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A Parigi, lievi tintinnii di sciabole (speriamo)
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Il nome del Generale Didier Tauzin può non dire nulla in Italia. In Francia, è una figura altamente rispettata e nota per non mandarle a dire. Tra il ‘92 e il ’94, comandante dei parà di Marina (1er Régiment Parachutiste d’Infanterie de Marine) fu paracadutato con un centinaio di uomini in Ruanda, in mezzo al carnaio degli huti contro i tutsi. L’ordine di Parigi era alquanto vago: demmerdez-vous. In seguito il suo reparto fu accusato, dalle sinistre in patria, di aver partecipato al genocidio: contro la verità («Abbiamo salvato due milioni di uomini»), e abbandonato dal Governo alla calunnia mediatica («Ci hanno descritto come Waffen SS!»). Da allora, il Generale ha difeso sempre ad alta voce l’onore dei suoi uomini e della Francia.

Adesso ha scritto un libro: il titolo è «Ricostruire la Francia».

Sotto, nella fascetta rossa, il Generale parla in prima persona: «Come ogni ufficiale francese, ho scelto di servire la patria a rischio della mia vita. Sono stato formato per decidere, restar saldo nelle avversità, federare le energie, preparare l’avvenire a lungo termine. Non è questo governare?».

Oltre che una autocandidatura al Governo, questo è tecnicamente un ‘pronunciamiento’ – una dichiarazione di princìpi, al popolo o alla truppa, da parte di alti gradi militari, cui può seguire o no un colpo di Stato, secondo che la dichiarazione incontri o no il favore degli altri comandi e del popolo. Il Generale Tauzin, diplomato all’Accademia di Saint Cyr, non può ignorarlo; come minimo, è sintomo di ciò che per eufemismo si dirà «un malessere degli ambienti militari».

Il contenuto del libro-pronunciamiento è indicativo. Tauzin chiama «a difendere la Francia o ciò che ne resta, visto che da decenni è stata fatta a pezzi da una moltitudine di politicanti che si sono susseguiti in questo compito, in nome di un’Europa che non è né federatrice né fonte di speranza, e di un mercato transatlantico che moltiplicherà i mali». Mette dunque in rilievo la illegittimità fondamentale del sistema.

In un’intervista alla Radio privata I&M, ha detto: «I partiti hanno colonizzato lo Stato ed hanno messo la nazione al servizio dello Stato, hanno asservito i francesi ad obbiettivi di parte – è contrario alla dignità umana».

Nel suo breve saggio, il Generale elenca gli elementi quel che ritiene un vero e proprio saccheggio della sovranità nazionale. Le nostre frontiere? Non sono che «un’illusione gestita da Bruxelles... i confini che dovevano proteggerci sono oggi un imbarazzo da cui liberarsi per ragioni geopolitiche e finanziarie». Le imprese di cui lo Stato è azionista vengono privatizzate a ritmo accelerato, «oltre 50 negli ultimi anni. (Le privatizzazioni) sono divenute quasi un obbligo dopo il Trattato Transatlantico. Il patrimonio francese, ricchissimo, viene svenduto a chi può pagare»: il Katar ha comprato hotel di lusso, casinò, una parte dei Champs Elisées… «La nostra Borsa (esisteva dal 1639) è stata venduta al NYSE (New York Stock Exchange, Wall Street) dopo essere stata fusa con le altre borse europee in Euronext, poi acquisita dal NYSE. Non abbiamo più una moneta nazionale. Il nostro debito pubblico non è più francese, dal 1974 con la cosiddetta legge Pompidou-Rotschild, è stato accaparrato al profitto delle banche private. Il potere decisionale del Governo è prossimo all’inesistenza: quando non è la finanza a decidere e imporre, è la UE che decide l’80% delle leggi nazionali».

Di fronte all’accumularsi di problemi, disoccupazione, crisi finanziaria, insicurezza, Ucraina, jihad, l’agone politico risponde con la «cacofonia. Né capo, né testa, né volontà. Perché questi mali, benché gravissimi, non sono che sintomi di un male più profondo». Quale? «Il sistema disastroso dei partiti», risponde Tauzin; quello che ha svenduto la sovranità; è una «vera dittatura che s’è reinstallata progressivamente dalla morte del Generale De Gaulle, ed è mortale per la nostra patria. Asservisce i francesi a strategie di parte e carrierismo, impedisce l’emergere di capi al servizio della Francia e all’altezza degli eventi che si preparano, addormenta tutti nel comfort ingannatore di una facilità che non durerà. Questo sistema mortifero è condannato. Se non viene sostituito presto, crollerà trascinando la Francia nel caos».

In Italia, un simile proposito , finirla col «regime disastroso dei partiti», è semplicemente impronunciabile; è «fascismo», il partitismo essendo un tabù sacralizzato, sinonimo della stessa «democrazia». Gioverà ricordare che in Francia, una personalità non sospettabile della minima simpatia per il fascismo, la resistente e pensatrice Simon Weil, scrisse un «Manifesto per la soppressione dei partiti politici», nei quali denunciò non già gli organi indispensabili della democrazia ma i traditori della democrazia, organismi che distorcono e fratturano «il sentire comune» dei cittadini – il senso di unità fondamentale che deve sussistere al di là delle divisioni, e che si chiama senso del comune destino – per perpetuare la propria sopravvivenza dopo che hanno esaurito al loro utilità sociale.

In Francia, scrive il Generale, la società «costruita sul rifiuto delle realtà umane, la demagogia e la confusione dei valori, ci ha asservito all’ideologia, al potere e al denaro». Questa però ineluttabilmente «sta morendo», Occorre far nascere «la società che torna ai fondamenti politici e culturali della nostra nazione e dell’Europa».

Al primo posto tra i fondamenti, Tauzin (che è credente e in Senegal ha aperto con sua moglie scuole primarie) mette la religione: «La Francia è impregnata di 19 secoli di cristianesimo. S’è costituita attorno alla fede in Gesù Cristo; negarlo è una menzogna gravida di pericoli. Affermarlo illumina la vocazione (della Francia) e fonda solidamente anche il principio di laicità».

Difficile giudicare se l’ex comandante dei parà sia un velleitario. Del tutto isolato non è. Nei giorni scorsi è apparso altro indizio del «profondo disagio» (eufemismo) degli altri gradi francesi. È accaduto dopo le manifestazioni di massa seguite all’eccidio di Charlie Hebdo, l’esibizione della bestemmia come «libertà d’espressione» e difesa «dei nostri valori»; con un tono – inutile negarlo – violentemente anche se ipocritamente persecutorio dei musulmani di Francia.

Il Generale n’est pas Charlie

In questa, un altro Generale – il Generale Henry Poncet, nato ad Orano (Algeria), una vita di operazioni in Africa coi corpi speciali – ha scritto e pubblicato una «lettera al capitano Djiamel», un suo ufficiale, musulmano. A questo suo sottoposto, forse fittizio ed esemplare, Poncet esprime senza eufemismi il suo disgusto per la strumentalizzazione della politica delle emozioni suscitate dalla strage di Charlie.

«Comprendo il tuo disagio», scrive al capitano Djiamel, «perché mi ricordo il tuo sguardo inquieto quando tu – allora giovane sottufficiale – fosti assegnato al mio Stato Maggiore ed io, nel quadro del giro che usavo fare regolarmente, entrai d’improvviso nel tuo ufficio. Ti sei accorto subito che io avevo notato il tuo tappeto di preghiera piegato in un angolo. «Praticante?», ti avevo domandato. Mi avevi risposto sì, e ho visto il tuo sollievo quando avevo riposto: «Soldato francese e musulmano, pas de problème».

Oggi, prosegue il Generale parlando al capitano Djamel, «mi dici di esserti rifiutato di partecipare a qualunque manifestazione» (tipo Je suis Charlie, ndr). Ti capisco. Lo slancio emotivo e spontaneo è stato strumentalizzato per lanciare un’operazione di manipolazione delle masse, il che ha provocato queste grandi manifestazioni. Ti rassicuro: se fossi stato in Francia in quei giorni, anch’io me ne sarei astenuto».

«La libertà d’espressione non scusa tutto, e non giustifica per nulla il diritto alla caricatura oltraggiosa, che io assimilo all’insulto più spregevole», prosegue il Generale Poncet. E anche lui, dice, ha trovato ridicolo «l’aver elevato queste caricature a valore repubblicano, a simbolo di libertà, ad aver dato loro una etichetta nazionale». E cita un passo di Albert Camus: «La libertà assoluta viola la giustizia. La giustizia assoluta nega la libertà. Per essere feconde, l’una deve trovare nell’altra i propri limiti»: e sempre sulla scorta di Camus ricorda che per i greci «Nemesi, la dea della misura, (è) fatale agli smisurati».

Con l’anti-islamismo di massa riacceso dai politici, continua il Generale, ed a questo punto non si rivolge più al capitano Djamal, , «è tutto un insieme della nostre operazioni psicologiche (di integrazione di musulmani nelle forze armate, ndr). Spero che le nostre autorità non dimentichino che la libertà d’espressione si declina con la responsabilità. Ma la classe politica, senza distinzione, ha voluto nascondere la sua incuria e la sua incapacità, da vent’anni a questa parte, di esercitare la funzione sovrana della Stato». La classe politica, saltando sulla strage di Charlie ha fatto quadrato «approfittando a fondo dell’emozione per non trovarsi in posizione di accusata dal popolo».

Di nuovo rivolto al capitano Djiamel, lo invita a non abbassare gli occhi per il fatto di essere musulmano, esser fiero. «Del tuo esercito, Djamel, hai il diritto di esser fiero, fiero di te, fiero dei tuoi fratelli d’arme. Tu puoi riguardare la bandiera del tuo reggimento senza abbassare lo sguardo. Tu hai diritto al rispetto dei tuoi concittadini, del tuo Paese, del tuo comandante in capo, perché tu ti batti per la libertà, l’uguaglianza, la fraternità».

Un clamoroso intervento politico, un tono alto, da statista, che non può nemmeno essere capito in Italia. Ma l’Armée ha una tradizione insieme gloriosa ed atroce che i comandi italiani, dell’8 settembre non hanno mai mostrato. È la «fermezza nell’avversità» di cui parla Tauzin.

Dal quadrato formato a Waterloo dalla Vecchia Guardia che «muore ma non si arrende», alla tragica giornata di Queretaro dove la Legion difese senza alcuna speranza Massimiliano d’Austria, da tutti abbandonato, facendosi decimare; dall’eroico sacrificio inutile di Dien Bien Phu nella giungla d’Indocina (Vietnam), dalle brutali operazioni segrete nel Marocco non registrate dalla storia, fino alla spaventosa e sanguinosa contro-guerriglia per tenere l’Algeria unita alla Francia e proteggere la popolazione fedele, è una forza che sa di aver diritto al rispetto dei cittadini, perché «ha servito la patria con la propria pelle», obbedendo ad una classe politica mai all’altezza di quel sacrificio, che poi l’ha costantemente abbandonata nel colmo delle difficoltà.

È anche un’armata altamente politica: nata dai sanculotti vincitori a Valmy ideologicamente rivoluzionaria, imperiale al seguito di Napoleone (il primo Generale salito al potere con un putsch), i pronunciamientos fanno parte della loro storia, si deve dire, d’onore. Nel 1958, i Generali Massu e Salan fecero il colpo di Stato in Algeria perché – reduci dall’Indocina dove avevano dovuto abbandonare la popolazione fedele vietnamita a cui avevano promesso, sul loro onore di soldati, protezione – sentivano che Parigi li stava abbandonando ad una nuova disfatta; si ribellarono a Parigi per l’onore della Francia e perché sentivano la protezione dei cittadini fedeli come il dovere primo e supremo. De Gaulle, che li condannò, era lui stesso salito al potere con un quasi-putsch, e si è formato su misura una costituzione autoritaria, di cui adesso profittano nani come Sarko e Flamby.

Infine – ma non meno importante – è un’armata che ha una vera esperienza d’integrazione di diverse nazionalità. Fra i tredicimila asserragliati a Dien Bien Phu oltre a tre battaglioni francesi e uno della Legione, c’erano due battaglioni di vietnamiti, tre di tirailleurs algerini, uno di marocchini. Ancora: quando l’Armée sconfitta dai politici e non dal nemico si ritirò dall’Algeria, ben mezzo milione di soldati algerini con le famiglie (gli harkis) preferirono seguirli nell’ignoto futuro in Francia, ad una vita di discriminazione sociale — però da francesi.

È questa storia tremenda, dolorosa ed oscura di cui si fa forza il Generale Poncet quando dice al capitano Djamal: «Puoi essere fiero dei tuoi fratelli d’arme». Non dice «compagni d’arme», ma «fratelli»: la fraternità oltre la razza e la nazionalità che è nata dal sangue mescolato insieme, sotto il piombo a Sidi Bel Abbes, sotto i lanciafiamme a Dien Bien Phu, nella controguerriglia e persino nel delitto di Algeri. Un delitto vissuto come dovere d’onore, come saper «intrare nel male, necessitato» di Machiavelli, in obbedienza all’ordine del Bonaparte in Spagna: «Envers les partisans, on se bat à la partisane». È significativo che entrambi i Generali di cui si parla siano nati Outremer: uno a Dakar, l’altro ad Orano in Algeria. Sono eredi viventi di una storia oscura, a volte atroce, nobilitata dal sangue versato e dall’obbedienza.

È tutta un’altra storia, al confronto dei nostri Badoglio.

Non è certo un caso se Tauzin si autocandida così ingenuamente ed apertamente a sostituire i politici incapaci e corrotti al Governo, e può proclamare l’urgenza di «distruggere il disastroso sistema dei partiti». In fondo, nei passaggi di crisi politica insolubile, da Bonaparte al generale De Gaulle, la Francia – contrariamente all’Italia – ha sempre potuto pescare le «riserve della repubblica» dall’ambiente militare.

La crisi politica della democrazia è oggi irrisolvibile, perché terminale. La democrazia partitica si rivoltola senza fine nel brago della propria corruzione, dà ai cittadini uno spettacolo scandaloso e un esempio ed un incitamento all’immoralità, e non può fare altrimenti perché – come diceva quel tale (1), ma anche il Generale Tauzin – la corruzione non è la causa, ma il sintomo della putrefazione del sistema.

È la fase in cui i partiti hanno occupato la «legalità» ma hanno del tutto perduto – oggi svenduto – la legittimità. Governano facendosi leggi delittuose, che sono «legali». In questa fase, c’è solo un modo di riportare la legittimità: compiere una decisione «illegale», che è la rivoluzione o il colpo di Stato.

È questo il punto politico radicale, ed è anche il più censurato ed escluso dal discorso nelle «democrazie» terminali. Personalmente ricordo che dopo l’11 Settembre, a Washington, vari ambienti (che capivano che il mega-attentato di Al Qaeda era un false flag e che la Casa Bianca era occupata da un potere indebito e criminale), sperarono che i Generali USA compissero un «colpo di Stato democratico», sbattessero fuori Bush e Rumsfeld e i loro consiglieri neocon e restituissero le istituzioni al popolo. La speranza fu vana, ovviamente; i Generali e gli ammiragli USA – poco meno dei nostri – sono dei carrieristi e dei conigli burocrati. In Francia, questa speranza è forse ancora possibile.

Una parte non piccola della popolazione, votando FN, partecipando in quantità imprevista alle manifestazioni a difesa del matrimonio eterosessuale, fornisce un necessario sostegno popolare al rigetto della società «costruita sul rifiuto delle realtà umane, sulla demagogia e la confusione dei valori». Il lieve tintinnio di sciabole che si fa sentire a Parigi certamente allarma gli Hollande e i burattini, nani e ballerine che occupano le scarpe di De Galle; sia consentita una piccola speranza.

Viviamo in tempi interessanti; la Francia almeno.




1) Quel tale è Giuseppe Mazzini, che cito turandomi il naso: «La sicura circolazione dei capitali si restringe; le imprese si arrestano nel dubbio del dì dopo: il consumo e la produzione vanno scemando: crescono soltanto, indizio tristissimo, gli arretrati delle tasse. E un’altra piaga, pessima tra tutte cresce gigante: l’immoralità. L’opinione diffusa che ogni cosa è provvisoria, il senso di un avvenire imminente e mal noto, suscitano l’egoismo e il desiderio di provvedere a se fino alla colpa, prima che giunga il naufragio. Atti nefandi trapelano dalle alte sfere, dove l’instabilità del potere genera l’avidità; e il veleno filtra dalle alte alle inferiori; l’esempio dei capi è raccolto dalla turba dei subalterni che hanno famiglia da nutrire e magro stipendio. Le colpe provate fanno facilmente credere a ogni accusa. La diffidenza di tutti e di tutto diventa condizione normale al Paese. Tra le colpe e le calunnie il senso morale si sperde: i vincoli tra i cittadini si allentano e minacciano di rompersi. Tutto questo è conseguenza logica , inevitabile dell’esistenza violenta della istituzione che ha inalberato il vessillo della resistenza al potere a tutti i costi dopo aver diviso in due campi ostili la Nazione e il Governo. (....) Quando le cose sono a quel punto, suonano per l’istituzione gli ultimi tocchi dell’agonia. L’ultimo affannoso alito della consunta sua vita dipende da un sùbito momento di saggia audacia negli uomini della istituzione futura, da un lieve errore che essa sarà trascinata a commettere». G. Mazzini, L’agonia di una Istituzione, 1870.



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