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Preso il killer di Bruxelles. E non fate domande...
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È proprio lui, non c’è dubbio. L’ha preso la polizia francese a Marsiglia, a mille chilometri dal luogo del suo delitto. Corrisponde allo standard: giovane islamico, cittadino francese, si chiama Mehdi Nemmouche, carriera di delinquente comune, radicalizzatosi in carcere, è stato in Siria, dove deve aver combattuto per l’organizzazione terroristica Stato Islamico dell’Iraq. Insomma, ha tutte le caratteristiche previste.

Non ci credete? Al momento dell’arresto aveva con sé le armi, il kalashnikov, anzi persino il vestiario, fino al cappellino con visiera con cui è stato immortalato dalle telecamere del Museo giudaico di Bruxelles. Dubitate ancora? Ma gli abbiamo trovato una piccola fotocamera digitale, dove lui stesso ha prodotto un video di 40 secondi, che la Procura di Parigi descrive così: «(il video) mostra le due armi sequestrate, il vestiario portato dal tiratore e la fotocamera. In più una voce che sembra essere la sua, commenta le immagini spiegando che questo video è stato realizzato perché la ripresa in diretta della sparatoria al museo ebraico di Bruxelles con la telecamera GoPro non ha funzionato».

Insomma il pluriassassino, il gelido professionista della camere di sorveglianza di Bruxelles, si è incastrato da sé, facendosi beccare con tutte le prove che lo incriminano nel bagaglio. Il caso è risolto.

Finalmente si può respirare di sollievo. Perché – non so se ci avete fatto caso – dopo il terribile eccidio al Museo Ebraico di Bruxelles, non s’è prodotta la solita tempesta di indignazione e di grida all’antisemitismo; non si è utilizzata propagandisticamente questa tragedia; e sì che si poteva, visto che è avvenuta nell’imminenza delle elezioni europee... no. Immediatamente, su quel sangue è sceso il silenzio. Nessuna rivendicazione. I media evidentemente sono stati consigliati di parlarne il meno possibile. Fiato sospeso. Un silenzio, si deve credere, agghiacciato. Perché?

«È possibile che l’assassinio di Bruxelles non sia un attentato antisemita, ma un colpo mirato, una battaglia in una guerra segreta», ha sunteggiato Amir Oren, un famoso analista israeliano della Difesa, al quotidiano Haaretz.

Insomma, un regolamento di conti fra spie. Negli uffici israeliani dove certe cose si sanno (anzi si fanno), e dove i professionisti come quello sono a disposizione, ci devono essere state ore di panico: chi è stato, se non noi?

Anche là l’eccidio è apparso un regolamento di conti. E forse – terribile a dirsi – un regolamento di conti interno?


I coniugi Riva


Perché, come è venuto fuori a pezzi e bocconi, due degli uccisi, che si è cercato dapprima di far passare come «una coppia di turisti», erano in realtà due funzionari israeliani. Per giunta, in missione, o reduci da una missione. Emmanuel Riva, 54 anni, era ufficialmente un dipendente del ministero delle finanze sionista, ma soprattutto «lavorava per una organizzazione chiamata Nativ, fondata negli anni ’50 per coltivare segretamente l’educazione ebraica nell’URSS negli anni della Guerra Fredda, e spingere all’immigrazione in Israele» gli ebrei sovietici. Il KGB, questo malfidente, a suo tempo «accusò il Nativ di spionaggio». Il Nativ dipende direttamente dal primo ministro israeliano (1).

«La moglie Miriam Riva, 53 anni, lavorava per una agenzia del Governo non specificata», ha scritto Haaretz. Quest’agenzia non specificata è la Sicurezza Interna istaeliana (Shabak), come ha ammesso lo stesso Ministro Yitzhak Aharonovich, che dirige il ministero della Sicurezza Interna medesima. Il Ministro ha parlato al funerale dei due, i cui corpi sono stati rimpatriati in fretta e furia: «Erano due patrioti», ha detto dei morti. Poco meno che esequie di Stato. La tv israeliana Channel 10 ha aggiunto un particolare: la coppia «aveva lavorato per sei anni in Germania per un servizio del Governo»; «servizio al Governo» è spesso un eufemismo per lo spionaggio. Del resto, nella lista del personale dell’Ambasciata israeliana Berlino, Miriam Riva appare (o appariva) col grado di «attaché». Entrambi erano contabili, e come copertura lavoravano da contabili in Germania presso agenzie israeliane.

Arutz Sheva, il periodico dei coloni fanatici ebrei, precisa che i due «erano stati in shlichut dal 2007 al 2011». Se cercate la parola ebraica, scoprite che «shlichut» significa «inviare in missione». E che il Congresso Ebraico Mondiale ha un intero programma di Shlichut, i cui «missionari» danno – si legge nel suo sito – «assistenza umanitaria alle comunità della Diaspora, e promuovono la coscienza culturale fra detta Diaspora». Si aggiunga che, prima di essere mandati in missione, «i partecipanti sono sottoposti a un completo addestramento e accurato processo di selezione» per valutarne «la forza di motivazione, l’impegno nella missione e visione sionista». Essi sono per lo più «energici e dinamici professionisti, estremamente motivati», che vengono spediti all’estero per anni a «promuovere il sionismo fra la Diaspora».

Capite quindi il panico in quei certi uffici israeliani. «Chi è stato?» «Perché proprio loro?». Tutto uno scervellarsi, un fare ipotesi. Mai per un momento, in quegli uffici come in ogni altro «servizio» estero, si è creduto che la sparatoria di Bruxelles fosse opera di un dilettante: hanno riconosciuto sùbito il professionista che opera su commissione, calmo, freddo, preciso nello sparare e abilissimo nello sparire.

«Chi è stato, se non siamo stati noi?». Tutto un elucubrare, e magari, un sospettare. È stato qualche servizio straniero? E chi? Non è tanto lunga la lista dei servizi che osino sfidare Israele ed abbiano lo stomaco, e la copertura politica, per eliminare le sue spie: Russia? Hezbollah? Iran, forse? La Germania? Nemmeno a pensarci. Persino la domanda proibita: «Qualcuno dei nostri?». La Francia? Ma no, con Hollande e Valls al potere, che andate a pensare ai francesi?

Anzi no. Sono proprio francesi ad arrestare lo sparatore. Mehdi Nemmouche, proprio lui. I servizi interni francesi (DCRI Direction centrale du renseignement intérieur) avevano addirittura un dossier su questo giovane islamico-francese: dal 2009 l’avevano messo in una lista di persone ricercate a livello S, che significa «sicurezza di Stato»; il suo nome era nel sistema d’informazioni Schengen (SIS), quindi rilevabile ad ogni passaggio di frontiera.

Eppure la polizia francese insiste molto a dire che l’arresto del giovinotto è stato «del tutto casuale». E che «solo la lettura dei visti sul suo passaporto ha permesso (a posteriori, capite?) di ritracciare il suo tragitto di ritorno dalla Siria: un percorso molto complicato che mostra la volontà di confondere le tracce». Infatti risulta dall’esame dei visti (a posteriori) che Mehdi ha «lasciato Istanbul il 21 febbraio 2014 per la Malaysia, dove ha soggiornato per u mese e mezzo facendo brevi puntate a Singapore e a Bangkok». Non c’è male per un individuo bollato nelle liste della polizia di frontiera come «S». Mehdi viene segnalato ancora «il 18 marzo 2014, quando passa il controllo-passaporti all’aeroporto di Francoforte.

Sembra il passaporto di un inviato speciale, o di un uomo d’affari transnazionale: e qualcuno pagherà per questi viaggi intercontinentali, il vitto e l’alloggio. Non certo lui, povero Mehdi Nemmouche che il 4 dicembre 2012, appena uscito di prigione dov’era stato per anni per furto e rapina (sette condanne in un decennio: lo beccavano sempre), non avendo casa, «lascia come indirizzo quello di sua nonna e di sua zia a Turcoing».

Che c’è di strano? Anche i sicari professionisti hanno nonne e zie. Solo che Nemmouche, appena uscito di galera, non va a trovarle: si trasferisce direttamente dalla prigione al Belgio. Anche se non lontano da Turcoing, precisamente 10 chilometri, a Courtrai. Secondo la zia, «ogni tanto veniva a farci un salutino» (un petit bojour) traversando senza problemi la frontiera – che praticamente non esiste fra Francia e Belgio.

Poi, il 31 dicembre 2012, Mehdi Nemmouche parte per la Siria. Ma mica con volo diretto. Vi arriva passando da «Bruxelles, Londra, Beirut e Istanbul». Eccolo tornato l’inviato speciale di chissà chi.

Del resto, assicura il DCRI, «durante la sua ultima detenzione s’era fatto notare per il suo proselitismo estremista, frequentando un gruppo di detenuti islamisti radicali e facendo appello alla preghiera collettiva». Capite? «Si fa notare». Uno può farsi notare dai jihadisti per molti motivi, magari – Allah non voglia – perché deve infiltrarsi nelle loro file. Ma no, cosa andate a pensare. Il DCRI ne perde le tracce appena lascia Bruxelles per Londra e poi per Beirut e poi per Istanbul... «i servizi informativi tendono ad indicare che abbia raggiunto gruppi di combattenti jihadisti in Siria, ma non ha potuto essere localizzato e sorvegliato sul terreno». Sul terreno, ossia fra i jihadisti in Siria, dove il DCRI ha qualche entratura, e magari per ordine di Hollande e Valls addestra e finanzia alcuni di loro.

Ma facciamola corta, e veniamo all’arresto. Del tutto casuale, come dice la polizia, anzi la Procura francese. Ecco i fatti come li raccontano le suddette autorità:

Una settimana dopo aver compiuto l’eccidio a Bruxelles, con quel piglio da professionista, Mehdi Nemmouche torna in Francia. E mica va da zia e nonna nella vicina Turcoing. No: sale su un pullman di linea Eurostar che collega Amsterdam a Marsiglia. Lì intende andare, a mille chilometri più a sud. Forse doveva incontrare qualche complice, suggeriscono i francesi.

E come parte? Con il borsone delle armi che aveva usato nell’eccidio: Kalashnikov, centinaia di proiettili, per non parlare della pistola in tasca e della fotocamera in cui spiega che voleva auto-riprendersi (un selfie) mentre compiva la strage, ma la fotocamera non ha funzionato: un’autoaccusa in piena regola.

Passa la frontiera franco-belga sul bus, probabilmente sicuro: i controlli via terra sono sommari, siamo o no in Europa? È in vigore o no «Schengen»? Vabbè, c’è il suo nome nelle liste, con la sigla «S», ma lui ha girato il mondo e nessuno gli ha mai fatto storie. Stavolta no però. Ecco come il periodico Marianne descrive «la drole d’arrestation», lo strano arresto.

«Appena il bus è stazionato al parking della stazione di Saint Charles – a Marsiglia, mica alla frontiera – tre doganieri salgono a bordo».

Tre doganieri? Capito? Su un bus trans-europeo. Mai visto prima, vi giuro che se vado in Svizzera in pullman o in treno non ci sono «doganieri che salgono a bordo». Ma stavolta sì. Infatti:

«I doganieri dispongono di una lista di passeggeri ed hanno posto l’attenzione su qualcuno di loro. Nemmouche ne fa parte. Un doganiere si pone in fondo alla cabina del bus, un altro all’entrata, mentre il terzo comincia la sua ispezione».

È un modo di operare classico, tranquillizza Marianne. «Un gabelliere, notando un borsone posato su un sedile, lo soppesa. Gli sembra un po’ pesante. Scorge persino qualcosa che potrebbe sembrare la canna di un’arma. Non comunica a nessuno la sua sorpresa, ma trasporta il borsone all’entrata del bus».

«Gli sembra un po’ pesante. E spuntava una canna»... Giuro, non invento niente io, sto continuando a riferire il racconto di Marianne. La quale prosegue: «Siccome nessuno reagisce il doganiere chiede, con noncuranza, a chi appartenga questo sacco di biancheria».

Sacco di biancheria. Molto pesante, un po’ metallico visto che conteneva centinaia di proiettili.

«Passano alcuni minuti prima che Mehdi Nemmouche si smascheri: “È roba mia”, dice». Allora il doganiere in fondo al bus avanza e una rapida palpazione lo convince: il viaggiatore porta su di sé un’arma corta. Segue interrogatorio, a cui beninteso i giornalisti non sono ammessi. Ma sicuramente è lui, dicono polizia e procura, quello che ha commesso il quadruplice omicidio di Bruxelles. Non si può dubitarne.

Anche Marianne si domanda come mai il nostro giovinotto non si sia liberato delle armi — magari chiudendole in una cassetta al deposito-bagagli alla stazione di Bruxelles, come insegna ogni film di spionaggio che si rispetti. Armi che scottano, armi con cui si sono uccise quattro persone. E che dire dei vestiti? Un assassino professionista si disfa anzitutto dei vestiti con cui ha commesso il delitto, specie se è stato ritratto da telecamere di sorveglianza, e le immagini erano state diffuse in tutto il mondo: ebbene, invece, Mehdi si tiene tutto, anche il noto cappellino. Ci era affezionato, non voleva separarsene.



Arrestato l’uomo a Marsiglia, la polizia francese lo porta Levallois-Perret, vicino a Parigi: dove c’è la centrale anti-terrorismo francese e dove lo mettono sottochiave.

E perché, una volta scoperto, il terrorista islamico Mehdi Nemmouche si è arreso come un agnellino? Non ha tentato di scappare? Non ha fatto fuoco contro i doganieri urlando Allag Akbar?

Un altro jihadista pluriomicida, Mohammed Merah, tempo fra in Francia s’è asserragliato, ha sparacchiato dalle finestre, e la polizia ha dovuto ammazzarlo, e non ha potuto interrogarlo (che disdetta). Il giovinotto Nemmouche invece è vivo, dunque interrogabile; anzi lo stanno interrogando, i francesi. Dicono però che è «poco loquace». Certo, restano altre domande.

Per esempio: il complice che guidava l’auto a Bruxelles da cui scese Nemmouche, e lo attese in seconda fila per poi filar via con l’assassino a bordo, e squagliarsela, chi è? Perché non se ne parla più? E poi: perché la polizia francese che ha lo sparatore fra le mani, continua a darne ai media una foto sgranata, in bianco e nero, che sembra una segnaletica caduta in un secchio di carbone?


Mehdi Nemmouche


Il professionista che, freddo e calmo, spara a Bruxelles e il giovinotto sprovveduto che si fa beccare con il borsone delle armi sul bus per Marsiglia sembrano quasi due persone diverse. E magari lo sono? Ma cosa andate a domandare, a impicciarvi: è lui. Si tranquillizzino tutti, anche i servizi israeliani: l’omicida dei vostri due agenti è stato preso, ci sono tutte le prove che potete pretendere. Non è un regolamento di conti fra servizi, né men che meno un sanguinoso avvertimento di un servizio X al Mossad o Shin Beth o Nativ come si chiama... no, è il classico jihadista reduce dalla Siria che ha voluto colpire per antisemitismo un simbolo della Shoah. E che dire di certe sbavature, inverosimiglianze e scemenze nella «narrativa» dell’arresto, che possono far pensare ad altro? Magari sono state inserite nella «narrativa» proprio per far sapere a chi di dovere: Sì, siamo stati noi. Ma voi non potete accusarci: accettate il colpo e state zitti... per una volta, siamo «noi» a imporre la narrativa ai media (2).

Su chi siano questi «noi» si può solo tacere. Tanto più se, dal racconto, avete tratto l’impressione d’aver indovinato chi sono questi «noi». Non sapete quante volte l’apparenza inganna, in queste faccende di assassini solitari e professionisti a contratto.

Su questa vicenda, corre perfino una leggenda metropolitana: che i due coniugi Riva non siano affatto morti davvero – lo Stato ebraico ha vietato si facesse la loro autopsia in Belgio – e che adesso siano, sani e vegeti e forniti di un’altra identità, in viaggio per una nuova «missione» Shlichut. Ma è una ipotesi da cui ci dissociamo. Come da tutte le altre del resto. La cosa non ci riguarda, come ci affrettiamo a riconoscere.

E anche voialtri lettori: che state a fare qui? Circolate, non c’è niente da vedere.




1) I coniugi Riva non si trovavano certo al Museo dell’Olocausto per visitarlo come curiosi e turisti. Apprendiamo qui, per caso, una utilità collaterale di tali Musei dell’Olocausto, della Memoria e della Shoah sorti come funghi in Europa: servire da base di ogni genere di servizio israeliano, «casa sicura», centrale operativa. E tutto a spese dei contribuenti dei paesi ospitanti, che elevano i musei olocaustici per espiare le loro colpe verso il piccolo popolo sofferente.
2) DEBKAfile sembra essere il solo sito a non accettare la «narrativa» francese, e sospetta a tutte lettere che l’arrestato non sia l’assassino di Bruxelles, ma «il complice che ha rimosso le prove».



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