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Spagna, il popolo che volle essere troppo. Ed ora è poco.
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Appena visibile nella penombra, leggo nella cattedrale di Santa Cruz de Tenerife una lapide funeraria. Vi riposano «nella pace del Signore», come recita il testo, «i resti mortali dell’eccellentissimo cavaliere di Alcantara

DON ANTONIO GUTIERREZ DE OTERO Y SANTAYANA

tenente generale dei reali eserciti, governatore e comandante generale delle isole Canarie, difensore di questo porto e piazza» nonchè «vincitore nell’attacco della squadra inglese comandata dall’ammiraglio Horazio Nelson, il giorno 25 di luglio del 1797».

Ecco uno dei tanti fatti cancellati di quella storia grandiosa, fragorosa di armi e di valore, densa di fede cattolica, sangue e sacrificio durati secoli, che fu l’impero di Spagna. Eh sì, il famosissimo Nelson, l’invincibile Nelson, l’eroe nazionale inglese, fu sconfitto alle Canarie dal qui inumato Don Antonio: che nonostante i titoli altisonanti, disponeva di non più di 300 soldati, contro i tremila della squadra navale inglese. Per tre volte in un secolo i britannici tentarono di impadronirsi delle Canarie, sempre respinti. Nelson fu l’ultimo. Tentò uno sbarco, la sorpresa fallì: e non solo fu vinto, ma ci perse anche il braccio destro, che gravemente ferito da una palla spagnola, gli dovette essere amputato (1). Il nome di Nelson resta imperituro nella gloria; il gobernador riposa nell’oblio, pago – credo – di aver mantenuto spagnole quelle sette isole africane e d’essere inumato nella cappella di Santiago Apostolo, di cui era devoto.

Fa impressione, se ci si pensa, vedere smarrirsi e non saper che fare, sotto l’euro, i diktat dell’eurocrazia e la sferza dei «mercati», la figliolanza ultima di un popolo che per quattro secoli ha tanto combattuto per un disegno mondiale, che ha servito come sua vocazione vera. Quando Colombo propone a Madrid il suo progetto di circumnavigazione, Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, i re cattolici, si sono appena sposati; non c’è ancora un popolo ispanico, ma «Castilla y Aragon», e nessuna unità; Granada è ancora occupata dagli arabi. I due regnanti sono, come dirà Machiavelli, di «poca e debil fortuna». La repubblica marinara di Genova, all’epoca, è enormemente più ricca e potente, eppure rifiuta a Colombo i mezzi; l’oligarchia genovese, teste strette, vi vede solo possibili grattacapi in zone troppo lontane dai suoi interessi. Isabella e Ferdinando, invece, accolgono l’enorme, insperato e gravoso dono del Nuovo Mondo come la grande occasione. L’occasione di vincere i particolarismi terragni e rurali, le visioni anguste, le chiusure etniciste, dei pueblos iberici (intesi nei due sensi: come villaggi, e come villani), lanciandoli nella grande impresa di possedere e dominare le smisurate Americhe. I due re cattolici capiscono che «le grandi nazioni non si fanno da dentro, ma da fuori», attraverso «una grande politica internazionale, politica di grandi imprese», e la unione del popolo «si fa per lanciare le energie spagnole ai quattro venti, per inondare il pianeta... per la prima volta nella storia, si idea una Weltpolitik, e l’unità spagnola fu fatta per realizzarla».

Sto citando Ortega y Gasset (2); che a sua volta parafrasa però il nostro Machiavelli; l’unico a capire allora il grandioso disegno di Isabella e Ferdinando, sperò che Cesare Borgia (dopotutto era spagnolo) avrebbe fatto lo stesso per l’Italia, unificando il Paese con una grande politica. Fu un errore, ma ci sono illusioni che depongono a favore dell’illuso, della sua nobiltà e sagacia. In Italia non mancavano nè ricchezze di avidi banchieri, nè audaci navigatori. Ho scoperto che l’isola di Lanzarote deve il suo nome a un genovese, Lanzarotto o Lancillotto Malocelli di Varazze, che scoprì o riscoprì le Canarie (i romani le avevano colonizzate, ma dopo il crollo dell’impero sulle Isole Fortunate era sceso l’oblio) nel 1312; e Lanzerotto era alla ricerca di due altri audaci genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi, che erano partiti per cercare una via alternativa al commercio delle spezie, interrotto dopo la caduta di San Giovanni d’Acri in mani musulmane, circumnavigando l’Africa. Un altro ligure, Nicola di Recco, nel 1341 giunse alle Canarie, ma per conto del re del Portogallo – un altro popolo lanciato all’impero, ma con un più chiaro destino atlantico della Spagna. Descrisse religione e costumi dei Guanci, gli aborigeni canarii, e portò a Lisbona quattro di loro: «giovani forti e molto intelligenti» – così li descrive – «e più civilizzati di molti spagnoli» (potrebbe dire lo stesso di molti italiani d’oggi). A La Laguna, l’antica capitale di Tenerife, une delle più belle magioni del 17° secolo appartenne alla famiglia Lercaro, altri mercanti genovesi divenuti dignitari spagnoli.

Sarebbe lungo dire dopo Colombo quanti altri italiani delle più alte qualità, senza patria come al solito, le offrirono alla super-patria imperiale e cattolicissima, integrandovisi.

Mi è caro ricordare Ambrogio Spinola, l’aristocratico genovese che, messosi al servizio di Madrid con mille italiani arruolati a sue spese, diede alla Spagna grandi vittorie nella dura, terribile guerra delle Fiandre e Paesi Bassi ribelli e luterani renitenti all’impero cattolico. Velazquez, che fu suo amico, lo ritrasse ne La resa di Breda, rendendo magistralmente la mimica facciale tipicamente italiana, umana e amichevole, con cui lo Spinola fa alzare il comandante sconfitto in atto di inginocchiarsi mentre gli porge le chiavi della piazzaforte olandese, perchè non si umilii. Ambrogio indossa la sua raffinata corazza da parata, sicuramente un modello degli armorari milanesi (il Made in Italy...).



La resa di Breda
  Dettaglio de La resa di Breda
Il quadro è anche chiamato Las Lanzas, perchè dietro il condottiero si erge una foresta di lance: sono quelle dei tercios, le invincibili formazioni miste di picchieri e archibugeri temutissimi in Europa per la loro disciplina e combattività, irriducibile nelle più avverse situazioni; veterani provati e riprovati (e consumati) nelle mille guerre, dei Trent’Anni, dei Cent’Anni, della tentata riconquista dell’Inghilterra al cattolicesimo, delle guerre dinastiche italiane a cui il gran destino politico della Spagna li chiamò. A Rocroi in Francia, nella luttuosa giornata del 19 maggio 1643, i tercios, veterani delle Fiandre, mentre il resto degli imperiali fuggiva, furono i soli a restare sul campo attorno al loro comandante: soli, senza speranza di vittoria, contro l’intera armata francese ormai in assoluta superiorità numerica; ma il duca d’Enghien che la comandava, per evitare perdite ulteriori dei suoi, fece avanzare le artiglierie e sfracellare a cannonate, vilmente, quei valorosi dai pesti cimieri a mezzaluna, che avevano fatto il loro quadrato di lance.

Moltissimi gli italiani anche lì; il Tercio Viejo, famoso, era fatto tutto di sardi. Il loro modo di combattere è mostrato nell’ultimo quarto d’ora del film spagnolo Il Destino di un guerriero (con Viggo Mortensen nelle vesti del capitano Alatriste): i picchieri a proteggere dalla cavalleria nemica i moschettieri che sparano con gli archibugi; il carnaio del corpo a corpo al disotto delle lance. L’offerta di resa onorevole ai superstiti fatta dai francesi, gentilmente rifiutata col motivo, ritenuto bastante: «Siamo soldati di Spagna». Nel film appare anche Spinola. Portato su una sedia, la bella corazza perforata da una palla di moschetto, addolorato per il sacrificio di quei suoi soldati con cui aveva tante volte vinto, che ora s’apprestano a fare il quadrato – l’estrema difesa dell’onore – e non avevano nemmeno avuto il soldo. Andò proprio così, probabilmente l’episodio va assegnato all’assedio di Casale in Italia (guerra di successione di Mantova, 1630); Madrid gli impose di strappare Casale ai francesi senza dargli le foze adeguate; amareggiato Spinola si ritirò e morì l’anno stesso. Aveva 61 anni, trenta dei quali sui campi di battaglia, ed era poverissimo, avendo dissipato le vaste fortune di famiglia nel servizio all’impero.

Anche in questo Spinola fu davvero un grande di Spagna. Contrariamente agli inglesi che conquistarono il loro impero con ben chiaro l’intento del profitto, avendo primario il calcolo economico e s’arricchirono enormemente, gli spagnoli s’impoverirono conquistando. Per ignoranza dell’economia e spregio da hidalgos dei calcoli mercantili, con le tonnellate d’oro delle Americhe arricchirono i mercanti e i banchieri olandesi ed ebrei e vi svilupparono le manifatture; l’imperatore Carlo V era nelle mani dei banchieri Fugger, e così suo figlio Filippo II, e tutti poi i successori sempre dell’impero dove non tramontava mai il Sole, sempre assillati di debiti. Spinola, a forza di mantenere a sue spese le truppe con cui passò di vittoria in vittoria, sulla base di promesse della Corte mai mantenute, si trovò rovinato: i benefici che gli arrivarono nel 1614 col sospirato titolo di Grande di Spagna per cui aveva tanto brigato, bastarono appena per tappare alcuni buchi. I suoi soldati dopo anni nelle orribili trincee delle Fiandre, facevano la fame; da quelle campagne portarono solo la danza, da soldati e donne da soldato, chiamata «fiamminga», il flamenco.

Anche i grandi di Spagna, consapevoli attori della grande politica mondiale, avevano lo stomaco vuoto. Il popolo, più conquistava, e più faceva la fame. Per il popolino la missione imperiale significò un duro peso, e gravoso dovere, una pressione subìta e accettata stoicamente per quattrocento anni: arruolamenti, anni «sin veder tierra» su galeoni spersi nei due oceani «porque la guerra me lo impidiò», come dice una canzone.

Nelle aristocratiche e tragiche Madonne de los Dolores delle chiese spagnole, con il loro abito di lutto stretto e la spada fitta del cuore, videro se stesse infinite madri ispaniche ugualmente luttuose che nulla sapevano più dei figli caduti in imprecisati oceani o in Tropici inimmaginabili. Combattimenti ignorati in foreste asiatiche o altezze andine. Vite consumate in guarnigioni lontanissime e indifendibili. Requisizioni di giovani contadini ordinate dallo Stato (anche alle Canarie) per popolare e difendere territori troppo vasti, di vastità mostruose, impossibili per la demografia iberica: chi ha sorvolato per ore l’immenso Sudamerica fra una capitale e l’altra, ha solo una vaga idea di quanta fatica, tempo e coraggio richiedesse la loro conquista, quando ci si spostava a piedi, coi cavalli o i galeoni. Tanto più che le cose cominciarono ad andar male quasi subito, e per secoli fu una difesa e un lento, combattuto arretramento. Ma nomi cattolici di Los Angeles, San Francisco, San Antonio (Texas), restano come meravigliose conchiglie ormai vuote sulla feroce spiaggia dei predoni yankee, a testimoniare fin dove giunse la splendida marea ispanica degli elmi a mezzaluna e degli stomaci vuoti.

Tennero l’impero fino alle soglie del 1900. L’ultimo brandello fu rapinato dai predoni statunitensi, che approfittarono dell’esaurimento ispanico. Cuba 1898, caso di scuola, per noi un déjà vu: prima Washington attizzò un movimento indipendentista nell’isola, poi accorse a «aiutarlo a liberarsi dall’oppressore». Per buona misura, fece esplodere il proprio incrociatore Maine in visita d’intimidazione davanti all’Avana, incolpando dell’attentato gli spagnoli: l’opinione pubblica nordamericana insorse reclamando, subito subito, la guerra contro quei terroristi – così evidentemente desiderosi di sfidare la primaria potenza bellico-industriale che combatteva a poche miglia da casa (la Florida) mentre loro erano a tremila miglia da casa, lontani da ogni rinforzo possibile. Le artiglierie della flotta americana avevano gittata doppia delle cannoniere ispaniche; l’ammiraglio Pascual Cervera lo sapeva, e obbedì all’ordine di forzare il blocco navale americano con la morte nel cuore: «Volevo farmi rilevare dall’incarico», scriverà nel suo libro di bordo, «ma il comandante di una Marina che ha avuto come Gran Almirante Cristobàl Colòn, non può disertare frente al enemigo». E volse risolutamente la prua contro la flotta USA. In quaranta minuti di tiro, i pezzi americani distrussero completamente la sua squadra; Cervera potè solo cercare di limitare le perdite umane, mandando a incagliare più navi possibile, e la sua stessa ammiraglia, in bassifondi e scogli.

I liberatori si affrettarono a imporre su Cuba «liberata» un duro protettorato, e approfittarono per arraffare Portorico, le Piccole Antille e – dall’altra parte del pianeta – le Filippine, i cui abitanti furono convinti a farsi liberare da un esercito di «liberatori» che bisognò portare a 65 mila uomini per stroncare la rivolta dei liberati, e dai massacri che questi liberatori compirono.

Esattamente due anni dopo – 1900 – comparvero il secessionismo basco e l’indipendentismo catalano. Perse le ultime briciole del grande impero, finito il gran compito mondiale, l’impulso unificante terminò e presero il sopravvento i calcoli localistici, gli interessi particolari. La Catalogna ci aveva perduto, e nulla guadagnato, dal volgere dei traffici dal Mediterraneo in cui s’affaccia, alle Americhe. Tutti sentirono che la loro missione era ormai un pugno di cenere. Secessioni morali e una sorta di rabbia collettiva, di volontà di rivalsa senza preciso oggetto, crebbero in altre parti della società: monarchia e Chiesa non escluse, che invece di «potenziare la vita» dovunque possibile, si sforzano di fissarla in un «non si faccia nulla di nuovo»; tutta la Spagna diventa «suspicaz, angosta, sordida, agria» (Ortega y Gasset). Il rigetto delle imprese belliche fu unanime e sommario nella società; un politico progressista fece simbolicamente sigillare il sepolcro del Cid Campeador. Le sinistre fecero peggio: sputarono sugli ufficiali e la truppa che s’imbarcava a reprimere una rivolta in Marocco, cercò di impedire la partenza delle navi. Ortega y Gasset, tutt’altro che un militarista, criticò quella stoltezza nel 1921: come osate, pacifisti ideologici, illuministi da quattro soldi, di umiliare un esercito che per quasi mezzo millennio ha tenuto insieme un tale impero? Di privarlo della sua missione, di farlo sentire inutile alla società? Credete con ciò che scompaia come uno spettro? Al contrario: ne farete «un pugno serrato, moralmente disposto all’attacco», e precisamente a «conquistare la nazione stessa». La profezie si avverò in tutta una serie di «pronunciamentos» ed alzamientos che punteggiarono gli anni a venire; e i repubblicani laici, progressisti e filocomunisti uniti nel Fronte Popolare su ordine di Stalin, sentirono quanto pesava quel pugno nel 1936. Un popolo che pareva (ed era) esausto e dissanguato dalla grande impresa imperiale aveva ancora energie bastanti per ammazzarsi a vicenda nel numero circa di un milione.

Era ancora l’inimmaginabile energia accumulata, come una molla, per la grande impresa semi-millenaria, e rimasta ormai senza sfogo.

Questa tragedia dica almeno, a noi italiani che nulla abbiamo più avuto nessun compito così grande, con così gravi compiti e responsabilità, quanto sia stata grande la forza spagnola. Una forza che non si limitò a battaglie, conquiste e stoiche sconfitte sui campi di battaglia; le dobbiamo alcune delle più eroiche, energiche e grandiose figure di santi da grande impero, da Teresa d’Avila a Giovanni della Croce, e quell’uomo d’arme che fu don Ignigo da Loyola, ferito in battaglia e deciso da allora a non servire più «un Signore che potesse morire», fondatore della Compagnia di Gesù organizzata come un tercio, legandola con fedeltà soldatesca al Papa e ordinatore degli «esercizi spirituali» ricalcati sulle esercitazioni militari. Miracoli e apparizioni punteggiarono e sancirono le conquiste, a cominciare dalla «Candelaria», la vergine con la candela in mano che comparve Tenerife a due guanci ancora pagani nel 1392, fino alla Virgen Morena, la Signora che apparve ad un azteco appena convertito a Guadalupe in forma di fanciulla india; ma ancor prima, la vittoria di Lepanto (in cui Cervantes perse due dita nell’arrembaggio di una galea turca) fu attribuita al Rosario recitato, per ordine del Pontefice, in tutta la cristianità. Fin dal principio Isabella di Castiglia, la santa regina, aveva chiarito che i selvaggi conquistati erano esseri umani, dotati di anima immortale, e andavano convertiti, non sterminati; e se eccessi accaddero (3), non ebbero la connivenza di Madrid (come gli sterminii inglesi che ebbero l’ipocrita incoragggiamento di Londra); anzi azioni legali e difese dei nativi furono intentate dai loro avvocati, francescani, domenicani spagnoli, e poi gesuiti delle reducciones. E spesso i tribunali condannarono i Conquistadores diedero ragione agli indios.

E non basta: il gran volo partorì il più fiammeggiante barocco e alcuni dei più impressionanti pittori europei, fino a Goya, rabdomantico rivelatore dell’elemento taurino-demonico, da caproni e da streghe, essenziale in tanto dispendio di energia, trattenuto a bada a malapena dalle confessioni e dalle penitenze, dalle Comunioni, dalle innumerevoli devozioni: alla Virgen del Carmen e alla Santa Croce, a Santiago e a San Antonio da Padova.

Si dice che a Friedrich Nietzsche ormai sprofondato – o rifugiato – nella demenza fece visita un personaggio di riguardo. «È uno spagnolo», gli sussurrò all’orecchio la sorella-badante. Il misero avanzo di colui che volle essere Dioniso e l’Anticristo, sembrò emergere dal suo torpore, fissò sull’ospite le folte sopracciglia e gli occhi sottostanti, che apparvero di colpo animati da una terribile lucidità: «Ah... Quel popolo volle essere troppo».

Ed ora, un simile popolo – o i suoi nipoti – non vuol essere altro che una entità anonima, omogeneizzata e succube nell’europeismo burocratico, suppliziato dall’euro? Possibile che si sia smarrito a tal punto, da non saper che fare nella crisi finanziaria? Questo popolo fu capace di comando, inteso come «chiamata a genti diverse e reciprocamente ostili a fare qualcosa di grande assieme». In questa chiamata integrò tanti italiani a cui, come s’è visto, non bastavano le minuscole patrie locali. Ha abbandonato le devozioni quanto le furibonde miscredenze, a El Greco e Velazquez è succeduto, come figurativo interprete del tempo, la checca isterica Almodovàr. Ma i segni delle antiche virtù necessarie al comando – tra cui la lealtà e la responsabilità – durano ancora, in qualche modo, se tanti italiani giovani vanno a stabilirsi là, magari per aprire banali pizzerie.

Una simile parabola addolora di più, ammettiamolo, dell’eterna commedia italiana, del nostro continuo Otto Settembre.





1) Orazio Nelson aveva già perso l’occhio destro in uno scontro navale contro i francesi in Corsica solo tre anni prima, nel 1794. La nuova mutilazione non lo indusse a ritirarsi in campagna nè chiedere la pensione d’invalidità, anche se serviva ormai da 27 anni, essendo entrato in Marina a 12 e soffriva di pessima salute. Ma le navi da guerra, non solo britanniche, erano manovrate da ciurme di mutilati nel durissimo mestiere: bende nere, uncini al posto delle mani, gambe di legno, orrende cicatrici erano quasi la norma. Nelson incontrò la pallottola fatale nella sua leggendaria vittoria, a Trafalgar, 1805. La squadra napoleonica comprendeva una flotta spagnola, il cui ammiraglio meritò gli elogi di Bonaparte: si chiamava Federico Carlos Gravina y Napoli, ed era di origini siciliane. A Trafalgar Gravina ebbe il braccio spappolato da una granata, e morì un anno dopo per la ferita mai guarita, a 49 anni. Sul letto di morte disse: «Spero e son certo di andare a unirmi a Nelson, il più grande eroe che il mondo abbia generato».
2) Ortega y Gasset, «Espana Invertebrada», prima edizione 1922.
3) Sul governo spagnolo come tirannia crudele, retriva e fanatica, e sotto il tallone dell’Inquisizione, che avrebbe prodotto lo sterminio del nativi sudamericani, vige una «leggenda nera»: è la propaganda diffamatoria da guerra psicologica diffusa dai britannici, avidi di impadronirsi dei possedimenti ispanici.




 
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