pensatore che ha teorizzato in maniera sistematica l’autonomia della politica dalla morale. Secondo Machiavelli politica e morale non debbono combattersi, ma neppure essere subordinatamente coordinate (agnosticismo sociale).

Esse, per Machiavelli, esistono indipendentemente e separatamente l’una dall’altra e debbono ignorarsi senza farsi guerra. Il machiavellismo è un sorta di indifferentismo o agnosticismo politico. Non è la lotta contro la morale, ma è il non volersi porre il problema etico e dunque agire in società, ossia politicamente, come se la morale oggettiva non esistesse per il Principe.

L’uomo di Stato o il Principe, secondo Machiavelli, dirigendo lo Stato verso il suo fine: la felicità e la sicurezza puramente naturali dei cittadini, deve prendere, in teoria e in pratica, soltanto quei mezzi che risultano migliori per il suo scopo, che è la «ragion di Stato», indipendentemente dalla legge morale oggettiva e universale anche se non forzatamente contro di essa, ma eventualmente sì, ove esse entrino in contrasto. Secondo il Fiorentino esiste solo la natura e non la grazia, la quale tuttavia può aiutare i cittadini a vivere nell’obbedienza al Principe, mentre per Lutero solo la grazia può integrare la natura intrinsecamente corrotta e malvagia.

L’errore fondamentale della nuova politica machiavellica consiste nel voler sostituire alla morale oggettiva e naturale e alle regole oggettive di essa gli interessi dello Stato e del Principe. Come Lutero ha introdotto il soggettivismo in religione, Cartesio in filosofia, Machiavelli lo introduce nella politica. La filosofia politica tradizionale voleva unire la Società a Dio, mentre quella moderna vuole una politica autonoma dalla morale e da Dio.

Aristotele e san Tommaso


Invece, secondo Aristotele e la scolastica, soltanto nella Società civile o politica e non da solo, individualisticamente o isolatamente, l’uomo perviene alla realizzazione piena e perfetta delle sue potenzialità. Onde l’uomo è «animale socievole per natura».

Nel De regimine principum (lib. I, cap. 15) di san Tommaso si spiega che «la Società civile o politica è come una nave, la cui navigazione ha due aspetti: solcare il mare e portare i passeggeri in porto. Ossia la politica e il bene comune o sociale hanno un duplice compito: immanente (navigare) e trascendente (giungere al Cielo)». La vera Civiltà ha come fine immediato il benessere comune temporale e sociale dei cittadini, ma il suo Fine ultimo è il Sommo Bene (De regimine principum, lib. I, cap. 16). La politica rappresenta il fine intermedio; perciò va coltivata, ma non bisogna fermarsi ad essa (S. Th., II-II, q. 58, a. 5).

L’uomo non può vivere da solo, ma ha bisogno di altri esseri umani per formare prima una società imperfetta (la famiglia) e poi una Società perfetta (lo Stato, che è l’unione di più famiglie e di più villaggi). Naturalmente l’uomo è animale razionale e sociale (ossia intelligente, libero e vivente in società o pòlis). Rifiutare l’elemento politico o sociale dell’uomo è innanzi tutto un errore filosofico o antropologico, che ha una falsa concezione metafisica della natura dell’uomo. Infatti, se l’uomo in sé è intrinsecamente corrotto, la Società (familiare, sociale e religiosa), che risulta dall’unione di più uomini sotto un’autorità, è anch’essa intrinsecamente malvagia; inoltre anche la Chiesa nel suo aspetto giuridico e gerarchico è perversa come lo è lo Stato.

L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri, non è un animale solìvago. Egli deve avere Dio ‘al di sopra’, gli uomini ‘accanto’ e la terra ‘sotto i piedi’. Ossia deve essere realista (con i piedi per terra), religioso (Dio è il Fine ultimo) e socievole (vivere assieme agli altri uomini). La famiglia, per esempio, che è una Società imperfetta, suppone il corpo dell’uomo orientato alla generazione, fine primario del matrimonio, ma essa deve essere seguìta dall’educazione che sorpassa la vita animale e corporea in quanto riguarda quella razionale e ordinata ultimamente al fine spirituale.

Lo stesso si può dire della Società civile e dello Stato. San Tommaso d’Aquino spiega che «agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese. Ma per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale all’uomo vivere in Società […] affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse»[4].

CONCLUSIONE

La conseguenza socio/politica di questi errori nominalisti e machiavellici è la negazione della bontà di ogni Società umana (famiglia/Stato). La radice di questo errore va ricercata nell’occamismo individualista secondo il quale non esistono essenze e nature, ma solo individui. Ora l’individualismo porta a propugnare la rivolta contro ogni autorità, non solo quella statale, ma anche umana e divina, per arrivare all’autonomia assoluta dell’individuo. La natura dell’individualismo è l’autonomia dell’individuo e la società senza autorità umana e divina. Esso fa dell’individuo l’Assoluto, del mezzo il fine e della creatura il Creatore. Ma l’individualismo nominalista è contraddetto dagli stessi filosofi soggettivisti e idealisti almeno nella vita pratica. Essi in teoria propugnano l’idealismo o il soggettivismo individualista della conoscenza e dell’etica, ma in pratica agiscono, e quindi pensano, da realisti.

Conoscere significa apprendere qualcosa come un oggetto il quale sta davanti a me indipendentemente dal mio pensiero (ob-jacet). Non sono io che produco col mio pensiero questo oggetto che giace (jacet) davanti (ob) a me. Ora «l’azione segue l’essere e il modo di agire segue il modo d’essere». Quindi conosco e agisco in base ad una realtà e a leggi oggettive.

Ogni uomo normale si rende conto che non è il suo pensiero a produrre la realtà e la morale, ma si tratta di una realtà e di una regola morale già costituita in se stessa prima che egli la conosca. Quindi lo Stato, essendo un insieme di famiglie che si uniscono e formano un villaggio e poi più villaggi formano una Civitas o una Polis, è conforme alla natura umana, che è fatta per vivere socialmente in unione con gli altri (famiglia, villaggio e Stato). Infatti l’uomo da solo non riuscirebbe a conseguire il suo fine temporale o naturale, ma ha bisogno della Società.

don Curzio Nitoglia




1) P. de Ribadeneyra, Il principe cristiano, Siena, Cantagalli, 2 voll., 1978. In questa prima parte sulla importanza della virtù nella vita politica mi baso sullo scritto di p. Pedro de Ribadeneyra uno dei primi gesuiti, che furono formati direttamente da S. Ignazio da Loyola.

2) I moralisti  in genere insegnano che l’imposta giusta, a proporzione costante, non deve superare circa il 10 % -20 % del salario (H. Collins, Manuel de philosophie thomiste, Parigi, Téqui, vol. III, pag. 359). “Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del loro diritto di imporre  i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca giustizia dei tributi... Per questo  oggi i teologi parlano di rieducazione dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità [imporre imposte giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda]...” (Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1954, vol. XII, col. 512).  Cfr. Pio XII, Allocuzione al Congresso dell’Associazione fiscale internazionale, 2. 10. 1956, in «La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici», a cura dei monaci di Solesmes, 2ª ed., Roma, Paoline, 1962, pagg. 677-679.

3)  R. Bellarmino, De officio principis cristiani, 1682, tr. it., Scritti Spirituali, il dovere del principe cristiano, Morcelliana, Brescia, 1997. In questa parte sulla importanza della virtù nella vita politica mi baso sullo scritto di s. Roberto Bellarmino.

4) De Regimine principum, lib. I, cap. 1.


 
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