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Quasi moneta per noi PIGS
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La Merkel ha escluso ogni «salvataggio» della Grecia, che schiacciata dall’euro forte e dai costi della sgangherata amministrazione pubblica è sull’orlo dell’insolvenza. Ma la Grecia è un Paese troppo piccolo e debole per permettersi il default e affrontare anni futuri in cui nessuno vorrà più prestarle un cent, dato che cesserebbero immediatamente i trasferimenti che riceve dalla UE. Non può svalutate come ha fatto l’Inghilterra. Dunque, deve tagliare la spesa pubblica per rimetterla in linea con gli introiti fiscali, che diminuiscono perchè il turismo langue (l’euro forte lo rende meno «competitivo») e i noli navali, grande atout della Grecia, calano per la depressione mondiale.

Un vicolo cieco. Che fare?

Due economisti britannici (uno ha un nome greco ma insegna ad Oxford) (1) danno ad Atene un consiglio, che ritengono possa valere per tutti gli altri Paesi che i british chiamano senza complimenti PIGS: Portogallo, Italia (spesso sostituita con Irlanda), Grecia e Spagna. Ovviamente, in inglese, «pigs» significa maiali.

I due propongono ai maiali di seguire l’esempio della California, altro Stato senza sovranità monetaria i cui introiti fiscali non bastano a pagare le spese pubbliche. La California paga i suoi dipendenti e i servizi con cambiali. Solo che la Grecia potrebbe chiamare le sue cambiali «dracme» e il Portogallo escudos. Farne delle sub-monete ad uso interno. Come?

«Il governo del Portogallo dovrebbe varare un decreto che sancisca l’obbligo di accettare questi ‘escudos-cambiali’ per tutti i pagamenti interni di beni e di servizi, escluso il pagamento delle imposte, nè per i pagamenti fra portoghesi e residenti esteri. Tutti i salari, del settore privato come di quello pubblico, dovrebbero essere pagati in tali ‘escudos’, così come gli interessi che i debitori portoghesi pagano ai creditori portoghesi. I depositi dei residenti e i prestiti ai residenti da parte delle banche si farebbero in escudos, tutti gli altri resterebbero in euro».

I due si chiedono: come si manterrebbe il valore di questa sub-moneta (cambiale, promessa di pagamento), impedendo che si inflazionasse come gli assignats della Rivoluzione Francese, o dell’iper-inflazione dello Zimbabwe? La promessa degli Stati-PIGS di redimere le cambiali a scadenza nel loro controvalore in euro non sarebbe creduta nemmeno dai più ingenui.

I due propongono: «Si noti che lo Stato, le cui tasse restano pagate in euro, sarebbe ‘long’ (attivo) in euro, mentre il settore privato portoghese sarebbe ‘short’ in euro, ma abbondante in ‘escudos-cambiali’. Sicchè lo Stato potrebbe trasferire il suo sovrappiù in euro alla Banca Centrale, chiedendo alla Banca Centrale di gestire il cambio euro-escudo, in modo che si stabilizzi, diciamo, ad un 25% di svalutazione interna».

La percentuale di svalutazione dovrà essere calcolata con molta cura, avvertono i due economisti. E la Banca Centrale nazionale può rifiutarsi a questo gioco, come le dà diritto il trattato di Maastricht.

«Ma in quel caso il Tesoro portoghese può farlo (il cambio euro-escudo) da sè».

Il cambio dovrebbe essere «gestito, però non agganciato» all’euro, dunque – se ben capisco – lasciato fluttuare entro certi limiti. «Lo escudo dovrà essere non-convertibile. I non residenti avranno il divieto di prenderlo in prestito», eccetera.

In questo modo, dicono i due autori, «tutti i rapporti monetari con l’estero compresi gli interessi sui pagamenti, rimangono invariati. All’interno, i rapporti fra prezzi e salari, tassi tributari, eccetera restano invariati. Ciò che cambia è il rapporto tra pagamenti interni ed esterni (tutti i pagamenti dei turisti rimarranno in euro). I salari e i costi dei portoghesi invece scenderanno in confronto al loro livello precedente, i carichi fiscali restano gli stessi, ma la migliorata attività economica aumenterà gli introiti, e ci sarà una riduzione, misurata in euro, degli interessi pagati ai residenti portoghesi».

Sarebbe un compromesso faticoso e per niente simpatico, ammettono i due, ma «proteggerebbe il sistema bancario tedesco (ah, dunque è questo lo scopo, ndr), salverebbe l’esistenza dell’euro, e per le zone dell’eurozona a rischio insolvenza sarebbe la scelta meno peggiore».

Non mi sono chiare tutte le conseguenze del  sistema proposto, a parte che la legge di Gresham («La moneta cattiva caccia la buona») porterebbe ad una tesaurizzazione degli euro, che sparirebbero dalla circolazione. Non mi è chiaro come i portoghesi (greci, italiani) potrebbero pagare le tasse in euro, se i loro salari e compensi saranno in sub-‘escudos’ (sub-dracme, o sub-lire). Mi è chiaro che il sistema provocherebbe una riduzione dei salari del 25%, tanto quant’è più bassa la «competitività» dei portoghesi, con la vaga speranza che i prezzi seguano nel calo. Magari qualche lettore può darci lumi migliori.

In ogni caso, va detto che la Banca Centrale Europea teme come la morte (sua) l’uscita dall’euro di qualche Paese, e così, il 19 gennaio scorso, ha emanato una «nota giuridica» che minaccia fulmini a chi osasse  staccarsene. La minaccia della BCE consiste in questo: L’uscita dell’euro significa l’espulsione immediata dall’Unione Europea (La nota giuridica si trova qui).

Si noti che nulla di questo è previsto nel Trattato di Maastricht; se mai, a decidere l’espulsione dovrebbe essere il parlamento europeo, poveretto. E’ la prova che sono i banchieri in Europa a dettare legge, e a cambiarla come fa loro comodo.

La BCE, del resto, lo conferma con aperta arroganza nella sua «nota giuridica»: «50 anni di costruzione europea», dice, «hanno creato un nuovo ordine giuridico» che supera «il concetto largamente obsoleto di sovranità», ed impone «una limitazione permanente al diritto degli Stati».

Se è diventata «obsoleta» la sovranità, lo spazio in cui si esplica la democrazia, è diventata obsoleta la democrazia: è dunque ovvio che comandino i banchieri e le lobby finanziarie, come oligarchia irresponsabile e incontrollabile.

Dunque siamo schiavi di lorsignori. E la BCE agita il bastone: «Nessuno Stato può sperare in un trattamento speciale»: nè la Grecia col suo 22% di disoccupati, nè gli altri PIGS, avranno alcun aiuto. Taglino i salari e le spese sociali. E non provino ad uscire (Incroyable: la BCE prévoit un scénario de rupture avec l'euro).

E qui, però, dobbiamo fare un discorso su noi italiani. Abbiamo pubblicato recentemente una tabella del Fondo Monetario sulle bilance dei conti correnti (essenzialmente, per semplificare, il rapporto fra export e import). Nel 2007, la Germania era il secondo Paese esportatore del mondo, secondo solo alla Cina, con un attivo commerciale di 252.500 miliardi di dollari. Eppure ha l’euro.

Come mai l’Italia è al quint’ultimo posto, con un passivo di -52.725 euro? La nostra struttura industriale è in qualche modo sovrapponibile a quella tedesca, con punte d’eccellenza (nella macchine utensili siamo sempre  ai primi posti) e potrebbe far concorrenza ai tedeschi, se limassimo i costi. Che cosa significa l’espressione «il lavoratore italiano è meno competitivo»?

In busta paga, il lavoratore italiano è pagato come fosse il meno competitivo d’Europa, ancor meno dello spagnolo;  il lavoratore germanico - che pur ha sopportato tagli dolorosi - guadagna ancora il 40% in più.

A rendere non competitivo il lavoratore italiano è  il salario lordo. Troppo costoso il sistema previdenziale, il sistema sanitario, troppo pesante il prelievo fiscale. In parole semplici: a rendere non-competitive le nostre manifatture è il costo che paghiamo per mantenere la Casta, le sue clientele, le  ruberie e malversazioni e inefficienze delle burocrazie e cosche politiche comunali, provinciali, regionali, statali. E’ il costo della «interposizione pubblica», ossia delle mille autorizzazioni, licenze, marche da bollo, norme punitive, ritardi voluti e persecuzioni fiscali cui le pubbliche caste assoggettano l’attività privata, per impicciarsi, sorvegliare il cittadino visto come un perenne sospetto,  e scremare qualche ulteriore balzello da ogni attività economica.

Inefficienze, sprechi, ruberie costano, secondo il sociologo torinese Luca Ricolfi, sui 45 miliardi di euro l’anno. L’Italiano ha un introito annuo medio di 14 mila euro l’anno, mentre un parlamentare - tanto per cominciare - ha emolumenti da 18 mila euro al mese. E non parliamo delle spese folli in aerei di Stato, auto blu, scremature e tangenti nella Sanità regionale, milioni di insegnanti che sfornano analfabeti, un sistema fiscale che sa far pagare solo i redditi fissi...

Per questo, e solo per questo, non possiamo «competere» con l’industria tedesca. Il problema sta lì. E da lì deve cominciare la cura dimagrante.



1) Charles Goodhart is a professor at the Financial Markets Group, London School of Economics. Dimitrios Tsomocos is a University Reader and fellow, Said Business School and St Edmund Hall at Oxford University. (The Californian solution for the Club Med)


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