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La crociata liberista
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Non contento di aver riempito per anni intere pagine con complesse analisi sulla indiscutibile superiorità del modello di sviluppo anglo-americano e di avere poi fornito strampalate previsioni sulla rapida uscita dalla crisi che hanno fatto la fortuna degli sciocchezzari neoliberisti di mezzo mondo, il Corriere della Sera torna alla carica con i suoi vecchi cavalli di battaglia di sempre: tasse, spesa pubblica e burocrazia. La tecnica dei suoi editorialisti è sempre la stessa. Consiste nella sistematica e deliberata trasformazione delle opinioni in fatti, o addirittura in “verità”, che tuttavia, in un inconsueto atto di umiltà, sono ancora scritte con la minuscola.

I temi sono di sicura presa sul lettore medio italiano, soprattutto in questa fase di crisi. Dopotutto chi ama pagare le tasse? Chi non si indigna per uno spreco di qualche ufficio comunale o provinciale? E chi, nelle interminabili code davanti agli sportelli con le veneziane grigio-polvere tipiche della nostra pubblica amministrazione, non ha sognato l’arrivo di un mago che, armato di bacchetta magica, riuscisse a rendere improvvisamente la nostra macchina statale efficiente come quella di un paese scandinavo? La trattazione di questi temi, però, non è mai molto approfondita. Di contro, le conclusioni vengono sempre presentate come granitiche certezze: le tasse ostacolano la crescita, la spesa pubblica deprime i consumi e gli investimenti, la burocrazia opprime la società con i suoi lacci e lacciuoli regolamentari. Semplice no? Senza addentrarci in lunghe e noiose disamine della letteratura economica, che sui singoli punti in esame è assai meno univoca nelle conclusioni di quanto non si voglia far credere, proviamo a dare un’occhiata ai dati. Nel biennio 2010-2012 la spesa corrente dello Stato al netto degli interessi è scesa da 670 a 666 miliardi di euro, passando dal 43,2% al 42,6% del Pil. Non è andata meglio nemmeno alla spesa in conto capitale – quella che serve per gli investimenti – scesa anch’essa da 52 a 37 miliardi di euro. Secondo il Ministero dell’Economia e delle Finanze, negli ultimi due anni il totale della spesa pubblica al netto degli interessi sul debito è sceso dal 46,5% al 45,6% del Pil. Le tasse, invece, sono effettivamente aumentate, dal 46,6% al 48,1% del Pil, non tanto per finanziare una fantasiosa esplosione della spesa che – come abbiamo visto – non c’è stata, ma soltanto per rispettare l’impegno di pareggiare il bilancio entro quest’anno. Un vincolo che – vale la pena ricordarlo – è stato sostenuto per mesi a gran voce dalle stesse firme che oggi lamentano una pressione fiscale troppo elevata. Si tratta di una scelta che senza dubbio permetterà al nostro Paese di presentarsi con il petto in fuori ai prossimi vertici europei, ma facendo pagare alla popolazione un prezzo salatissimo: un Pil che farà segnare per il secondo anno consecutivo un calo del 2%,  una disoccupazione che ormai ha raggiunto i massimi da 35 anni a questa parte e una crisi sociale che non fa che aggravarsi di giorno in giorno.

Non c’è bisogno di conoscere le ultime pubblicazioni del Fondo Monetario per capire che in una fase di recessione che coinvolge quasi tutto il mondo occidentale, con le imprese che si ritrovano con i magazzini pieni di prodotti invenduti e i cittadini che restano senza lavoro e quindi senza reddito, tagliare la spesa per l’acquisto di beni e servizi o per investimenti significa eliminare una delle poche fonti di domanda ancora capaci di evitare il tracollo totale.  Allo stesso modo, non c’è bisogno di una laurea in economia per rendersi conto che se le aziende del nostro Paese si ritrovano con l’acqua alla gola, la ragione primaria va ricercata nella difficoltà di trovare acquirenti per i propri prodotti in un contesto in cui le famiglie non fanno altro che tagliare il superfluo e comprimere il necessario. Abbassare di qualche punto percentuale le tasse e inondare gli imprenditori di incentivi può essere un modo per allentare temporaneamente il cappio che stringe intorno al collo, ma servirà a poco per avviare quel ciclo virtuoso di maggiori vendite, maggiore produzione e maggiore occupazione di cui ci sarebbe bisogno. La crociata ideologica condotta dall’ultima ridotta del vetero-liberismo nostrano è naturalmente ammissibile, perché è legittimo auspicare una società con lo Stato che batte in ritirata lasciando campo libero al mercato.  Basta solo avere il coraggio di riconoscere che – soprattutto in questa fase – questo aspirazione rischia di concretizzarsi a danno dell’intero paese.

Ronny Mazzocchi

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