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Uomini, topi e cancro
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Nell’ormai lontano 1958, l’etologo e patologo americano J. B. Calhoun fece un esperimento. Allo stato selvaggio, aveva notato, una popolazione di topi si stabilizza a 150 individui – non di più – in uno spazio di 60 metri quadri, anche se v’è cibo disponibile per migliaia di individui. Come mai? Clahoun si propose di «registrare il comportamento individuale e sociale di una colonia animale costretta a vivere per tre generazioni troppo addensata».

In un granaio di Rockville (Maryland) l’etologo costruì tre abitazioni da 13 metri quadri ciascuna, osservabili attraverso finestre. Immise alcune femmine gravide; ogni ulteriore intervento umano successivo si ridusse a portar via periodicamente la prole eccedente, onde mantenere negli spazi dati il numeri dei topi ad 80 individui, ossia il doppio – e non più – della densità naturale.

Ben presto, l’etologo e i suoi ricercatori annotarono estreme anomalie del comportamento. Solo i maschi dominanti (tre in tutto) mantennero una condotta normale nel corteggiamento e nella congiunzione sessuale. Negli altri si notò o una completa passività rispetto al sesso, oppure forme massicce di perversione, sesso di gruppo, omosessualità, pansessualismo indiscriminatamente etero-omosessuale. I nidi venivano costruiti in modo disorganizzato e inadeguato rispetto al fine, il che portava alla aumentata mortalità dei neonati. Le nidiate non venivano più distinte, e nella promiscuità le femmine non si prendevano più adeguatamente cura dei piccoli, si moltiplicavano i fenomeni di abbandono, con conseguente divoramento dei piccoli da parte di maschi estranei.

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Nell’organizzazione sociale, fu notato lo sgretolamento e il rifiuto delle gerarchie (stabili in natura), il che costringeva i maschi dominanti a continue lotte per il territorio e le femmine; si formarono vere bande di maschi dedite alla sfida ai dominanti, all’aggressione e allo stupro anche omosessuale, che sconvolgevano la vita normale delle comunità. Gli aborti aumentarono in modo incredibile.

Fogna del comportamento

  
Un tal degrado della vita associata, una tale anarchia, una tale pervertimento dei moduli naturali, che Calhoun fu indotto a definirlo «fogna del comportamento». Quanto ai referti delle autopsie su tali topi, rivelarono «una impressionante serie di malattie degenerative ai reni, fegato, ghiandole surrenali; all’utero, ovaie, trombe di Falloppio; infine un numero elevato di cancri maligni e benigni, specie alle ghiandole mammarie agli organi sessuali», praticamente assenti nei topi allo stato selvaggio.

Ritrovo la memoria di questo clamoroso esperimento (a suo tempo suscitò sensazione per quel che rivelava sulle società umane urbanizzate) rileggendo Di cancro si vive, il libro di un grande medico che ho avuto l’onore di conoscere e intervistare, e che mi considerò un amico, Luigi Oreste Speciani. Da gran tempo defunto, Speciani sosteneva l’origine psicosomatica del cancro, in un senso molto preciso.

Scopro (o riscopro) che già nel 1947 Speciani, che aveva allora 27 anni, vinse una borsa di studio del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) per un programma di ricerca così enunciato: Interpretazione delle neoplasie quale sintomo polimorfo di una univoca alterazione centrale dellorganismo, a localizzazione diencefalo-ipofisaria.

  
Tradotto dal gergo scientifico, vuol dire questo: benchè appaia come melanoma sulla pelle, microcitoma nei polmoni, sarcoma nell’intestino, eccetera, il cancro non è «un gruppo di malattie» (come sostiene ancor oggi la scuola Veronesi), bensì una sola; le sue varie localizzazioni, non sono che sintomi di una patologia del sistema centrale dell’organismo. Che nasce dal cervello; e più precisamente, dagli strati «primitivi» del cervello, talamo e ipotalamo ed ipofisi. Quest’ultima ghiandola, non a caso l’organo più «difeso» anatomicamente (in un durissimo guscio di mandorla alla base del cranio), è in parte materia cerebrale e in parte ghiandola endocrina; è l’organo di congiunzione tra le emozioni, le sensazioni, il «vissuto» interiore, e il sistema immunitario sottostante. L’ipofisi infatti emette suoi ormoni in quantità ultra-minima, i quali a cascata mobilitano la increzione degli ormoni veri e propri: dal testosterone dei testicoli al cortisone delle surrenali. Ossia all’ormone che provoca la reazione allo stress, e per vie complesse influisce sul sistema immunitario, quello che sorveglia e distrugge i germi infettivi esterni che entrano nell’organismo, o le anomalie che nascono dalla replicazione cellulare nel nostro corpo, come futuri «cancri» che vengono però – se il sistema immunitario funziona – riconosciuti ed eliminati dagli speciali globuli bianchi. Difatti, anche la medicina ufficiale parla non semplicemente di sistema immunitario, ma «neuro-immunitario» – senza trarne tutte le conseguenze logiche: ossia che le traversie della vita, le disgrazie, gli abbandoni o i lutti (come per contro le nostre vittorie esistenziali) hanno una parte decisiva nelle nostre malattie «locali».

LOrganizzatore

Speciani parlava di sede «dell’anima», intesa come anima vegetativa di Aristotile e San Tommaso. Sosteneva l’esistenza di un Organizzatore, grosso modo localizzato nel diencefalo-ipofisi ma «non materiale», che presiede al «progetto» che è il nostro organismo. Gli esseri unicellulari, come i microbi, si moltiplicano sempre uguali a se stessi finchè trovano nutrimento: in altre parole, proliferano come il cancro. E così le cellule umane, se coltivate in vitro.

Il cancro è il modo «normale» di vivere delle cellule. Quello che è anormale, infinitamente improbabile, è che la cellula-uovo fecondata, smetta fin dalle primissime fasi di proliferare in modo indifferenziato, e invece si diversifichi in epidermide, fegato, pancreas, unghie, peli, muscolo cardiaco – secondo un progetto funzionale già definito – per creare un organismo pluricellulare complesso. E non meno stupefacente è che nel nostro corpo umano, fatto di 60 mila miliardi di cellule – cellule che continuamente muoiono e vengono sostituite da cellule nuove, sicchè il nostro corpo cambia totalmente circa 50 volte nel corso di una vita – nonostante questo mutamento continuo resti «se stesso». Il sistema (neuro) immunitario elimina via via gli scarti di fabbrica, gli errori di replicazione del DNA cellulare, e mantiene – nel senso più profondo – il nostro «io» corporale-psichico. Se non funziona, ecco il tumore: le cellule tornano a crescere come è «normale» per loro, invadono i tessuti, premono sugli organi e li avvelenano con le loro secrezioni.

Luigi Oreste Speciani
  Luigi Oreste Speciani
Inutile – diceva Speciani – cercare l’origine del cancro nelle cellule, nel DNA, nelle sue anomalie molecolari, enorme sforzo a cui si dedica la ricerca «ufficiale». E faceva l’esempio di un fisico che volesse capire, esclusivamente con i metodi e gli strumenti della fisica, la causa della bomba di Hiroshima. Quel fisico risalirebbe facilmente al bombardiere Enola Gay, alla pista da cui è decollato con la bomba; risalendo alle cause, si imbatterebbe nel telefono da cui il presidente Truman emanò l’ordine di decollo. Ma un esame microscopico del telefono, fino ai granelli di carbone del microfono, non rivelerebbe più nulla. Il fisico potrà solo ipotizzare che è avvenuto un rapido e passeggero variare di potenziale elettrico, corrispondente a un messaggio forse vocale; ma – nelle ondulazioni elettromagnetiche, non distinguibile dal messaggio «Cara, non torno a casa per cena». La causa prima dell’incenerimento di Hiroshima, questo smisurato scatenamento della materia, è qualcosa che non ha lasciato traccia nella materia: un atto di volontà. Una scelta del Male (o del Bene, secondo le opinioni) in piena coscienza. Insomma, un atto dello spirito, impalpabile – e decisivo.

Nel 1982, quando Speciani pubblicò il suo saggio, già da decenni la ricerca cercava al microscopio, e con la biologia molecolare, nella chimica nel DNA e nei suoi «errori» ultra-microscopici, consumando mezzi finanziari enormi; e già allora era chiaramente un vicolo cieco, un filone di ricerca sterile ed esaurito. Già allora le cellule cancerose e quelle «normali» non presentavano alcuna differenza sostanziale, alcuna «diversità» che permettesse di aggredire chimicamente le prime e non le seconde. Già allora si sapeva che le biopsie mettono in circolo cellule cancerose e sono inutili per la diagnosi: e Speciani citava il principale istologo della Clinica Mayo, una celebrità del suo campo – McCallum – che dopo trent’anni di osservazione dei tessuti e delle cellule prelevate con biopsia, riconosceva che per dire se quelle erano cellule cancerose, maligne o no, «il criterio veramente discriminante è lulteriore decorso clinico del paziente». Insomma: se il paziente peggiora, quel suo tessuto messo sul vetrino, era cancro. Altrimenti è tessuto normale. È esattamente come il fisico che cerca la volontà di Truman nelle variazioni elettriche dei granuli del telefono rosso: solo a posteriori, dagli effetti, può stabilire se ha detto «sganciate la Bomba», oppure «Non torno a casa per cena».

La ricerca cieca

Dico questo perchè – passati altri 30 anni dalla constatazione di Speciani – ancora l’oncologia insegue la causa e la «cura del tumore» nelle aberrazioni del DNA, in certi virus, nelle devianze delle singole cellule; ancora si tratta la neoplasia come una malattia locale da trattare col coltello, col fuoco e col veleno (con la chirurgia, le radiazioni, la chemio), pur sapendo che in genere si ripresenta in metastasi altrove. Ancora si afferma, negli ambienti di Veronesi, che il cancro sono «almeno 200 malattie diverse» (ottimo per le imprese farmaceutiche: 200 tipi di medicinali brevettabili) invece che una sola insufficienza del sistema neuro-immunitario, una fatale falla dell’io vegetativo profondo, dell’Organizzatore che mantiene il nostro «principio d’identità personale» nel corpo. Con i conseguenti «successi» annunciati troppo presto e seguiti dai fallimenti terapeutici taciuti, ma continui; una ostinazione e un’arroganza difficilmente comprensibili, se non forse per il motivo che viene finanziato a miliardi solo un certo settore di ricerche per il solo fatto che possono condursi in laboratori e portare al concepimento di farmaci, mentre è difficile concepire laboratori per l’Io malato, e lo studio dell’anima non promette farmaci brevettabili.

Eppure, informa Speciani, «a metà degli anni ‘50 si propose l’asportazione dell’ipofisi, e da allora essa viene praticata in tutti i centri anticancro con risultati discreti: il dolore scompare o si riduce nel 30-40% dei casi». Praticata non è più, che io sappia; gli effetti collaterali saranno stati peggio dei benefici, non so. Ma nel 1964 un noto medico del Regina Elena di Roma, il dottor Moricca, iniettava alcol direttamente nella zona dell’ipofisi, raggiungendola nella sua sede (la cella turcica) con un lunghissimo ago attraverso il naso; lo scopo era di calmare il dolore canceroso, ma si ottenne anche, imprevista, una riduzione temporanea delle masse tumorali.

È evidente che si otteneva così una «ubriacatura» dell’io vegetativo profondo nei centri ipotalamici, sedi delle emozioni, con la passeggera euforizzazione (allegria) che una bevuta provoca, per esempio, su un depresso stabile. Si pratica ancora, la terapia Moricca? Ricordo solo che il dottor Moricca fu poi denunciato e condannato perchè si faceva pagare privatamente per la sua «cura». Da allora, lo stesso discredito deve aver affondato lui e la sua metodica.

Il cancro e le malattie circolatorie (infarto) sono oggi la prima causa di morte; esse aumentano inesorabilmente nella popolazione ad un ritmo pressoché esponenziale, senza flettere mai; c’è una relazione fra le due?

J. B. Calhoun
  J. B. Calhoun
L’esperimento dei topi di Calhoun rivelò che lo stress cronico da sovraffollamento e disordine sociale aveva prodotto negli individui un esaurimento, talora un’atrofia delle surrenali troppo sollecitate: sono queste ghiandole endocrine destinate a preparare l’animale alla «fuga o aggressione» davanti ad un pericolo; emettono cortisone, il vasocostrittore che porta il sangue agli organi che servono come cuore e polmoni, aumenta la pressione arteriosa, prepara i muscoli allo scatto. Ora, è chiaro che l’enorme aumento del numero di individui «con la pressione alta», prodromo di massa degli infarti ed altre affezioni circolatorie fatali, è una manifestazione di «iper-surrenalismo» parimenti cronico di noi umani che viviamo in agglomerati urbani sovraffollati, in continuo e stancante contatto psichico con estranei forse pericolosi o da desiderare sessualmente, come i topi di Calhoun.

Il cortisone è anche un potente immuno-soppressore. Lo si somministra in dosi enormi ai trapiantati per addormentare la reazione di rigetto. La sua produzione cronica ridurrà cronicamente la capacità del sistema immunitario di riconoscere, localizzare ed eliminare le cellule «sbagliate» che crescono nel nostro corpo? Non è un disorientamento profondo dell’io vegetativo quello che la vita moderna ci impone?

I topi di Calhoun hanno rivelato comportamenti che ben conosciamo nelle società umane urbanizzate: o de-sensibilizzazione sessuale o al contrario ossessione erotica, sesso di gruppo, teppismo giovanile, ipersessualismo dei bambini, violenza gratuita. Azioni che siamo invitati a dichiarare «normali» (omosessualità) e «conquiste» di un’ideologia della liberazione coscientemente assunta, come l’aborto, l’anarchia e il rifiuto o discredito di ogni autorità, si rivelano fin troppo chiaramente, invece, patologie della sovrappopolazione con una precisa base organica: iperstimolazione ormonale, scadimento del senso di «io» profondo. Con aggravanti che i topi, beati loro, non conoscono.

Da una parte, la civiltà umana riesce a sopprimere le catarsi liberatorie delle popolazioni animali in sovrappiù, come i lemming che si gettano in mare o i cervi che, superata una certa densità (di maschi) per chilometro quadrato, sono colpiti da morìe massicce; ma in più, noi ci portiamo la «megalopoli disumanizzante» dentro, anche se ci rifugiamo in campagna o nelle foreste: nella nostra psiche, nel nostro spirito di moderni o post-moderni.

Non solo gli architetti ci impongono la vita in architetture e urbanizzazioni fredde e aliene, profondamente estranee alla tradizione di quest’arte, un tempo organica; la megalopoli ci raggiunge con le notizie sull’ultima bomba in Iraq, sul massacro indecifrabile avvenuto in Siria; con le notizie disperanti sul rating, sulla crisi economica senza soluzione, l’ultima uscita di Berlusconi, lo sfruttamento dei parassiti pubblici sul nostro lavoro privato, l’angoscia per il figlio che non troverà mai più lavoro; e in più i calcoli dell’arrivismo nostro o altrui, la sete di consumo, il desiderio sensuale continuamente sollecitato a vuoto dalla pubblicità e dalla «civiltà dell’immagine», l’aggressione immotivata o la paura di subirla.

Per questo Speciani diceva che «l’uomo stesso è un ambiente (cancerogeno)», e citava non so quale oncologo americano: «Ai cani non viene il cancro perchè non leggono i giornali» (adesso, anche ai cani che condividono lo stress padronale). Diceva anche: nessuno saprà mai quanti cancri ha evitato una confessione sacramentale ben fatta, un atto di perdono dato o ricevuto, l’orazione fatta con fede. Si domandava quali malattie avrebbe sviluppato il figlio del ricco mercante umbro Pietro Bernardone, se avesse accettato di diventare come il padre un commerciante di stoffe invece che – denudandosi di ogni abito e bene – il Poverello di Assisi: colmo da quel giorno di «letizia», mai più travolto dai chiari sintomi di depressione psichica di prima, quand’era ricco.

Infatti Speciani temeva soprattutto, come causa profonda del male nei suoi pazienti, l’attitudine tipicamente borghese di continuare con triste eroismo in lavori, impieghi e attività che non danno più niente a chi li fa, se non lo stipendio, e cui tuttavia manca l’ardire di abbandonare per il «salto nel vuoto» rischioso, ma risanatore. Additava insomma la disperazione: esistenziale, di più: teologica, il fuggire alla domanda sul «perchè», sul «che senso ha». Oggi additerebbe il fatto che per la prima volta nella storia recente, affrontiamo una crisi epocale senza più un’ideologia di massa, una fede condivisa, o una Weltanschauung; indifesi di fronte al senso di trovarci ad un capolinea della storia, senza futuro da costruire o da chiedere a un Dio cui non si crede più; un’assenza di risorse che sapeva non erano solo confinate al mentale, ma riflesse anche dal corpo e dal suo potente risanatore interno.

Forse è questo il vero motivo per cui si continua a cercare la «cura» del cancro nella direzione ostinatamente sbagliata, nel DNA, nelle cellule, nei virus. Quella vera, risolutiva, esigerebbe un risanamento della nostra intera società e civiltà planetaria, che non siamo pronti ad affrontare.



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