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Sudamericanizzati
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Lasciamo per un momento la cronaca – i trucchi dei banchieri e degli eurocrati per ridar fiato alla gran fabbrica dei debiti, ormai ingrippata – per guardare al fondo della questione. Come mai si è giunti a questo enorme indebitamento pubblico e privato? E come mai nei Paesi sviluppati?

La risposta è fondamentalmente semplice: la causa dell’indebitamento crescente è la mondializzazione – l’abolizione dei dazi doganali e la libera circolazione di «merci, uomini e capitali».

I politici hanno sempre cercato di vendere la globalizzazione come un fatto di natura (mentre è imposta da una tenace volontà politica americana, e presidiato da organi sovrannazionali con poteri punitivi, come il WTO) e d’altra parte come un paradiso terrestre carico di promesse e frutti di benessere.

I frutti non sono mai maturati, ed era prevedibile. La liberalizzazione totale dei commerci ha messo in comunicazione due universi prima separati, l’universo salariale europeo e americano con quello cinese e degli altri Paesi «emergenti». Come per la legge dei vasi comunicanti, era ovvio che i nostri salari scendessero verso il livello cinese, mentre quelli cinesi salivano verso livelli occidentali. La strada del pareggio è ancora lunga, dal momento che operai cinesi del Guangdong che fabbricano scarpe Adidas e Nike ricevono paghe da 175 dollari al mese; stanno lottando, ma evidentemente occorreranno ancora molti anni, se non decenni, per giungere a salari più o meno livellati.

Nel frattempo, gli occidentali vivranno per decenni in un regime di salari calanti sotto il livello di sussistenza (perchè i salari scendono, ma non il costo della vita) precarietà e disoccupazione strutturale: come sta avvenendo appunto alle giovani generazioni. La mondializzazione, attraverso la de-industrializzazione, sta di fatto attuando un enorme trasferimento di ricchezza dai Paesi occidentali verso i Paesi emergenti, e provocando l’impoverimento relativo dell’Europa (e degli USA).

Il progetto – o l’utopia calcolatrice – delle oligarchie finanziarie che hanno voluto la globalizzazione era di aumentare la profittabilità del capitale, producendo merci nei Paesi a salari infimi per venderli in quelli ad alti stipendi. Ma come potevano, secondo loro, i salari mantenersi alti qua, se le manifatture andavano là?

Il discorso fatto dalla propaganda era che le civiltà avanzate avrebbero conservato la produzione di alte tecnologie e di servizi sofisticati, trasferendo nel Terzo Mondo le produzioni a basso valore aggiunto. Ignoro se le oligarchie globaliste abbiano davvero creduto a questa loro propaganda: del resto, sono imbevute dell’ideologia di Adam Smith, forgiata sul modello dell’impero britannico, quando l’Inghilterra produceva locomotive e macchinari, relegando all’India e all’Africa le produzioni di cotone grezzo, tè e tabacco.

Se è così, è una conferma del fatto che gli economisti finanziari ignorano fin le basi elementari dell’economia industriale. Non solo alte tecnologie e servizi avanzati non possono, per loro natura, che impiegare delle elites minoritarie; i trasferimenti di tecnologie nei Paesi emergenti, conseguenti alla nostra deindustrializzazione, hanno dato a quei? Paesi le competenze (il know-how) che avrebbero dovuto assicurarci la prosperità nelle nostre economie occidentali. Il differenziale salariale, tutto a loro favore, ha fatto il resto.

Il calcolo utopico, nato dall’avidità, ignorava che l’Industria è un tutto olistico, e solo una forte base industriale matura fa fiorire le alte tecnologie. La specializzazione estrema prospera solo in Paesi dalla popolazione ridottissima con alte scolarità e situazioni da porto-franco e paradiso fiscale – Singapore, Liechtenstein – o che hanno dirigisticamente scommesso su una nicchia (Taiwan, quasi unico produttore mondiale di semiconduttori). La superiorità tecnologica degli Stati Uniti si fonda su una enorme industria militare nazionale che, benchè privata, è di fatto sussidiata dallo Stato, attraverso le titaniche spese del Pentagono e protetta così dalla concorrenza; e tuttavia anche questa eccellenza sta degradandosi, come dimostrano le disavventure del Joint Stirke Fighter, il mega-progetto di aereo bellico del 21° secolo, impantanato tra i costi astronomici e la pura e semplice infattibilità tecnica.

Ripeto: tutto ciò era prevedibile e previsto. Il progressivo impoverimento delle società europee – impoverimento non solo salariale, ma anche dei saperi e delle responsabilità che il lavoro industriale esige – è stato a lungo mascherato con l’ultimo trucco del capitalismo terminale: mantenere i livelli di vita delle popolazioni in via di degrado con il ricorso massiccio al prestito.

La macchina di fabbricazione dei debiti ha funzionato a pieno regime, e le oligarchie finanziarie ne hanno ricavato enormi profitti, come sappiamo. Nei Paesi anglosassoni sono stati piuttosto i privati a stra-indebitarsi, per mantenere il livello di vita e di consumi che non potevano più permettersi. Negli Stati latini, sono stati i governanti a stra-indebitare gli Stati – ossia le generazioni future – per non dover ridurre le prestazioni sociali e i servizi pubblici (anch’essi da ridurre al livello cinese) da cui dipendeva il loro consenso elettorale.

In questa deriva, l’Italia – fedele alla sua natura di «laboratorio politico» – ha segnato una tragicomica avanguardia del degrado: con grande anticipo sugli altri Paesi, s’è data una classe politica de-industriale fino alla caricatura – ossia anch’essa incompetente, e per giunta irresponsabile, perchè abituata a farsi dettare le politiche da fuori, dalle UE, dal Washington Consensus, una versione del «liberismo» furbesca e provinciale (ognuno si arrangi, non è questa la «libertà»? Dare lavoro ai giovani è forse compito nostro?); non è certo un caso che il vertice di questa classe politica sia stato un «industriale del Nord» che come «industria» conosce quella dell’entertainment. E naturalmente, la classe politica intera, nella sua corsa all’indebitamento per mantenere le spese correnti ad un livello che la base economica non permetteva più, s’è anche ritagliata le fette migliori, ha mangiato le ciliegine sulla torta comune, ed ha favorito le sue clientele d’osservanza, facendo crescere a milioni di individui il ben noto ceto parassitario che chiamiamo «La Casta».

Ma se i governanti delle altre nazioni hanno rubato meno e fatto meno debito, anch’essi sono esponenti di una classe politica in degrado post-industriale. Perchè insisto, con l’impoverimento della base industriale, così come i lavoratori perdono competenze, diventano disoccupati, cassintegrati e prepensionati a vita, o crescono i giovani senza prospettive «che non studiano nè lavorano» (perchè del resto studiare, se non sono più richieste competenze alte?) così anche la classe dominante si disabitua al rigore e all’azione concreta che sono (erano) naturali nella fabbrica industriale, e perde il senso di responsabilità che l’imprenditore, per amore o per forza, si assumeva verso la sua manodopera. Responsabilità a cui corrispondeva un senso di dignità di chi è sotto l’occhio dei suoi operai, e la lealtà e fedeltà aziendale che nasceva nei lavoratori.

Tutto ciò è svanito, e non è un guadagno: la classe politica fatua, predatrice e irresponsabile che ci siamo visti addosso – e che alla fine s’è fatta sostituire volentieri dai «professori», delegati dell’oligarchia, perchè non sa più cosa fare nel disastro – è appunto un epifenomeno della globalizzazione e delocalizzazione. Da noi, ha raggiunto vertici da circo equestre o da bordello; ma anche Sarkozy, in fondo, è un Berlusconi appena più presentabile, anche lui contiguo al mondo dello spettacolo (guardate con chi s’è risposato) anche lui – come Zapatero e gli altri, incompetente.

Sotto gli occhi di questi governanti inadeguati, il debito pubblico è cresciuto – in Italia di più, ma anche in Francia e Spagna, per non parlare dell’americano Obama – proprio negli anni ‘70, quando i dazi e le tariffe hanno cominciato ad essere smantellati, e la deregulation si è globalizzata; i Paesi europei sono andati accumulando un indebitamento strutturale, mentre i Paesi emergenti hanno accumulato eccedenze, anch’essi strutturali. Hanno lasciato fare, disabituati com’erano a pensare e ad agire con rigore.

Adesso è la fine. Il debito pubblico (e quello privato in altri Paesi) ha raggiunto un volume tale, che solo tentare di ridurlo provoca una catastrofe epocale. Il tentativo di ridurlo con le cure di austerità e iper-tassazione prescritte dai curatori fallimentari a cui i politici hanno ceduto il posto (Monti, Draghi ed altri Goldman Sachs) non farà che accentuare la crisi, instaurando la recessione di lunga durata, a rischio imminente di depressione. La crescita economica che dovrebbe ridurre e assorbire il debito diventa sempre più impossibile mentre gli interessi sul debito rincarano, il deficit dello Stato è strutturale (il debito va a pagare le spese correnti) l’introito fiscale diminuisce, il tasso di crescita va all’indietro verso il segno negativo: tutte condizioni che creano una spirale economica in discesa, dalle conseguenze sociali distruttive.

Il mascheramento degli effetti nefasti della globalizzazione con i trucchi della finanza che ci ha indebitato, ha toccato la sua fine. Nouriel Roubini già consiglia all’Italia di ristrutturare il suo debito, ossia di ripudiarlo del 30%, onde riportare il 120% del PIL alla più maneggevole percentuale del 90%. (Time to act – Italy must restructure its debt)

Ma i delegati della Trilaterale e delle banche che ci hanno messo sul collo, ossia al governo, sono lì appunto per questo, continuare a farci servire il debito ormai impagabile. E poi, la soluzione di Roubini è insufficiente, non va al cuore del problema.

Il problema è la mondializzazione. E come essa non è «un fatto di natura» ma è stata imposta a gradi da una volontà politica almeno quarantennale, così occorrerebbe una volontà politica suprema in Europa, che imponesse alle sue vaste frontiere una regolamentazione concreta e, al riparo del suo mercato interno di mezzo miliardo di uomini, operasse per la re-industrializzazione del continente, restituendo alle sue generazioni le competenze, la dignità e le prospettive del lavoro onesto. Ciò sarebbe a vantaggio anche dei creditori finanziari che oggi non ci fanno più credito, perchè così s’innescherebbe una prosperità sufficiente per riassorbire i nostri debiti.

Ma naturalmente, questa volontà politica pan-europea non si trova da nessuna parte. Ed anche se si trovasse (per esempio in Germania, che perde la sua ricorrente occasione di comandare in Europa) dovrebbe lottare con il progetto oligarchico-trilaterale, che in attuazione da oltre mezzo secolo ed ha dalla sua troppi poteri forti (1).

Allora, resta l’altra via: frontiere aperte, e la riduzione del livello di vita, di protezione sociale che costituisce parte integrante della civiltà, in una parola la regressione inesorabile delle nazioni europee. Verso dove?

Io penso, verso il Sudamerica: questo magazzino di Occidenti superati e retrobottega di Europe intristite, di miracoli economici infartuati, di monete svalutate, di patrie non amate, di nostalgie e inettudini pretenziose. Anche in questo, mi pare, l’Italia è la triste avanguardia di tale futuro. Basta guardarsi intorno. Alle nostre università retrograde e che non preparano ad altro che a lavori impiegatizi inesistenti. Alla massa crescente di gioventù passiva, inerte, massicciamente avversa ad ogni sforzo intellettuale e morale. Ai divertimenti dozzinali. Alla classe politica parolaia e incapace, e per giunta collusa con la criminalità. Alla burocrazia poliziesca e ostile al cittadino.

Alla massa popolare che ha perso dignità e l’arte del fare. Anche da noi, come in Sudamerica, prospera la «borghesia compradora», che s’arricchisce non producendo niente ma solo importando.
Anche da noi pullulano iniquità sociali, povertà vergognose e non medicate dei deboli, ricchezze indebite dei forti che non si sa da dove vengano, livello culturale approssimativo e in via di peggioramento; anche da noi la gioventù che nè studia nè lavora è promessa alla criminalità da borsaioli o, in caso di «successo», di narcotraficantes. Anche da noi insicurezza, luci pubbliche che si spengono ed edifici che si slabbrano per mancata manutenzione, civiltà che senza manutenzione e senza lavoro si degrada materialmente e spiritualmente. Anche fra noi, presto, forse le prime bidonvilles?

« Ahi Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica», come canta Paolo Conte: dove «campa decentemente e intanto spera/di essere prossimamente milionario/luomo chè venuto da lontano». E dove «i ballerini aspettan su una gamba/lultima carità di unaltra rumba».

Ahi Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica.





1) Perchè non deve sfuggire che il disastro monetario che stiamo vivendo è stato previsto e auspicato. Fin dal 1957, Jean Monnet – il padre occulto di questa Europa senza-patrie, il fiduciario a cui le banche americane affidarano la distribuzione del piano Marshall perchè lo desse ai Paesi che accettavano la cessione di quote di sovranità – scriveva e prevedeva di «creare un mercato monetario e finanziario, con una Banca Europea, una Riserva Federale europea, e luso in pool delle riserve nazionali (...) il libero flusso dei capitali tra i Paesi membri e infine, una politica finanziaria centralizzata». Progetto attuato a poco a poco, ma senza mai deflettere, in sedi sottratte agli occhi dell’opinione pubblica. A questo scopo, scriveva sempre Monnet, hanno agito «uomini cooptati uno per uno, sciolti da ogni lealtà verso le rispettive nazioni, ma padroni di potenti reti dinfluenza nei rispettivi Paesi», capaci di lavorare «in intima, sovrannazionale comprensione».


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