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Tacete giornalisti, la demokratia vi uccide
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Durante l’ultimo massacro a Gaza, l’armata israeliana ha ammazzato tre giornalisti che erano sul campo, prendendoli deliberatamente di mira: Mahmoud al-Kumi e Hussam Salama, cameramen di Al-Aqsa TV, uccisi da un missile che ha distrutto la loro auto, e Mohamed Abu Aisha di Al-Quads Educational Radio. Altri sei giornalisti sono stati feriti dall’aviazione israeliana (uno ha avuto una gamba amputata) che ha bombardato un edificio che era sede di uffici di stampa e media esteri: fra cui il britannico Sky News, Russia Today il cui ufficio è stato direttamente colpito (per fortuna di notte quando non c’era nessuno) per silenziare le trasmissioni dell’emittente in arabo, l’iraniana Press TV, la saudita Al Arabiya, e a cui fanno capo i giornalisti europei che coprono la situazione a Gaza.

Ma non è questa la notizia, Israele ha fatto la stessa cosa molte volte La notizia clamorosa è che il New York Times, il primario quotidiano Usa molto vicino (a dir poco) ai sentimenti ebraici, ha fortemente deplorato queste le uccisioni mirate in questi termini:

«...tre dipendenti di organizzazioni di stampa sono stati uccisi a Gaza da missili israeliani. E invece di dire che è stato per errore o negare la responsabilità, una portavoce della Israeli Defense Forces, la tenente colonnello Avital Leibovich, ha detto alla Associated Press: “i bersagli sono individui che hanno rilevanza rispetto ad attività terroristiche”. Dunque siamo arrivati a questo: si può giustificare l’uccisione di giornalisti con frasi amorfe quali “rilevanza rispetto ad attività terroristiche”. Siamo entrati in una nuova era dell’informazione nei conflitti contemporanei...» (Using War as Cover to Target Journalists)

Apriti cielo. Non solo il giornale è stato sepolto dalle lettere infuriate dei «lettori indignati» che minacciano di cancellare l’abbonamento e (se imprenditori) di non dare più la pubblicità al giornale – un rituale ben noto a qualunque direzione di media che nel mondo si provi a deplorare i crimini sionisti, ma l’autore dell’articolo, David Carr, è stato attaccato da due pubblicazioni ebraiche, Commentary e Tablet. Gli articolisti, rispettivamente Alana Goodman e Adam Chandleri, hanno usato entrambi gli stessi argomenti, come diramati da unica centrale: da una parte, che Israele aveva ragione e che quelli erano davvero terroristi non giornalisti, dato che Al-Aqsa è la tv di Hamas; e poi, gli Usa fanno lo stesso (Alana Goodman: «Samir Khan, recentemente eliminato da un drone della Cia, era direttore del periodico Inspire di Al Qaeda») e quindi perché pretendere che Israele sia più delicato nel trattamento dei media? E perché non parlate piuttosto di come Siria, Russia e Messico (sic) ammazzano tanti più giornalisti di Israele? (Chandler). (Times Mistakes Gaza Terrorists For Journalists)

In Messico, i giornalisti sono sì ammazzati, ma da gangster spadroneggianti: l’uccisione di giornalisti sul campo da parte di Stati e delle loro aviazioni è effettivamente una novità. Secondo il Committee to Protect Journalist (e Reporters San Frontières conferma) dei 119 inviati uccisi mentre coprivano conflitti o situazioni di grave pericolo, un terzo sono stati eliminati da dipendenti di Stato. (Will UN plan address impunity, security for journalists?)

È davvero cominciata una nuova epoca della libertà occidentale, e ovviamente è l’unica democrazia del Medio Oriente ad aver aperto questa nuova strada del diritto.

Dal 2008 l’esercito israeliano (la sola democrazia, etc,) ha fatto irruzione in una dozzina di redazioni palestinesi ed ha confiscato, ossia rubato, il materiale di emissione di 14 stazioni radio palestinesi. (Ramallah TV station sues Israel over stolen equipment)

Il sopra citato Committee to Protect Journalists ha denunciato, l’ottobre scorso, l’arresto i due giornalisti palestinesi: arresto dovuto al solo fatto che i due stavano coprendo le manifestazioni di protesta contro l’espansione delle «colonie» talmudiche; ultimi di una lunga serie di giornalisti arrestati, e detenuti fino a sei mesi senza capo d’accusa, come può fare la «giustizia» dell’unica democrazia etc. quando si tratta di palestinesi, ossia di animali parlanti. (Israeli soldiers arrest two Palestinian journalists)

La Federazione Internazionale dei Giornalisti (il sindacato della professione) ha chiesto invano l’anno scorso, il rilascio di due donne giornaliste palestinesi, Israa Salhab e Raed al-Sharif, imprigionate senza processo. Non solo la giustizia giudaica non ha nemmeno risposto, ma la Federazione Israeliana di Giornalisti ha preteso le scuse immediate della federazione mondiale, altrimenti minacciando di abbandonarla. (Israeli union defends internment of Palestinian journalists, threatens to leave international federation)

E quasi dimenticavo (quanti sono i casi, nella democrazia unica e sola, etc.): nell’aprile 2008, l’esercito israeliano ha deliberatamente trucidato il giornalista Fadel Shanaa, reporter-cameraman per la Reuters, perché copriva le angherie commesse contro i civili. (Israeli forces in Gaza "willfully kill" journalist)

Dalle cronache:

«Dopo aver ucciso Fadel con un primo missile, un secondo missile sparato da un carro armato ha centrato direttamente l’auto della Reuters in cui Fadel viaggiava, uccidendo due bambini e un adulto che si trovava nelle vicinanze, ferendo altre 12 persone tra cui cinque bambini. Il tecnico del suono della Reuters, Wafa Abu Mezyed, 25 anni è rimasto ferito».

Due missili. Due, per essere certi di non sbagliare. Quella volta protestò ufficialmente la stessa Reuters, il pezzo da novanta delle agenzie giornalistiche e un pochino ebraica. Altrettanto ufficialmente, l’avvocatura generale militare di Israele ha risposto che, dopo accurata inchiesta, aveva giudicato «appropriata» l’azione dei soldati israeliani, ossia l’assassinio del giornalista e dei civili e passanti (trascurabile prezzo da pagare, per disciplinare la libertà di stampa). (No justice for murdered journalist)

Ora, la furiosa protesta dell’ebraismo contro il New York Times comincia a preoccuparci. Va a finire che lo bombardano con i droni?

Chi ha ucciso Arafat ha ucciso Litvinenko


La sola democrazia del medio Oriente non si limita a tappare la bocca per sempre ai giornalisti scomodi. Come noto, il corpo dell’ex capo palestinese Yasser Arafat è stato esumato, su richiesta della vedova, per indagare se per caso non sia stato ammazzato con il Polonio 210, minerale radioattivo potentemente tossico. E ciò, sette anni dopo la sua morte, solo perché un laboratorio svizzero ha scoperto livelli anomali di Polonio negli abiti ed effetti personali del defunto Arafat.

Gli israeliani hanno preteso di controllare le fasi degli esami. Ma vi parteciperanno anche esperti russi; presenza che i palestinesi giudicano una garanzia, ma l’interesse russo ha sicuramente anche un’altra causa.

Come si ricorderà, la sola altra vittima conosciuta di avvelenamento col Polonio è stato il russo Aleksandr Litvinenko, che si diceva un ex agente del Kgb e Fsb, ed ottenne asilo politico in Gran Bretagna; e della sua morte, avvenuta a Londra il 23 novembre 2006, sono stati accusati i servizi segreto russi.

Lo stesso Livinenko, dal suo letto d’ospedale, accusò direttamente Vladimir Putin come mandante del suo strano avvelenamento. Ma, per la verità, nessun giornalista in quella fase ha ascoltato con le proprie orecchie le parole del povero agonizzante; le parole venivano riportate dal suo grande amico Alexander Goldfarb, il solo che entrava nella sua stanza d’ospedale (di terapia intensiva) all’University College Hospital, e che poi riferiva ai giornalisti, e persino alla polizia britannica, le rivelazioni scottanti dell’ex agente Litvinenko.

Alexander Goldfarb
  Alexander Goldfarb
Ma chi è Alexander Goldfarb? Interessante personaggio: ovviamente ebreo, fuoriuscito dall’URSS nel ’75 e riparato in Israele dove ha ottenuto una super-laurea (PhD) in microbiologia al Weizman Institute, è oggi cittadino americano e milita fra i più irriducibili neocon, tipo Michael Ledeen. È un intimo del finanziere Georges Soros, che nel 1992 lo ha nominato direttore della «Soros International Science Foundation». Erano gli anni in cui la “nuova” Russia aveva adottato il programma di «passaggio –urto al capitalismo», la shock therapy consigliata da Geffrey Sachs (J) economista della Scuola di Chicago, ed quindi era cominciato alla grande il saccheggio delle risorse naturali ed umane post-sovietiche da parte di ebrei-russi improvvisamente dotati dei milioni di dollari necessari per comprare, a prezzi da fallimento, beni da miliardi di dollari. Uno di questi era Boris Abramovich Berezovski (J), un gangster (ma con laurea in matematica: siamo in un ambiente di scienziati…) diventato enormemente ricco arraffando un po’ tutto in Russia, fra cui catene tv e giornali; fino a quando Putin, andato al potere, non gli tagliò le mani. Incriminato di reati gravissimi, l’oligarca Berezovski è scappato a Londra, città dalla quale organizza azioni anti-putiniane d’ogni genere, dedicando la sua immensa fortuna (3 miliardi di dollari, secondo Forbes) a questa sovversione.

Nel 2001, Alex Goldfarb appare a Londra a fianco dell’oligarca Berezovski. Il quale lo mette a dirigere la sua benemerita Ong umanitaria (e come no?) International Foundation for Civil Liberties, dedita a finanziare ONG nate «spontaneamente» come funghi in Russia per i diritti civili e umani. Attraverso Goldfarb, Berezovski ha versato 40 milioni di dollari per sostenere la Rivoluzione Arancione in Ucraina. Ancor di più ne ha versati alla criminalità cecena, divenuta esercito di liberazione. Le sue guardie del corpo a Londra sono ceceni tratti da quell’ambiente.

Abramovich Berezovski
  Abramovich Berezovski
È quasi naturale che Livinenko, in fuga da Mosca, bussasse alla porta di Berezovski, e quindi di Goldfarb. Entrambi lo accolsero nella loro cerchia, usandolo ampiamente come accusatore di Putin. Goldfarb divenne suo grande amico, anche perché lo aiutò a entrare nel Regno Unito più o meno legalmente – fino a diventare il suo portavoce non-ufficiale durante le due ultime settimane di vita, quando nessuno poté avvicinarsi al letto dell’agonizzante, tranne lui. È stato Goldfarb a leggere il testo, firmato da Litvinenko morente, in cui accusava Putin di aver ordinato il suo avvelenamento. Tracce di polonio furono trovate dappertutto, anche nell’ufficio di Berezovski...

Stranamente, il padre di Livinenko – che ora vive in Italia – accusa non Putin, bensì gli stessi Berezovski e Goldfarb di aver ammazzato suo figlio. (Alexander Litvinenko's father calls his son a traitor)

Fatto curioso, anche Zhores Medvedev, microbiologo e dissidente dell’era sovietica, è dello stesso parere: Berezovski e Godlfarb hanno orchestrato la morte come parte della loro campagna di menzogne e complotti contro Putin. (ПОЛОНИЙ В ЛОНДОНЕ)

Naturalmente, questa versione non è mai stata presa in considerazione né dai media, né dalla politica e polizia britannica. Però perché no?

Goldfarb è stato uno scienziato di laboratori fra l’altro membro del Public Health Research Institute di New York dove ha condotto studi sul cancro con finanziamenti da milioni di dollari pubblici. Sarebbe utile sapere se in tali laboratori si possa venire in possesso di Polonio 210. O magari in qualche laboratorio israeliano?

Dalle ultime notizie, Goldfarb sta organizzando raccolte di fondi a difesa delle Pussy Riots (1). A tal proposito, è interessante sapere che una nota agenzia di pubbliche relazioni di Londra, la Bell Pottinger, ha avvicinato un famoso agente di cantanti pop e rock con questa proposta: convinci una delle tue pop-star a fare pubbliche dichiarazioni a favore delle Pussy Riots, e riceverà 100 mila euro. Qualche pop star in declino (Madonna) ha accettato: ormai, per lei, 100 mila dollari sono una manna, dato che gli introiti della sua «musica» sono calati (del resto, per rialzare le sue fortune, s’è convertita al giudaismo, un po’ come il «giornalista» Magdi Allam s’è fatto Cristiano). Ma chi ha pagato la Bell Pottinger per questa azione di PR? Basterà ricordare quale è stata l’agenzia che ha più contribuito ad agitare la faccenda Litvinenko nel modo indicato da Goldfarb e Berezovski:
(How Pussy Riot and Berezovsky Plot Revolutions)

Non resta che aspettare i risultati che verranno dall’Istituto di Fisica delle Radiazioni dell’università di Losanna, giusto per scrupolo. Nelle mutande intrise di urina che Arafat indossava al momento della morte, si sono già trovate radiazioni di Polonio 210 in quantità di 180 millibecquerel (la radioattività ambientale non produce più di 5-10 mbq). Il Polonio 210 ha un’emivita di 138 giorni, dopo i quali metà della dose di Polonio decade in Piombo 206. Dunque sono passate venti emivite dalla morte di Arafat all’esame dei suoi resti a Losanna. Ciò significa che la quantità di Polonio negli indumenti doveva essere, al momento della morte 7 anni fa, un milione di volte più grande. È la quantità che ha ucciso Litvinenko. E la moglie di Arafat ha chiesto l’esame proprio perché messa sull’avviso dalla morte dell’ex agente russo fra le braccia, si può dire, di Goldfarb.

Ma se Arafat è stato ammazzato dallo Stato ebraico, la logica per proprietà transitiva pone la domanda: chi ha ucciso Litvinenko? È una domanda da cui mi dissocio con forza. Come si può sospettare che la sola ed unica demokrazia etc. ammazzi non solo i giornalisti che non le piacciono, ma anche i politici avversari?

Fiamma Nirenstein ha già messo le mani avanti molto in anticipo: «I palestinesi vogliono incolpare il Mossad, ma Tel Aviv non aveva interesse ad eliminarlo»... (Il giallo di Arafat? Siluro contro Israele)

Di solito, quando questa gallina canta, il Mossad ha fatto l’uovo. E pensare che Fiamma Nirenstein era una «giornalista» anche lei, prima che l’esimio Berlusconi – mica Renzi – la mettesse a carico di noi contribuenti come parlamentare e portavoce dell’Hasbara. Ma questo tipo di giornalisti non corrono mai rischi.





1) Vale la pena di segnalare qui un altro gruppo cosiddetto femminista simile alle Pussy Riots, FEMEN, fatto di ragazze ucraine. Attivissime sul piano internazionale, ragazze di Femen a seno nudo hanno disturbato una manifestazione di famiglie cattoliche contro il «matrimonio gay»... a Parigi, il 18 novembre 2012. Si erano dipinte fra le mammelle i nobili slogan che tanto piacciono nella sola democrazia etc. e nelle nostre: «Muslims let’s get naked», «In Gay we trust», «Our God is a woman» eccetera; lanciando per giunta liquidi sui manifestanti, al grido: «Ecco lo sperma di Dio!». Le Femen sono quelle che hanno troncato a Kiev una grande croce elevata in memoria delle vittime di Stalin, e manifestato a seno nudo contro la visita del patriarca russo Kirill a Kiev agitando cartelli con la scritta: «ammazzate Kirill» (e foto del medesimo decapitato). Hanno fatto manifestazioni del genere in mezza Europa e inoltre Turchia (dove si sono spogliate in una moschea), Egitto e Tunisia, ovviamente a sostegno delle locali rivoluzioni colorate e per l’emancipazione delle donne dall’Islam oppressivo. Tutto nel (vano) tentativo di farsi arrestare e provocare il caso mediatico, con clamore delle grancasse di «giornalisti» del genere che i missili giudaici risparmiano, e suscitare rabbie anti-islamiche. Le Femen sono una compagnia di giro: chi paga loro i viaggi e gli alberghi? Una giornalista russa infiltratasi nel gruppo ha appurato che le belle femministe itineranti sono stipendiate a 1000 dollari mensili (tre volte la paga media ucraina) e qualcuno copre totalmente le spese delle trasferte. Chi? La giornalista ha identificato tra i finanziatori un miliardario tedesco Helmut Geier, una donna d’affari tedesca Beate Schoeber, e un uomo d’affari americano di nome Jed Sunden. Americano per modo di dire quest’ultimo: ebreo, è espatriato dall’Ucraina, dove risulta però proprietario di Kiyv Post, il giornale in lingua inglese della capitale. Insomma un piccolo Berezovski. Guerra a Putin, provocazioni anti-musulmane, propaganda della « libertà» sessuale e delle nozze omosex: una sola lotta. Molto istruttivo.


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